testo integrale con note e bibliografia
Com’è noto, la c.d. riforma Cartabia ha toccato solo marginalmente il rito del lavoro, principalmente nella materia dei licenziamenti (con l’abrogazione del rito previsto dalla legge 92/2012 e l’introduzione delle tre norme ad hoc, 441 bis, ter e quater c.p.c.); ma le modifiche che riguardano il primo libro del codice di rito hanno un’inevitabile applicazione anche nel processo del lavoro. In particolare, si vuole tornare, per una riflessione dopo alcuni mesi dall’entrata in vigore della riforma, sulle modalità alternative all’udienza tradizionale, previste dagli artt. 127 bis e 127 ter c.p.c., soffermandosi sulle loro caratteristiche, il loro utilizzo e le conseguenze di eventuali vizi dovuti a error in procedendo.
1) 127 bis: Udienza mediante collegamenti audiovisivi
“Lo svolgimento dell’udienza, anche pubblica, mediante collegamenti audiovisivi a distanza può essere disposto dal giudice quando non è richiesta la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti, dal pubblico ministero e dagli ausiliari del giudice.
Il provvedimento di cui al primo comma è comunicato alle parti almeno quindici giorni prima dell’udienza. Ciascuna parte costituita, entro cinque giorni dalla comunicazione, può chiedere che l’udienza si svolga in presenza. Il giudice, tenuto conto dell’utilità e dell’importanza della presenza delle parti in relazione agli adempimenti da svolgersi in udienza, provvede nei cinque giorni successivi con decreto non impugnabile, con il quale può anche disporre che l’udienza si svolga alla presenza delle parti che ne hanno fatto richiesta e con collegamento audiovisivo per le altre parti. In tal caso resta ferma la possibilità per queste ultime di partecipare in presenza.
Se ricorrono particolari ragioni di urgenza, delle quali il giudice dà atto nel provvedimento, i termini di cui al secondo comma possono essere abbreviati”.
L’articolo ha canonizzato un lascito della pandemia che, in realtà, è ben più esteso rispetto al solo mondo della giustizia: la possibilità di sostituire gli incontri in presenza con quelli da remoto, sfruttando le risorse tecnologiche che, oggi, sono alla portata veramente di tutti.
Sicuramente viene meno la sacralità del luogo in cui si tiene udienza, sono ridimensionate le formalità , orientandosi verso una visione finalistica e utilitaristica: l’importante è che si svolga l’udienza, contenendo gli spostamenti che, in alcuni casi, potrebbero essere davvero defatiganti.
Se non si vuole cedere alla nostalgia (e si superano, con buona volontà e una certa dose di pazienza, gli inevitabili problemi tecnici), non si può che salutare con favore l’innovazione in esame: gli aspetti rilevanti al rito del lavoro, con riferimento al presente articolo, non sono in realtà molti.
L’articolo in questione pone pochi problemi interpretativi, in quanto l’udienza da remoto è uguale a tutti gli effetti all’udienza tradizionale, se non per il fatto che la partecipazione è garantita tramite dispositivi elettronici.
Il primo comma espressamente stabilisce che l’udienza può essere celebrata da remoto anche nei casi in cui il codice prevede che la stessa sia pubblica.
È evidente che la “pubblicità” dell’udienza, in qualche modo, viene ridimensionata: è sicuramente più facile accedere a una aula fisica, rispetto a procurarsi il link per la stanza virtuale del magistrato che sta celebrando il processo. Si può facilmente replicare, però, che le udienze di lavoro sono pubbliche, ma non “pubblicizzate”: a parte qualche caso clamoroso che richiama l’interesse di molti lavoratori (se non anche delle testate giornalistiche), il giorno e l’ora in cui viene svolta l’udienza è noto solo alle parti e la stessa viene tenuta nella stanza del giudice, sicuramente spesso inadatta a contenere una moltitudine di cittadini interessati al controllo diffuso dell’esercizio della giustizia.
