Ciclicamente affiora, non solo tra i giudici specializzati nella materia lavoristica, la discussione sul ruolo e i compiti del giudice del lavoro alla stregua dei cambiamenti normativi che si sono susseguiti almeno a partire dalla metà degli anni ’90 (se non prima) e nel contesto dei mutamenti socioeconomici, che ormai da molti anni chiamiamo, con una grande approssimazione, trasformazione.
Le discussioni, però, vengono da lontano, e partono dagli anni in cui, con quello del 1973, la materia lavoristica e i giudici che la governano hanno iniziato ad essere tributari di un processo «speciale» dedicato (ma non sempre adeguato) alla tutela dei diritti in gioco, prodotto finale della legislazione di sostegno e premiale degli anni ’60 e poi di quello che comunemente chiamiamo «statuto dei lavoratori», che, però, è molto di più, perché lì ci sono non solo i diritti primari dei lavoratori, ma anche le prerogative del sindacato e la norma, art. 28, che regola il conflitto sindacale con le imprese e i datori di lavoro in genere.
È un dibattito che si svolge a fasi alterne, con l’attenzione quasi sempre puntata ad analizzare il ruolo di un giudice del lavoro democratico, progressista - per usare una qualificazione che va di moda, ma per molti versi approssimativa e semplicistica - più aderente alla tutela dei diritti dei lavoratori e dei cittadini coinvolti, e dei sindacati, rispetto ai datori di lavoro, con uno sbilanciamento tale da far addirittura pensare ad una compromissione della terzietà del magistrato nel processo.
Da ultimo fece scalpore la polemica innescata (a sua insaputa) da uno scritto di Riccardo Del Punta (1), che peraltro riproponeva il testo di una relazione svolta in un precedente seminario milanese (2), che, per un infelice riferimento ad una parte attiva della magistratura (quella comunemente etichettata come “democratica”) e alla sua rivista di riferimento (Questione Giustizia) aveva sollevato (a ragione, devo riconoscere) le critiche dei referenti del Gruppo Lavoro di MD (3), seguite dalle puntuali precisazioni dell’autore interessato (4), che definire giustificazioni è riduttivo, trattandosi della prosecuzione del primo intervento.
Per gli amanti del genere segnalo l’interessante dibattito che ne è seguito, ospitato dalla Rivista Italiana di Diritto Del Lavoro nella rubrica «Agorà», con interventi significativi di molti studiosi (anche magistrati), di diversa formazione e provenienza (5).
È il caso di ricordare che queste discussioni, quasi sempre polemiche, sono occasionate dalle riforme legislative che impongono un cambio di passo nella materia lavoristica e quindi in maniera più incisiva impegnano il giudice a misurarsi con esse e a fare i conti con quello che, in tema di diritti e tutele, è, per così dire, il diritto classico del diritto del lavoro, tutto concentrato sulla fabbrica, sul lavoro subordinato tipico e la reintegrazione nel posto di lavoro in caso di illegittimo licenziamento.
Nel caso che ho citato all’inizio, l’Autore si interrogava sul ruolo della giurisprudenza nel panorama legislativo dell’epoca, siamo nel 2011, all’indomani del Collegato Lavoro e di lì a poco ci sarebbe stata la Riforma Fornero (e tutto il resto).
Talvolta ci si interroga anche sulla perdita dello stigma valoriale del giudice del lavoro, che negli ultimi anni appare fare uso eccessivo di formule, più che di principi e regole, arrivando a negare tutele sostanziali.
