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2) C’è (o c’è ancora) una specificità del diritto del lavoro rispetto al diritto civile ?
Esiste ancora una specificità del diritto del lavoro, se non altro per il formarsi alluvionale del corpo normativo di cui è indispensabile conoscere l’ evoluzione lontana e recente. Il diritto del lavoro è come una storia che non si può capire se non si conoscono le puntate precedenti.
Ma la domanda allude ovviamente alla tesi secondo la quale il giudice del lavoro del 1973, pensato per attuare lo Statuto, non sarebbe adatto ad applicare, con la necessaria imparzialità, la nuova legislazione “moderna” e liberista favorevole alla precarietà.
Da più parti, si è auspicato un giudice nuovo, più asettico e più “civilista”, privo di nostalgie per il passato.
E’ vero che il rito speciale contiene alcune norme dirette a riequilibrare la posizione della parte più debole (art.421), ma mai come adesso ve ne è stato bisogno se si considera che sono ormai centinaia di migliaia i lavoratori in condizioni più che precarie sul piano giuridico ed economico.
Negli ultimi anni è comparsa per la prima volta la figura dei lavoratori a tempo pieno con “paga sindacale” inferiore ai minimi di cui all’art.36 Cost., che peraltro fanno fatica anche ad accedere alle aule di giustizia.
In questa situazione, non mi pare davvero che la “politicizzazione” del giudice del lavoro possa essere il problema all’ordine del giorno.
Forse sarebbe il momento di prendere atto che la specializzazione prevista dal legislatore del 1973 consiste soltanto e semplicemente nella scelta di dare al settore del lavoro e della previdenza un giudice che sia in grado di capire i fatti, in quanto dotato di un bagaglio professionale specifico (nel quale va compresa l’abitudine a sopportare l’accusa di “scarsa terzietà”, che comunque e sempre gli sarà rivolta).
Del resto, anche i più recenti interventi della Corte costituzionale (come quelli sul c.d. jobs act e sull’art. 92 c.p.c. in tema di spese processuali) sono scaturiti da ordinanze di rimessione che confermano quanto sia necessaria la sensibilità e la specifica preparazione del giudice del lavoro.
In definitiva, il giudice del lavoro non perde affatto la sua posizione di imparzialità se ricorda che – nell’interpretazione della legge – non deve perdere di vista gli artt. 3, II comma, 4 e 36, così come il rispetto della “dignità umana” fissato dall’art.41, I comma, della Costituzione ; infatti questo resta uno dei suoi compiti principali.

3) Ritieni che, nel corso della tua esperienza professionale, sia cambiato il ruolo del giudice del lavoro e comunque il modo con cui i giudici concretamente lo esercitano? in caso di risposta affermativa, quali pensi siano le ragioni (o almeno le principali ragioni) di tale cambiamento e quali ne sono gli effetti?

La pluriennale esperienza di giudice di appello (2003-2018), con competenza sulle impugnazioni di sentenze provenienti da nove Tribunali diversi, mi ha consentito di verificare un lento mutamento, che sicuramente vi è stato, nella gestione delle controversie di lavoro.
Nel corso degli anni ho constatato soprattutto un progressivo allontanamento del giudice del lavoro dal fatto, una sorta di perdita di “curiosità” per i dettagli delle concrete vicende e delle mansioni dei lavoratori.
Ciò deriva molto probabilmente dal preponderante impegno che il giudice avverte oggi di dover dedicare alla ricostruzione del quadro normativo e giurisprudenziale in continua e concitata evoluzione. Questo si percepisce già dall’impianto grafico ed espositivo di molte sentenze (che spesso esordiscono con lunghe citazioni di leggi e giurisprudenza).
Un’altra verosimile causa del fenomeno – cioè del distanziamento dal fatto - è data dall’assenza del sindacato nel contezioso relativo a molti nuovi settori. Fino a pochi anni fa, la presenza del sindacato si manifestava vivamente nel processo, anche in modo indiretto : nei documenti prodotti dal lavoratore, nel contenuto e nella qualità delle testimonianze, nella qualifica delle persone che chiedevano di assistere all’udienza pubblica. Ne derivava un costante richiamo agli aspetti concreti della controversia.

4) Le modifiche normative che hanno riguardato la disciplina sostanziale hanno mutato gli equilibri tra le parti nel processo?