Per comprendere cosa si intende per pubblica, è utile riflettere sul contrario: un’udienza non è pubblica quando nessuno, se non parti, difensori e ausiliari del giudice, può partecipare. Quindi, l’udienza è e rimane pubblica finché sia possibile per il pubblico assistere, mentre non è necessario che si svolga in aule appositamente dedicate o risulti particolarmente agevole l’accesso.
La giurisprudenza formatasi sul punto, per il rito civile, è particolarmente esigua: si richiama una risalente pronuncia (a quanto risulta allo scrivente, mai sconfessata) nella quale si afferma che “Il requisito della pubblicità dell’udienza di discussione, fissato a pena di nullità dall’art. 128 c.p.c., resta soddisfatto quando risulti concretamente assicurata la possibilità di assistere all’udienza medesima, mentre è irrilevante la utilizzazione di un locale normalmente non destinato ad aula di udienza”.
La concreta possibilità di accedere, che deve essere garantita dal giudice, permette di rispondere a una domanda di tipo tecnico-informatico: come deve essere svolta l’udienza da remoto? I due modi più comuni sono:
- l’indicazione, all’interno del verbale di udienza o del decreto in cui viene fissata udienza ai sensi dell’art. 127 bis c.p.c., del link alla stanza virtuale del giudice, oppure;
- la creazione di un’apposita riunione sull’applicativo, nella quale sono invitate le parti tramite l’inserimento dei loro indirizzi e-mail.
In realtà, se ci si muove dalla considerazione per cui è necessario che il pubblico possa concretamente accedere, entrambe le modalità sono conformi all’art. 128 c.p.c.: qualora qualcuno sia interessato può rinvenire il link sul provvedimento del giudice, farselo trasmettere da una delle parti o, qualora il giudice tenga udienza da remoto dal proprio ufficio, partecipare in presenza allo svolgimento dell’udienza da remoto.
Chi scrive sa bene che si tratta di ipotesi marginali, poiché (in concreto) è molto raro che il pubblico partecipi alle udienze; ma una riflessione in merito a cosa si debba fare per garantire la pubblicità dell’udienza è utile al fine di evitare eventuali nullità, che si esamineranno in seguito.
Un altro aspetto da esaminare è quello relativo ai termini, previsti al comma 2, per la conversione in remoto dell’udienza fisica. Secondo la norma il giudice deve provvedere almeno 15 giorni prima dell’udienza; le parti costituite possono contestare la decisione entro 5 giorni dalla comunicazione del provvedimento e il giudice, a sua volta, deve decidere nei 5 giorni successivi.
Sorge un problema di coordinamento del 127 bis con l’art. 416 c.p.c., che concede al convenuto termine fino a 10 giorni prima dell’udienza per costituirsi: se il giudice trasforma l’udienza in remoto con il decreto di fissazione o con provvedimento precedente, come si concilia l’obbligo di prendere posizione entro 5 giorni con il termine per la costituzione previsto dall’art. 416 c.p.c.?
La risposta si può trarre dall’inciso “ciascuna parte costituita”, contenuto nel comma 2 della norma. Si può quindi intendere che, laddove una parte non sia ancora costituita, il termine di 5 giorni per opporsi alla trattazione da remoto non decorra dal provvedimento del giudice ma, per l’appunto, dalla propria costituzione. In tal modo il convenuto potrà costituirsi entro 10 giorni dalla prima udienza e, nella memoria di costituzione (auspicabilmente) o in un atto successivo, da depositare entro 5 giorni dalla propria costituzione, chiedere che l’udienza si svolga in presenza.
Un breve accenno, infine, sull’udienza c.d. mista, ossia nella quale alcuni partecipano in presenza e altri da remoto. Non vi sono particolari problemi giuridici in merito: la difficoltà a svolgere tale tipo di udienza è eminentemente pratica e si scontra con le dotazioni informatiche degli uffici giudiziari che non consentono agevolmente di permettere alle parti, in presenza e da remoto, di vedersi e sentirsi.