Basti leggere l’analisi, impietosa, ma rigorosa, di un magistrato di lungo percorso, Sebastiano Luigi Gentile, che non fa velo di affermare, ad esempio, che mentre «… è esigibile che l’interprete si faccia carico …[delle n.d.r.] caratteristiche delle fattispecie litigiose, così rimanendo nel solco indicato dalla stessa vigenza vuoi delle disposizioni sostanziali di favore vuoi dei riti dedicati» (6), «[s]i registrano, invece, plurimi segnali, pure nel governo giurisprudenziale del rito del lavoro, significativi di un approccio – è la mia opinione – scarsamente consapevole delle peculiarità delle materie dedotte in lite; con la conseguenza negativa della ricrescita di un formalismo che è insidioso, in quanto non è sbagliato in sé, ma si rivela involutivo sul versante degli approdi decisionali, cioè delle sentenze. In altre parole, anche i giudici del lavoro, talvolta, o sovente (non so), si comportano come meri preposti alla direzione del traffico delle deduzioni attoree e delle eccezioni del convenuto, senza l’impegno della ricerca, logico-giuridica e probatoria, indispensabile alla piena chiarificazione dei fatti e, di riflesso, all’emersione dei diritti nel processo – beninteso – ove esistenti e meritevoli» (7).
Devo dire, in premessa, che è un dibattito che non mi ha mai appassionato più di tanto, anche se devo riconoscere che l’idea di un lavoro nuovo (non solo nei suoi contorni di qualificazione giuridica) porta inevitabilmente l’attenzione, degli operatori giuridici in senso lato, alle domande di una società notevolmente cambiata, anche nelle regole economiche e nei modi di produzione. La globalizzazione è solo uno, forse il più importante, passante di questa grande trasformazione.
Attenzione che certo non trova distratto chi, come me, sin dai tempi dell’adolescenza liceale, consumata tutta in una ridente cittadina salentina, ha pensato (con il beneficio, all’inizio, di una grande illusione, che negli anni a venire è sempre più sfumata fino al disincanto) che il cambiamento sociale e politico fosse a un passo, a portata di mano, sol che si volesse afferrare.
Con un sano materialismo (che pensavo fosse immanente, per i miei studi filosofici – perché da lì sono partito per ritrovarmi, poi, impegnato in quelli giuridici, dopo la bocciatura al concorso di ammissione come alunno della Classe di Lettere e Filosofia della Scuola Normale Superiore) ho sempre pensato che il diritto, e quindi anche il diritto del lavoro, a maggior ragione il diritto del lavoro, fosse una sottile sovrastruttura che, al pari di altre, servisse al potere, inteso in senso lato, per governare la società capitalistica fatta (semplifico) di mezzi di produzione e di persone che lavorano.
Uno strumento, insomma, da adattare a tutte le bisogna della società nella quale abbiamo la sorte di vivere. Uno strumento sicuramente imperfetto, ma certamente perfettibile.
Quando ho cominciato a studiare, più da vicino, il diritto del lavoro per preparare la mia tesi sul lavoro a domicilio, agli inizi degli anni ’80, mi sono imbattuto nel fenomeno del decentramento produttivo e di alcuni modi diversi di lavorare, rispetto al lavoro subordinato tipico, quello classico della fabbrica, e ho pensato ( illudendomi) che fosse necessario applicare le regole della subordinazione a tutto e a tutti, per rendere il lavoratore, sempre e in ogni caso, anche quello a domicilio, tutelato con pienezza nei suoi diritti.
Una parametrazione tra modi diversi, talvolta incompatibili, di lavorare, che, con gli occhi di poi, è risultata sbagliata. E, devo, purtroppo, riconoscere che su questo aveva ragione il mio Maestro che, non potendo accettare l’equiparazione, anche ai fini delle tutele collettive e sindacali, addirittura con il riconoscimento del diritto di sciopero, del lavoratore a domicilio a quello subordinato tipico, mi bollò, nella presentazione a Gian Guido Balandi, controrelatore della mia tesi, fatta sì bene, ma «da uno che non sa come vanno le cose in questo mondo».
Come vanno le cose nel mondo l’ho capito molto dopo, con un po’ di ritardo.
Comunque, non mi persi d’animo, confidavo sempre nel giudizio positivo di Balandi (al quale mi sentivo più affine per formazione culturale e politica) e cercai (invano) di portarlo dalla mia parte.
Prima della rilegatura della tesi lessi un editoriale di Umberto Romagnoli, pubblicato alla fine dell’anno 1982, sul fascicolo n. 3 di “Politica del diritto”, che, nella parte più significativa, citai alla fine della mia introduzione: «Chi, potendo risolvere una questione semplice, la complica, commette una cattiva azione. Ma ne commette una peggiore chi, volendo affrontare una questione complessa, la semplifica a tal punto da far solo finta di risolverla. In realtà, ne sta inventando un’altra, che non esiste, non è mai esistita e forse non esisterà mai».