Sì, sicuramente, il mutamento della disciplina sostanziale ha influenzato il clima del processo in maniera significativa.
Ritengo indispensabile ricordare alcuni passaggi, soprattutto per coloro che praticano il processo del lavoro soltanto da pochi anni.
A partire dalla legge n.196/1997 (c.d. legge Treu), il legislatore ha inteso favorire le più varie forme di lavoro temporaneo, interinale, a part-time, formativo, etc., ma sostanzialmente con caratteri di precarietà.
Il giudice del lavoro si trovò a far fronte al compito arduo di dare attuazione alla volontà della legge, favorevole ad una sempre maggiore precarietà, in contrasto con un corpo normativo e giurisprudenziale che si era formato sui principi dello Statuto e principalmente per i lavoratori della fabbrica, titolari di un rapporto di lavoro garantito e a tempo indeterminato.
E fu in questo delicatissimo momento di transizione che, nell’ottobre 2001, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali, in forma ufficiale , espresse la sua totale sfiducia nei confronti dei giudici del lavoro, denunciandone alla pubblica opinione la bassa “qualità professionale” ed auspicando che le controversie del lavoro potessero presto essere trasferite ad arbitri che giudicassero secondo equità (Libro bianco sul mercato del lavoro in Italia, I.3.7.)
Quest’ultimo inciso svalutava di fatto l’intero complesso della legislazione a tutela dei lavoratori, ed era sorretto dall’ argomentazione ministeriale che soltanto il giudizio di equità degli arbitri poteva dare “tempi certi” e “modernizzare la giustizia del lavoro”.
Nuove leggi confermarono la sfiducia del Parlamento verso il giudice del lavoro (questo aspetto istituzionale, che trascendeva la polemica di parte, a mio parere è stato troppo trascurato e ha prodotto conseguenze non ancora superate).
Con tecnica legislativa inconsueta comparvero norme che non si rivolgevano più alla generalità dei consociati, ma erano dirette al giudice del lavoro per limitarne espressamente il potere di intervento e di interpretazione.
Il culmine fu raggiunto con l’art. 30 della legge n. 183/2010, dove, con scarsa portata pratica ma con forte impatto polemico, si stabiliva che per «….. le clausole generali, ivi comprese le norme in tema di instaurazione di un rapporto di lavoro, esercizio dei poteri datoriali, trasferimento di azienda e recesso, il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai princìpi generali dell'ordinamento, all'accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente…»
Proprio introducendo un commento al citato art.30, anche in dottrina si aderì alla polemica : “……qualunque avvocato di una qualche esperienza riesce di massima a rendersi conto, già nei famosi «primi 30 secondi», quando ha di fronte un giudice del lavoro rispondente al modello antropologico classico della categoria, o invece uno connotato da una maggiore asetticità…..” (R. Del Punta, Il giudice del lavoro tra pressioni legislative e aperture di sistema , Riv.it.dir.lav., 2012,461).
pesanti che denotano quanto fosse difficile conservare la specializzazione del giudice del lavoro e, al tempo stesso, maturare una cultura della “giurisdizione della precarietà”.
Un incoraggiamento in tal senso, sia detto senza alcuna ironia, è stato dato invadendo gli stessi uffici giudiziari di personale precario ( inizialmente privo di qualsiasi retribuzione) per sostituire i funzionari di cancelleria, e poi il giudice stesso : tirocinanti a vario titolo , addetti al servizio civile, laureati in formazione, giudici onorari, giudici ausiliari di Corte di appello (questi ultimi con la specialissima provvisorietà della legittimità costituzionale ad tempus ; v. Corte cost. n.41/2021).
In passato, i giudici onorari non erano mai stati assegnati alle sezioni del lavoro sul rilievo della specialità delle relative funzioni.
L’istituzione dell’ ufficio del processo prevede ora che il giudice del lavoro, per non poche ore della sua giornata, si occupi del coordinamento di una varietà di personale precario (scarsamente retribuito), gestendone le istanze e anche il prevedibile disagio.

6) Come si è configurato, e come attualmente si configura, nel processo del lavoro, il rapporto fra giustizia formale e giustizia sostanziale?

A me pare illusorio immaginare che il clima sopra descritto, protrattosi in un arco temporale di oltre venti anni, non abbia lasciato profonde tracce nella cultura del processo del lavoro e non abbia provocato un certo disorientamento particolarmente in chi si accostava alle funzioni giudicanti in quel periodo.
Un nuovo formalismo si è annunciato con i chiari sintomi del forte desiderio di “normalità”, come se il giudice del lavoro avesse l’onere o il bisogno di dimostrare la sua imparzialità, il suo puro lato civilistico o la “asetticità” di cui diceva la dottrina citata.
Non si spiegano diversamente il diffondersi e il moltiplicarsi – soprattutto nel primo decennio del 2000- di una grande quantità di decisioni che rigettavano le domande dei lavoratori, spesso in prima udienza, con motivazioni che assumevano “la contraddittorietà del ricorso” , “la nullità della domanda” ,“le scarse allegazioni probatorie” o “la mancata descrizione delle mansioni”.
Sembrava improvvisamente dimenticato il prezioso precetto di “voler decidere” (della celebre triade di Pierre Drai, giudice francese, che vi premetteva i non meno importanti “sapere ascoltare” e “cercare di capire”).
Un intervento di ufficio per colmare una piccola lacuna veniva visto evidentemente come un atto di parzialità, quando non di schieramento politico.
Un apparente formalismo e un difetto di indagine traspaiono anche quando si assegna indiscussa prevalenza alla qualificazione del rapporto risultante dal contratto scritto ; o quando ci si limita ad osservare che un incidente sul lavoro non sarebbe accaduto se il lavoratore avesse prestato maggiore attenzione.
Ma non si può escludere che si tratti invece di un mutamento di merito. Nel naturale ricambio generazionale dei giudicanti, è doveroso registrare l’emergere via via di una giurisprudenza, non episodica, che vuole il lavoratore cittadino come gli altri, consapevole di ciò che firma , perfettamente in grado di scegliere fra lavoro autonomo e subordinato nell’attuale modestia delle offerte occupazionali.