2) Art. 127-ter: Deposito di note scritte in sostituzione dell’udienza
“L’udienza, anche se precedentemente fissata, può essere sostituita dal deposito di note scritte, contenenti le sole istanze e conclusioni, se non richiede la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti, dal pubblico ministero e dagli ausiliari del giudice. Negli stessi casi, l’udienza è sostituita dal deposito di note scritte se ne fanno richiesta tutte le parti costituite.
Con il provvedimento con cui sostituisce l’udienza il giudice assegna un termine perentorio non inferiore a quindici giorni per il deposito delle note. Ciascuna parte costituita può opporsi entro cinque giorni dalla comunicazione; il giudice provvede nei cinque giorni successivi con decreto non impugnabile e, in caso di istanza proposta congiuntamente da tutte le parti, dispone in conformità. Se ricorrono particolari ragioni di urgenza, delle quali il giudice dà atto nel provvedimento, i termini di cui al primo e secondo periodo possono essere abbreviati.
Il giudice provvede entro trenta giorni dalla scadenza del termine per il deposito delle note.
Se nessuna delle parti deposita le note nel termine assegnato il giudice assegna un nuovo termine perentorio per il deposito delle note scritte o fissa udienza. Se nessuna delle parti deposita le note nel nuovo termine o compare all’udienza, il giudice ordina che la causa sia cancellata dal ruolo e dichiara l’estinzione del processo.
Il giorno di scadenza del termine assegnato per il deposito delle note di cui al presente articolo è considerato data di udienza a tutti gli effetti.”
L’art. 127 ter c.p.c. ha istituzionalizzato uno strumento anch’esso introdotto dalla pandemia: la possibilità di sostituire l’udienza con lo scambio di note scritte. Quindi, mentre l’art. 127 bis prevede una particolare modalità di svolgimento dell’udienza, l’art. 127 ter la elimina del tutto.
La canonizzazione della trattazione scritta ha provocato una levata di scudi, in quanto in molti hanno visto in quest’istituto la violazione più profonda dei principi ispiratori del processo del lavoro di oralità, immediatezza e concentrazione .
Ancora una volta, si dimostra la partecipazione, anche emotiva, di chi tratta la nostra materia, al punto che nessuna riforma è neutrale: si vuole però condividere in questa sede l’approccio di chi intende esaminare la possibilità di un concreto utilizzo di tale strumento, senza pregiudizi .
È indubbio che la possibilità di sostituire l’udienza ex 420 c.p.c., tendenzialmente unica e nella quale, secondo le previsioni codicistiche , occorreva svolgere tutti gli incombenti (dall’interrogatorio al tentativo di conciliazione all’escussione dei testi, fino alla discussione) con uno scambio di note scritte appare davvero difficile da realizzare. In via preliminare, infatti, occorre osservare che la norma in questione è modellata sul rito civile e in particolare nasce con l’idea di sostituire l’udienza di precisazione delle conclusioni, vista l’analogia delle previsioni dell’art. 127 ter, primo comma, e 189 c.p.c.; udienza sconosciuta nel rito del lavoro, nel quale è invece prevista la discussione orale della causa una volta che il giudice la ritiene matura per la decisione.
Gli aspetti che portano a suggerire l’incompatibilità della trattazione scritta con il rito del lavoro sono diversi .
Sono sicuramente validissime le ragioni che portano a ritenere incompatibile, quanto meno su un piano di fatto, la trattazione scritta con la prima udienza del rito del lavoro.
In primo luogo, i termini previsti dalla norma non si conciliano con quelli dell’art. 416 bis c.p.c.: anche in questo caso, è previsto il termine di cinque giorni dalla comunicazione per le parti costituite per opporsi al provvedimento emesso ai sensi dell’art. 127 ter c.p.c. È facile obiettare, però, che anche qui si può utilizzare il correttivo di cui si è parlato in precedenza per l’udienza da remoto, ritenendo che il termine, per il convenuto, decorra dal momento della propria costituzione.