Era un richiamo, nostalgico, all’amarcord del diritto del lavoro, che dà il titolo al saggio del Maestro bolognese (8).
Questa lunga, e inutile, digressione, per dire che in queste discussioni le semplificazioni non aiutano; ma non aiuta nemmeno il sentimento di amarcord con il quale i giuslavoristi - nel mio caso di modesto artigiano, operatore pratico - si avvicinano all’analisi del problema, che non investe solo il ruolo del giudice, ma riguarda, anche, le regole del processo e la materia della quale ci occupiamo.
Ma andiamo con ordine.
Certamente esiste una specificità rispetto a quello civile del diritto del lavoro, che proprio per questo è nato; una specificità che, a mio avviso, deve essere preservata, anzi sviluppata, anche se le regole e i principi civilistici sovraintendono questa materia, come altre che rientrano nello stesso campo, pure speciali allo stesso modo.
È difficile, anzi impossibile, pensare al diritto del lavoro che si realizza nel contratto, senza pensare al diritto civile (con buona pace degli a-contrattualisti). E questo è solo uno degli esempi che si possono fare.
Quella lavoristica, però, è una materia in continuo divenire, che non può essere mantenuta ferma, immobile, quali che siano gli svolgimenti complessi della società e dell’economia.
Per la verità è, questa, una osservazione che vale per (quasi) tutte le branche del diritto, anche se per quella del lavoro vale molto di più.
Non è, però, soltanto un problema di materia giuridica; è anche un problema anche di metodo giuridico.
Il dialogo tra queste due discipline è a ragione enfatizzato in tanti seminari e conversazioni tra studiosi, ma anche nella versatile accondiscendenza di tanti Maestri di diritto civile alla materia del lavoro (per non far torto a nessuno cito, per la mia esperienza universitaria pisana, Ugo Natoli, che, dopo averla fondata, per molti anni è stato anche direttore della prestigiosa Rivista Giuridica del Lavoro e della Previdenza Sociale).
Una specialità, direi, che caratterizza il diritto del lavoro in senso lato, dovendoci porre il problema anche di altre discipline che, nate come ancillari rispetto al diritto del lavoro in senso stretto, hanno acquistato nel tempo autonomia, non solo scientifica: basti pensare al diritto sindacale e al diritto previdenziale e della sicurezza sociale.
Una specificità che affonda le sue radici prima di tutto nella nostra Costituzione, ma anche nelle Carte dei diritti fondamentali, di formazione europea e internazionale.
Il problema, però, non è tanto (ri) affermare la specificità del diritto del lavoro, ma interrogarsi: a cosa serve e a chi serve un diritto del lavoro speciale.
La risposta è scontata, anche se il fine perseguito è quello di realizzare, nello svolgersi lavoro, i principi di libertà, dignità, eguaglianza sostanziale, non discriminazione, parità di trattamento e di opportunità, retribuzione equa, adeguata e dignitosa. E mi fermo qui.
Non è semplice valutare, nel corso del tempo, il modo in cui i giudici del lavoro hanno interpretato il loro ruolo.
Mi torna anche difficile farlo, perché il giudice, per essere tale, terzo e imparziale, e fedelmente rispettoso delle regole del processo, a mio avviso deve essere prima di tutto grandemente competente nella materia che decide ed al passo coi tempi, deve saperla conoscere (competenza e conoscenza che, soprattutto negli ultimi anni, sono state gravemente trascurate).