 

7) Quanto è importante, nelle scelte cui il giudice è tenuto nel governo del processo, la necessità di assicurare la celerità delle decisioni?

La celerità delle decisioni ha un’importanza fondamentale .
Oggi, gli strumenti informatici e il sensibile calo dei ruoli consentono la ordinata programmazione del lavoro come mai prima, e anche di salvaguardare la qualità delle decisioni. Non credo vi sia bisogno di ricordare che il rifiuto di un approfondimento istruttorio al solo fine di velocizzare la definizione della lite costituisce una violazione del codice deontologico.
Ritengo però che questo argomento, così come tutti i rischi dell’efficientismo e dell’ansia statistica, debbano essere trattati, dibattuti e menzionati espressamente nella annuale redazione dei c.d. programmi di gestione ex art. 37.

8) Quanto pensi che rilevi nell’economia della decisione quella relativa alle spese e come eserciti la discrezionalità rimessa al giudice dall’art. 92 c.p.c. risultante dall’intervento della Corte costituzionale?
Il costo del processo è sicuramente una delle cause del notevole e preoccupante calo numerico dei ricorsi al giudice del lavoro e – soprattutto- delle impugnazioni in appello. Il prezzo di una soccombenza, magari pronunciata in secondo grado, non è sostenibile per la grande maggioranza dei lavoratori. Non a caso sono praticamente scomparse le cause ad elevato rischio di incertezza, come le rivendiche di qualifica o le contestazioni delle percentuali liquidate dall’ INAIL
Corte cost. n.77/2018 ha stabilito un importante principio che consente al giudice, assai opportunamente, di compensare le spese processuali in alcuni casi peculiari che conservano però tutti i caratteri dell’ eccezionalità (per es. la obbiettiva difficoltà di una parte di procurarsi una prova nonostante i tentativi svolti).
L’accesso alla giustizia per i non abbienti deve passare però da altre forme di sostegno sociale e non può essere realizzato con l’applicazione dell’art.92 c.p.c.
La pratica (non isolata) di liquidare elevate spese processuali a scopo deflattivo del contenzioso mi pare scorretta e da evitare. In linea generale, ritengo che il regolamento e la liquidazione delle spese processuali siano adempimenti al quale deve dedicarsi tempo ed attenzione : su di essi si gioca la coerenza della decisione e la credibilità del giudice.

9) Qual è il rapporto che ritieni debba esistere fra il valore della libertà della giurisprudenza e quello della tendenziale univocità e prevedibilità delle decisioni?
Ritengo che sotto la denominazione di “prevedibilità delle decisioni” siano affluiti gli argomenti, le istanze e i progetti più diversi. La nozione viene spesso enfatizzata anche nelle cerimonie ufficiali senza però che se ne illustri il significato esatto.
Condivido che si tratti di un indubbio valore “di giustizia e uguaglianza” ( v. Cass. S.U. n. 23675/2014) se con questo si intende il rigoroso dovere del giudice di merito di discostarsi dalla giurisprudenza della Cassazione soltanto qualora egli reputi l’insegnamento di legittimità (non opinabile ma) palesemente irrazionale ed arbitrario, e ne dia poi ampia e adeguata motivazione.
Altra cosa sono le decisioni divergenti che derivano semplicemente da mancanza di informazione , ma a questo rimediano oggi i mezzi informatici e le riunioni di sezione ex art. 47 ordinamento giudiziario. A quest’ultimo proposito, ritengo che le riunioni fra giudici monocratici debbano limitarsi appunto all’informazione reciproca e al dibattito, senza invadere l’indipendenza dei singoli (qualcosa si può forse concordare nel campo procedurale ; e infatti le Sezioni Unite sopra citate riguardano il diritto processuale).
Qualche “protocollo” però sfiora talvolta le anomale funzioni giurisdizionali.
Ricordo che molti anni fa soprattutto gli avvocati di parte datoriale – nelle grandi sedi- denunciavano come improprie le riunioni dei giudici monocratici se dirette a concordare un’interpretazione uniforme delle novità legislative, e forse non avevano torto. Questo per dire quanto sia relativo e mutevole il concetto di “prevedibilità delle decisioni”.

 

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