La vera ragione di incompatibilità tra la trattazione scritta e l’udienza ex art. 420 c.p.c., soprattutto per la prima udienza, risiede nell’attività che il giudice deve svolgere in tale sede, che non può essere sostituita da uno scambio di note e successivo provvedimento giudiziale. Il codice prevede, com’è noto, che il giudice inviti le parti a correggere le irregolarità degli atti e, soprattutto, tenti la conciliazione: chiunque abbia un minimo di esperienza nella materia, sa benissimo che l’intervento attivo del giudice all’interno del contraddittorio, alla presenza (obbligatoria, si ricorda) delle parti, è l’unica reale possibilità di raggiungere l’accordo conciliativo e ciò non può essere sostituito da uno scambio di memorie in cui ognuno, com’è ovvio, ribadirà le proprie posizioni.
Sono stati sollevati profili di criticità anche con riferimento alla sostituzione dell’udienza di discussione, orale, rispetto allo scambio di note. L’art. 127 ter prevede che tali note contengano “le sole istanze e conclusioni”, non anche le argomentazioni di diritto e le repliche alle avversarie deduzioni; ciò porta alla seguente aporia, poiché:
- o il giudice ammette delle note conclusive che possano sostituire la discussione finale, in modo analogo alle memorie conclusionali del rito civile, ma abnormi rispetto al rito del lavoro;
- oppure le parti si limitano a precisare le rispettive istanze e conclusioni, senza poter esporre le loro ragioni e argomentazioni, con palese violazione del diritto di difesa.
Negli scritti e nell’ordinanza citati si evidenzia che la previsione dell’art. 127 ter, comma 3 (“Il giudice provvede entro trenta giorni dalla scadenza del termine per il deposito delle note”) contrasta sia con l’art. 429 c.p.c., che prevede la pronuncia della sentenza immediatamente dopo la discussione, sia con l’art. 431 c.p.c. che, a tutela del lavoratore, sancisce l’esecutorietà del mero dispositivo. Su tali aspetti, però, è possibile replicare che già la abrogata riforma c.d. Fornero, riservata alle cause di lavoro, prevedeva uno iato temporale tra discussione e decisione della causa.
Oltre a tali osservazioni, si può aggiungere che ammettere note scritte comporta sempre il rischio per cui i difensori, aggirando le decadenze previste dal rito, introducano elementi nuovi, con onere a carico della controparte e del giudice di controllare con attenzione il nuovo atto, magari innescando ulteriori aspetti problematici all’interno del giudizio.
Quindi, si deve concludere nel senso dell’assoluta inapplicabilità dell’istituto?
Si concorda con le osservazioni svolte da Carbone nell’articolo già citato: il problema non sta nell’ammetterne la compatibilità, ma nell’utilizzo che se ne vuol fare. A favore della possibilità di impiegare tale forma alternativa all’udienza militano alcune osservazioni:
- le norme del libro I sono generali e applicabili a tutti i processi, salvo che non sia diversamente previsto. I principi di oralità e immediatezza non sono propri del rito del lavoro ma dovrebbero informare tutto il processo civile: l’art. 128 c.p.c., che statuisce la pubblicità e l’oralità dell’udienza, è norma generale e l’art. 127 ter, in modo altrettanto generale, prevede una modalità alternativa di svolgimento del processo;
- il contrasto effettivo tra incombenti di udienza e trattazione scritta, nel rito del lavoro, si verifica in prima udienza, per l’impossibilità pratica di svolgere gli adempimenti previsti dalla legge, e al momento della discussione, che non può essere sostituita (come si è visto) dal mero scambio di note; ma vi sono invece situazioni in cui l’utilizzo di note scritte è possibile.