Facendo mie le parole di Patrizia Tullini:«È innegabile il contributo della giurisprudenza del lavoro alla creazione, e soprattutto alla manutenzione nel tempo, del garantismo individuale quale connotato tipico della disciplina lavoristica » (9), ma ormai da anni siamo di fronte ad un garantismo non più statico, « improntato all’interferenza dei diritti individuali dei lavoratori rispetto alla libertà d’impresa: qualcosa che può essere interpretato come la coda lunga di quella stagione dei diritti che ha rappresentato forse il maggior investimento politico e culturale nella seconda metà del Novecento » (9), ma dinamico, che deve misurarsi non solo con la flessibilità del lavoro e i cambiamenti dell’economia e dell’impresa, ma anche con rinnovate esigenze dei lavoratori che reclamano nuovi diritti adeguati al tempo in cui viviamo.
In questo contesto, culturale, economico e politico – in senso lato – prima che giuridico si inserisce il giudice che ha il precipuo compito di dirimere le controversie che gli sono affidate, dove ci sono prima di tutto i fatti e poi il diritto.
I cambiamenti del ruolo del giudice, a mio avviso, sono tutti conseguenza di una cultura della giurisdizione e di una formazione molto diverse rispetto a quelle del passato.
È inevitabile, del resto, che sia così. Il giudice è espressione della società in cui vive e si è formato. Non è immune dai condizionamenti sociali ed economici. Inoltre, ha un portato, di idee e di convincimenti, anche politici, che inevitabilmente riversa nella rappresentazione del suo ruolo e delle sue decisioni.
Non lo leggo, tuttavia, come dato negativo, in assoluto.
In ogni sua attività il giudice trasfonde la sua personalità, la sua cultura, i suoi valori, per arrivare ad un risultato finale che dimostri non solo la correttezza del suo modus operandi, ma anche la giustezza del prodotto finale, la decisione, che è quello che interessa ai cittadini.
Direi quindi, e non mi scandalizzo di affermarlo qui, con riferimento specifico al ruolo del giudice del lavoro, che anche in questo caso (e a maggior ragione dei giudici che operano in altri settori), egli svolge un ruolo essenzialmente “politico”.
Premesso che l’apoliticità del giudice è termine tanto astratto, quanto vano, è inutile inseguire questo modello inesistente, per contestare la “politicizzazione” del giudice (che molti vedono come assolutamente negativa), che, a mio avviso, si deve contrastare, solo se è strumentalmente (e direi anche illecitamente, per la violazione delle minime regole deontologiche) diretta a favorire una parte del processo o a realizzare una idea politica nel processo.
Cerco di spiegarlo con un fatterello.
A San Miniato, in Piazza del Popolo, c’era (e c’è tuttora) una farmacia dove negli anni del primo dopoguerra si ritrovavano i maggiorenti del paese, quelli che contavano: oltre al farmacista, il maresciallo, il medico della mutua, qualche proprietario agrario, l’industriale più in vista, l’esattore delle tasse; e tra questi il pretore. San Miniato è stata una città resistenziale, quella de La Notte di San Lorenzo dei fratelli Paolo e Vittorio Taviani (entrambi sanminiatesi), tanto per intenderci, molto turbolenta anche per le lotte contadine e operaie degli anni ’50 e ‘60. Quando si congedò dal paese dopo circa sei anni, nel 1962, per assumere un altro incarico, il Pretore fu fermato in piazza dal capopopolo, comunista, che togliendosi il berretto, gli disse: «Dottore, La saluto anche a nome dei miei compagni, perché Lei frequentava la farmacia, ma non era uno della farmacia».
Quel Pretore faceva di nome Giuseppe Pera, era stato azionista e poi socialista impegnato su molti fronti, espulso dal suo partito con un editto del 1952 - «per intelligenza con i nemici del partito e della classe lavoratrice» - per le sue posizioni antistaliniste; anche durante il periodo della magistratura scriveva di politica e dei massimi sistemi, sotto il falso nome di Arturo Andrei, sulle Riviste Il Ponte, Il Mulino, Critica Sociale, Risorgimento Socialista e su altri giornali politicamente orientati a sinistra. Il Professore ci raccontava che da magistrato, per non dare evidenza pubblica alle sue idee, nascondeva i giornali di “sinistra” (tale era considerato all’epoca anche La Stampa) nei fascicoli d’ufficio.
Frequentava la farmacia, ma non era della farmacia. Quelli del suo popolo lo avevano capito. Era un giudizio del quale Pera è stato sempre fiero e lo ribadiva spesso, con una non velata commozione.