Basandosi sull’esperienza, si possono immaginare una serie di udienze che possono essere sostituite dalla trattazione scritta, senza che sia leso il contraddittorio o snaturato il processo del lavoro: si pensi quando, dopo l’istruttoria, il giudice emetta un’ordinanza in cui disponga l’elaborazione di nuovi conteggi, con termine per la loro contestazione; oppure quando, dopo un interrogatorio libero particolarmente approfondito, chieda alle parti (concedendo loro il tempo necessario per leggere bene la verbalizzazione) se abbiano interesse a insistere sull’ammissione dei mezzi istruttori o se vogliano discutere la causa. Ancora, vi sono giudizi in cui lo svolgimento del tentativo di conciliazione e l’interrogatorio sono inutili: immaginiamo un processo di opposizione all’a.t.p., in cui entrambe le parti, negli atti introduttivi, già chiedano la rinnovazione della c.t.u.
In conclusione, appare utile ricordare che la trattazione scritta è uno strumento che deve servire, come insegna la dottrina a partire da Chiovenda, per arrivare il più in fretta possibile allo scopo che si prefigura il processo di cognizione, compreso quello del lavoro: l’accertamento della situazione controversa.
A queste osservazioni si accompagnano altri rilievi di dettaglio, ma che possono risultare utili per la riflessione su questo istituto.
L’art. 127 ter, comma 1, stabilisce che “Negli stessi casi, l’udienza è sostituita dal deposito di note scritte se ne fanno richiesta tutte le parti costituite” e che, “in caso di istanza proposta congiuntamente da tutte le parti, dispone in conformità”: sembra quindi che il giudice, anche quello del lavoro, non possa che disporre la sostituzione dell’udienza laddove vi sia la richiesta congiunta delle parti.
La linearità di questa conclusione si potrebbe giustificare tenendo conto che anche il processo del lavoro è un processo civile, sorretto dal principio dispositivo: d’altronde, se le parti possono rinunciare in ogni momento al giudizio, perché non potrebbero scegliere di svolgerlo in altro modo?
Qualche perplessità però sorge: è vero che le parti possono disporre delle sorti del processo, ma non del tipo processuale (sicuramente non si può scegliere di trattare una controversia con un rito che non sia il proprio); di conseguenza, se il giudice ritenesse, come nel precedente citato, che l’art. 127 ter non è applicabile al rito del lavoro, l’istanza congiunta delle parti non lo potrebbe vincolare. Peraltro, il giudice potrebbe rigettare l’istanza congiunta anche se ritiene compatibile l’art. 127 con il rito lavoristico, laddove però deve svolgere incombenti di legge, come per l’appunto l’interrogatorio o il tentativo di conciliazione, inattuabili tramite lo scambio di memorie.
Un altro aspetto, apparentemente banale, è il seguente: quante note possono essere autorizzate in sostituzione dell’udienza? Dalla lettura della norma sembrerebbe che possano essere una per parte, con il medesimo termine (“il giudice assegna un termine perentorio non inferiore a quindici giorni per il deposito delle note (…) Se nessuna delle parti deposita le note nel termine assegnato”): ma, come si vedrà meglio in seguito analizzando una pronuncia della Cassazione, appare sostenibile la possibilità (e talvolta la necessità) di concedere la possibilità di produrre più note successive, per replicare alle avversarie istanze; la lettura piana della norma, a giudizio di chi scrive, si trova a cedere di fronte alle esigenze del contraddittorio.
3) Conseguenze e vizi
Occorre ora passare alla parte che forse riveste maggior interesse: quali possono essere le conseguenze di un uso errato delle modalità alternative all’udienza tradizionale e quali vizi potrebbero riverberarsi sul provvedimento?
Appare utile richiamare l’orientamento della giurisprudenza formatasi sull’errore di rito: la Cassazione è allineata nel ritenere che l’errore “assume rilievo ai fini dell’impugnazione esclusivamente se abbia arrecato alla parte un pregiudizio processuale incidente sulla competenza, sul regime delle prove o sui diritti di difesa” . Premesso ciò, appare decisamente arduo sostenere che l’errore nella conduzione di una singola udienza possa avere conseguenze più severe rispetto alla celebrazione di un intero processo con il rito sbagliato.