Questo per dire che l’apoliticità del giudice si appalesa come una dichiarazione di principio puramente formale; ciò che fa la differenza è l’onestà intellettuale della persona. Si tratta di verificare, piuttosto, come viene calata nella realtà del decidere quotidiano la formazione politica e - se vogliamo usare un termine ormai desueto - l’ideologia del magistrato.
Nella nostra materia (ma credo che il problema riguardi anche altre materie particolarmente “sensibili”) da molti anni, tanti si interrogano e chiedono, cercano di informarsi, per sapere come la pensi questo o quel giudice, se è favorevole ai lavoratori o alla parte datoriale.
Una domanda stucchevole, anche quando sono visibili (seppure in casi davvero molto limitati, in base alla mia esperienza) espressioni palesemente partigiane, che fa il paio con la tendenza - che personalmente non ho mai condiviso - a etichettare gli avvocati pro labour o datoriali, in base alla clientela fiduciaria di provenienza, come se il mestiere di difensore ( che pure può avere peculiarità diverse in base al soggetto assistito) possa essere sostanzialmente differente nell’un caso rispetto all’altro.
Nel corso degli anni, a scapito della competenza e della signorile eleganza di molti giudici (non solo) del lavoro del passato, ho notato, talvolta, una maggiore approssimazione nell’approccio alla materia controversa e un maggiore disinteresse per le persone e i soggetti coinvolti nelle singole controversie, per i diritti agiti.
Il giudice del lavoro moderno è talmente «imparziale» da risultare autosufficiente, talvolta indifferente agli interessi in gioco di entrambe le parti.
Mi riferisco, essenzialmente, ai rapporti con le parti sostanziali e i rispettivi difensori, ma anche ai rapporti con i testimoni che, malgrado loro, si trovano a dover affrontare il processo, con perdite di tempo e disinteresse, come un accidente che sarebbe meglio evitare (a dimostrazione di uno scarso senso di dovere civico).
Nell’istruttoria orale, soprattutto quella testimoniale, è fondamentale, perché esclusivo, il ruolo del giudice come arbitro del processo deputato a condurla. I rapporti dei difensori con i testimoni sono limitati, se non esclusi del tutto, per il divieto di interferenze, e si giocano tutti nella dialettica del processo, dove arbitro imparziale è il giudice.
È un problema, questo, che riguarda anche la posizione delle parti sostanziali, ad esempio in caso di interrogatorio e di espletamento del tentativo di conciliazione. È vero che in questi casi la posizione del difensore è rilevante e può essere anche più incisiva; e tuttavia anche in questo caso il ruolo del giudice viene percepito, a seconda dei casi, come quello di un soggetto avulso dal contesto controverso, oppure palesemente partigiano.
Molte volte è un problema più di apparenza, che di sostanza, ma in alcuni casi le aspettative delle parti, che confidano in una giustificata fondatezza, vengono gravemente frustrate; e anche la ricaduta sulla funzione regolatrice del conflitto nel processo risulta negativa.
Sul piano istruttorio osservo anche che, rispetto al passato, non solo per l’esperienza professionale mia e dei colleghi che frequento, ma anche per le tante sentenze che mi capita di leggere, da qualche anno a questa parte, c’è una, nemmeno tanto malcelata, insofferenza del giudice di primo grado per l’istruttoria, in particolare quella orale, in controtendenza con quanto accadeva in passato, quando era più facile, a fronte anche di un ricorso con elementi allegatori e probatori generici o carenti, al limite della manifesta nullità, dare ingresso alle prove, tanto poi il processo realizzava comunque il suo percorso, sino alla decisione. Ciò accadeva anche con gli accertamenti peritali, spesso inutili, o meramente esplorativi (ma, nonostante ciò, ugualmente disposti dal giudice a suo ausilio e per colmare, talvolta, le lacune delle parti).
Oggi, quasi per l’inesorabile legge del contrappasso, le richieste istruttorie dei difensori sono rigettate, proprio perché ritenute esplorative ed inutili al precipuo scopo della prova dei fatti allegati, anche quando risultano essenziali e correttamente formulate.
Ho notato, anche – ma credo si tratti di una osservazione comune a molti - il progressivo superamento della fase preliminare del libero interrogatorio delle parti, al quale prima veniva data una giusta rilevanza nell’ambito del processo del lavoro.
C’è sempre stata una sostanziale insofferenza per l’interrogatorio formale, specificamente richiesto, che continua ad essere disatteso (anche quando non viene espletato quello libero), anche se talvolta può essere risolutivo, a prescindere e nonostante le difese delle parti come incartate nel processo.
Certamente, alcune volte questo strozzamento dell’istruttoria dipende anche da una non calibrata ed efficace tecnica difensiva, non solo e non tanto nella redazione dei capitoli di prova (depurati dalle circostanze che in maniera incontrovertibile sono documentali o documentabili e dai giudizi valutativi), ma dalla sovrabbondanza delle prove orali richieste, spesso defatiganti e ripetitive e assolutamente generiche.
Ma non è facile il compito del difensore che deve selezionare i fatti rilevanti da provare e come provarli, non solo per i tempi ristretti nei quali sono chiamati ad operare, ma anche per la non sempre comune intelligenza e consapevolezza delle parti che talvolta non riescono ad apprezzare, in maniera adeguata, i fatti controversi della causa che li riguarda.
Per questo motivo ritengo quanto mai necessario un esaustivo interrogatorio libero delle parti che non sia limitato al mero riportarsi agli atti, risultando, se così fatto, del tutto inutile. Anche perché, se il giudice conosce bene o almeno a sufficienza il processo che si accinge ad istruire, può ricavare proprio dal libero interrogatorio delle parti elementi utili per impostare l’istruttoria e selezionare le prove da ammettere o non ammettere, a supporto dei fatti di causa ritenuti rilevanti.
Sembra quasi che negli ultimi anni tutti i processi siano diventati documentali e che, con il gioco del detto e non detto, dell’allegato, ma non provato (o specularmente il contrario), del contestato e non contestato, della prova generica, irrilevante, negativa, valutativa – in una parola inammissibile - si possa decidere la causa allo stato degli atti (non subito, però, talvolta anche a distanza di molto tempo, senza alcuna esigenza istruttoria o difensiva che giustifichi il ritardo della decisione).
Questa riflessione, che mi sento di fare, mi sembra possa essere considerata di una certa importanza perché il processo non istruito in primo grado, del tutto o in maniera insufficiente, comporta uno strozzamento, un depauperamento, del processo che difficilmente (quasi mai) potrà essere recuperato in grado di appello.
A ciò si aggiunga che spesso, in palese violazione del principio c.d. della vicinanza della prova, è la parte più lontana dalla conoscenza del fatto da provare che viene ritenuta onerata della prova, che, per questo, diventa davvero impossibile realizzare.
In tal modo la causa viene definitivamente pregiudicata, con buona pace della pedissequa riproposizione dei mezzi istruttori in grado di appello dove solo in casi eccezionali la Corte provvede in via istruttoria.
Esplorativo/a è l’aggettivo di senso comune che colora di inammissibilità molte richieste istruttorie delle parti, senza distinzione di casacca.
Ma non è, questo, un problema che riguarda solo il contenzioso del lavoro.
Mi ha molto colpito una recente ordinanza della Cassazione Civile che (in una controversia semplice, relativa a una causa di risarcimento dei danni ex art. 2051 c.c. a seguito di caduta a Milano provocata da numerose buche non visibili presenti sul manto stradale) ha severamente criticato il giudice di merito (di primo e secondo grado) che dopo aver negato lo sfogo di prove testimoniali ritenute inammissibili per diversi motivi (generiche, negative, valutative, irrilevanti) aveva rigettato la domanda risarcitoria per la mancata dimostrazione del nesso di causa fra le condizioni della strada e il sinistro, così negando il diritto alla prova della parte danneggiata (10).