Ancora in via preliminare, l’utilizzo di una modalità alternativa all’udienza tradizionale non sembra possa comportare violazione delle regole prescritte dal rito in materia di competenza o sul regime delle prove (in quanto rimangono ferme le decadenze previste dagli artt. 414 e 416 c.p.c.); gli aspetti più critici sono quelli legati alla pubblicità dell’udienza e al rispetto del contraddittorio.
Con riferimento all’art. 127 bis c.p.c., l’attività condotta durante l’udienza da remoto è del tutto analoga a quella in presenza, differenziandosi soltanto per il fatto che una o più parti non sono nella medesima stanza fisica del giudice, ma si collegano tramite supporto audiovisivo. L’unico problema che tale modalità può comportare rispetto all’udienza tradizionale è l’eventuale impossibilità di accedere alla stanza virtuale del giudice. In tal caso si possono immaginare tre diverse ipotesi:
- uno o più avvocati non riescono ad accedere, e il giudice non se ne avvede. Tale ipotesi indubbiamente comporterebbe la nullità dell’udienza, ma in modo analogo a quanto potrebbe capitare nel caso (di scuola) in cui il giudice non faccia entrare un difensore nella propria stanza. Si auspica che il comportamento del giudicante che celebri l’udienza in assenza di un avvocato rimanga nel campo delle ipotesi accademiche;
- una o più delle parti, personalmente, non riescono ad accedere o magari non sono in possesso del link per poterlo fare. La presenza delle parti non è prevista a pena di nullità e si potrebbe porre, al più, un problema di rapporti con il proprio difensore che non ha rappresentato al giudice i problemi della parte a presenziare;
- dei soggetti interessati all’udienza (il pubblico, quindi) non riescono a partecipare. Come osservato in precedenza, l’unico presupposto che richiede l’art. 128 c.p.c., a pena di nullità è che l’udienza sia pubblica, quindi che sia possibile partecipare, non che si dia assistenza attiva al pubblico a tal fine.
Diverso è invece il discorso con riferimento all’art. 127 ter c.p.c., in quanto in tal caso l’udienza non viene celebrata, essendo sostituita dallo scambio di note.
Il primo aspetto che viene in rilievo è il diritto, sancito dall’art. 128 c.p.c. e dall’art. 6 CEDU, alla pubblica udienza.
Tale profilo è stato esaminato dalla Cassazione nella sentenza 35109/2022 , la quale però si è pronunciata sulla trattazione scritta introdotta dalla normativa emergenziale. Secondo la Corte, “non è prospettabile una violazione dell’art. 6 CEDU (e dei vari parametri costituzionali riportati nel ricorso), atteso che la normativa citata garantisce appieno il diritto di difesa, ben potendo le parti depositare note scritte, e che l’esclusione dell’udienza in presenza o da remoto è limitata ad un periodo circoscritto, in ragione di un accadimento obiettivo (l’epidemia COVID) e per la tutela della salute collettiva e unicamente per i procedimenti ai quali possono partecipare i soli difensori”. Appare evidente che le motivazioni utilizzare per escludere che la trattazione scritta si ponesse in contrasto con l’art. 6 CEDU non sono estensibili all’art. 127 ter c.p.c., in quanto la Suprema Corte ha dato rilievo alla natura eccezionale della norma e al periodo circoscritto del suo utilizzo.
Appare interessante richiamare la sentenza 73/2022 della Corte Costituzionale , che ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale degli artt. 30, comma 1, lettera g), numero 1), della legge 30 dicembre 1991, n. 413 e 32, comma 3, e 33 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 che hanno reintrodotto, nel processo tributario, “la regola della trattazione camerale, prevedendosi, però, all’art. 33, comma 1, la possibilità di derogarvi mediante la richiesta di udienza pubblica avanzata da almeno una delle parti”.