La Cassazione, dopo avere individuato i due casi in cui il giudizio sulla prova può essere sindacato in sede di legittimità ( semplificando: a - quando il giudice di merito , decidendo sulla prova, abbia violato una regola processuale; b - quando la valutazione del giudice di merito, che abbia accolto o rigettato le istanze istruttorie, sia viziata sul piano della logica, risultando la decisone sulla prova, in relazione con le altre statuizioni contenute nella sentenza, insanabilmente contraddittoria o totalmente arbitraria) impone al giudice del rinvio e offre al lettore un decalogo sulle prove ammissibili, tutto da leggere, ricordando quello che è ovvio:« la correttezza di una sentenza di merito può essere valutata solo dopo che il giudice di merito abbia compiuto legittimamente e correttamente l’attività istruttoria».
Altrimenti si arriva al paradosso di ammettere o negare la prova non già in base al suo contenuto oggettivo, ma in base al tipo di risposta che si sollecita dal testimone. Certo che è consentita al giudice una valutazione della rilevanza del contenuto della prova: ma questa è una valutazione che il giudice deve compiere ex post, non ex ante, in sede di ammissibilità della prova da espletare.
Veniamo all’uso da parte dei giudici dei loro poteri officiosi.
In passato si realizzava un uso (talvolta anche gravemente) inappropriato, per riequilibrare la disparità sostanziale tra le parti in causa; da qualche anno è diventato quasi inesistente, in tal modo pregiudicando definitivamente una delle parti in causa, quella processualmente più debole, che non sempre è anche quella sostanzialmente più debole, cioè la parte lavoratrice.
Se a ciò si aggiunge l’insofferenza spesso dimostrata per l’emissione di ordini esibitivi e per le acquisizioni d’ufficio di informazioni e documenti, si percepisce, in molte occasioni, la solitudine della parte, pur onerata per la legge processuale, che si trova costretta nell’impossibilitata a provare i fatti oggetto di un diritto controverso.
In tal modo è stato gravemente snaturato il significato innovativo della previsione normativa del processo del lavoro del 1973 ( mi riferisco non solo all’art. 421 c.p.c. ma anche al disposto dell’art. 437 c.p.c.) che, in un contesto di preclusioni e decadenze fissate negli atti introduttivi, consentiva al giudice del lavoro un ampio margine di azione nel processo, che ora è divenuta una consapevole autolimitazione, quest’ultima solo in apparenza affermata a tutela della paritaria posizione delle parti.
Non si tratta qui di contraddire la regola formale di giudizio fondata sull’onere della prova, che comunque non può essere applicata meccanicamente, ma di mettere in atto, correttamente, il principio inquisitorio affermato nel processo del lavoro dalla riforma del 1973 quanto all’acquisizione dei mezzi istruttori relativi ai fatti allegati dalle parti, nella consapevolezza che il giudice ha il potere-dovere di provvedere d’ufficio per superare l’incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione.
Io non credo che l’esercizio dei poteri istruttori d’ufficio debba (o meglio sia stato pensato per) agevolare la parte debole del processo, per lo più l’attore - lavoratore, invalido, pensionato, ecc. – a scapito della parte datoriale o dell’ente previdenziale; credo che sia uno strumento che il legislatore del 1973 abbia approntato per rendere effettivo l’accertamento dei fatti in un processo particolarmente sensibile alla tutela dei diritti: una effettività che, nei fatti, agevola la posizione della parte economicamente più debole.
Quando il legislatore ha voluto agevolare la prova del lavoratore lo ha fatto espressamente, come succede nei procedimenti antidiscriminatori.
Nel caso che ci occupa, invece, l’arbitro è il giudice e al giudice sono concessi poteri e facoltà che non troviamo, con la stessa intensità, nel diritto processuale comune.
Con questa stessa prospettiva di analisi vanno anche valutate le disposizioni che, nel processo del lavoro, superano i limiti di ammissibilità della prova.
Devo riconoscere, però, che in direzione della limitazione dei poteri officiosi aiuta molto anche la giurisprudenza di legittimità che ha codificato, nel tempo, canoni interpretativi e limiti di ammissibilità sempre più stringenti.
Un altro aspetto che merita approfondire è quello relativo alle spese legali, strettamente legato all’altro, generale, dell’onerosità fiscale imposta anche nel processo del lavoro.