Tale aspetto è stato ritenuto sufficiente ad affermare la non contrarietà della norma alla Costituzione e alla CEDU. Infatti, la Consulta ha affermato che:
- a differenza di altre norme, soprattutto penali, che prevedevano esclusivamente la trattazione camerale, gli articoli in questione non escludono la pubblicità dell’udienza, ma la condizionano alla presentazione, proveniente da almeno una delle parti, di un’istanza per la discussione orale;
- il principio dell’udienza pubblica, “pur trovando espressa enunciazione nella CEDU (art. 6, paragrafo 1), non assuma carattere di assolutezza neanche nell’interpretazione offertane dalla Corte europea dei diritti dell’uomo (v., ex aliis, Corte EDU, 6 novembre 2018, sentenza Ramos Nunes de Carvalho e Sà contro Portogallo)”;
- infine, che “Non in tutti i processi la trattazione orale costituisce un connotato indefettibile del contraddittorio e, quindi, del giusto processo, potendo tale forma di trattazione essere surrogata da difese scritte tutte le volte in cui la configurazione strutturale e funzionale del singolo procedimento, o della specifica attività processuale da svolgere, lo consenta e purché le parti permangano su di un piano di parità”.
Applicando i medesimi principi all’art. 127 ter c.p.c., si dovrebbe concludere nel senso della sua conformità a Costituzione, anche sotto il profilo del rispetto della CEDU: infatti, la norma in questione prevede la possibilità, per le parti, di chiedere che l’udienza venga svolta in modo tradizionale o da remoto, rispettando così il diritto alla pubblica udienza. Inoltre, l’utilizzo della trattazione scritta, se ristretto a quelle ipotesi prima menzionate in cui lo svolgimento di una vera e propria udienza appare essere superfluo, potrebbe ritenersi conforme a Costituzione sulla scorta delle considerazioni effettuate nella sentenza citata e riportate da ultimo.
Il secondo profilo critico della trattazione scritta è la possibile violazione del contraddittorio: proprio sul tema, anche se con riferimento alla normativa emergenziale Covid 19, si è pronunciata di recente la Cassazione . Nel caso di specie, la Corte di Appello, dopo aver sostituito l’udienza in presenza con la trattazione scritta, contumace l’appellato, aveva dichiarato improcedibile il gravame in quanto l’appellante non aveva depositato prova dell’avvenuta notifica dell’appello e del decreto di fissazione udienza. La Corte di Cassazione ha riformato la sentenza impugnata rilevando che “la sostituzione dell’udienza in presenza con il mero deposito di note scritte non può negare alle parti il diritto di svolgere ogni altra attività propria dell’udienza medesima (…) 5.1 L’attività di udienza non consiste soltanto nell’ascolto delle parti ad opera del giudice, ma ha per sua natura portata dialogica, nel senso di interlocuzione, rispetto alle necessità della causa, tra le parti che chiedono e dibattono e il giudice che ascolta le diverse ragioni e riceve le debite istanze”; la Corte di Appello, quindi, avrebbe dovuto verificare l’avvenuta notifica, concedendo termine all’appellante, fissando una nuova udienza o permettendo un ulteriore deposito di note.
Quanto affermato dalla Cassazione appare del tutto condivisibile. Non si può infatti dimenticare che le note sostituiscono l’udienza la quale non è soltanto la passiva ricezione delle istanze delle parti, ma comporta l’interlocuzione con le stesse; ricorda la sentenza citata “l’insopprimibile caratura dialogica dell’udienza, in cui il principio del contraddittorio si manifesta non solo come dibattito tra le parti, ma coinvolge anche il giudice nella sua posizione di interlocutore, espressione dell’esercizio pubblico dell’attività giudiziaria”. In sintesi, la trattazione scritta non può sopprimere l’esigenza del contraddittorio che non è soltanto il permettere alle parti di esprimere le loro rispettive posizioni, ma anche di dialogare (seppur in modo differito) tra loro e con il giudice.
Ciò comporta che, laddove le parti abbiano la necessità di replicare alle avverse istanze o il giudice debba chiedere chiarimenti o sollecitare approfondimenti, tali esigenze sono preponderanti e impongono che il giudicante fissi apposita udienza o, qualora preferisca la trattazione scritta, conceda ulteriori termini per note, pena la lesione del contraddittorio, che la Cassazione ha già ritenuto sanzionabile con la nullità della sentenza.