In passato la questione del regolamento delle spese legali non rilevava, o rilevava davvero poco, nell’interesse precipuo del lavoratore, certamente non intimorito dal procedere in giudizio, potendo contare sulla (quasi sempre) accordata compensazione, anche in caso di palese soccombenza o addirittura di abuso del processo.
Nella logica (di gran parte) dei giudici del lavoro di una volta il conto delle spese a carico della parte datoriale rappresentava il male minore, facilmente sopportabile per il dislivello economico delle parti in causa, a fronte di un incidente di percorso e di una disgrazia comunque superati.
Un po’ come capita nei processi penali a querela o denuncia di parte, dove certamente c’è il rischio della calunnia, ma di fatto si realizza una sostanziale indifferenza al problema delle spese legali.
Intendo dire che in passato le cause di lavoro, soprattutto a fine rapporto, per licenziamento o altri motivi (mansioni superiori e differenze retributive, soprattutto) rappresentavano la regola, perché il lavoratore non aveva il timore delle spese legali da affrontare in caso di soccombenza.
L’atteggiamento del lavoratore è mutato anche in conseguenza dell’onerosità fiscale del processo del lavoro, che rappresenta la regola, tranne alcune, limitate, situazioni.
E in questo caso non è un problema di scelta processuale del difensore, ma di autolimitazione della parte lavoratrice, essenzialmente, che valuta, con maggiore cognizione di causa, l’opportunità di adire la sede giudiziaria, per non dover subire gli effetti economici non solo e non tanto per il costo delle spese legali dovute al proprio difensore ( che inevitabilmente farà un passo indietro), ma per il rischio della soccombenza che comporta il pagamento delle spese legali in favore della controparte.
Siamo così passati da un regime sostanzialmente permissivo nell’intraprendere le cause di lavoro, ad un regime gravemente limitativo, per cui non credo di esagerare se dico che le cause di lavoro sono introdotte e coltivate dal lavoratore, negli ultimi anni, solo se ritenute in massima parte necessarie: ad esempio in caso di licenziamento o di citazione in giudizio.
Le valutazioni per il datore di lavoro sono un po’ diverse, perché giocano anche altri fattori, ma talvolta capita che una causa non venga coltivata, sin dall’inizio o nei gradi di impugnazione, non solo e non tanto per l’acquisita consapevolezza di avere sostanzialmente torto, ma anche e soprattutto per la negativa incidenza economica delle spese della propria difesa e di quelle conseguenti alla soccombenza.
Sul regolamento delle spese l’atteggiamento del giudice del lavoro è completamente mutato, anche in ragione della mutata disciplina normativa e degli interventi giurisprudenziali di costituzionalità e di legittimità, per cui siamo passati da una generale sottovalutazione del profilo delle spese alla esasperazione della condanna in caso di soccombenza, con criteri spesso non chiari, tanto meno coerenti, sia con il valore intrinseco della causa, sia con il contesto del processo definito.
Ne derivano, spesso, decisioni davvero esorbitanti il potere del giudice, sia in un senso che nell’altro, che difficilmente vengono fatte oggetto di impugnazione, proprio per il rischio concreto che la condanna alle spese sia ripetuta in grado di impugnazione.
Ho visto, anche nella pratica degli altri, diversi casi nei quali l’impugnazione della sentenza di primo grado, talvolta anche di appello, è stata proposta per recuperare in via transattiva la compensazione delle spese a fronte della rinuncia reciproca ai diritti e all’impugnazione.
Capita, talvolta, che questa soluzione transattiva venga realizzata a monte, proprio al fine di non presentare l’impugnazione (magari ricorrendone fondati motivi).
Ciò significa che quello del pagamento delle spese legali è un problema reale, che incide, da qualche anno, sulle scelte e sulle posizioni delle parti in causa.
Ma c’è un altro aspetto relativo alle spese legali sul quale, da ultimo, vorrei soffermarmi.
Spesso notiamo che la condanna alle spese assume, forse anche inconsapevolmente, nella decisione dei giudici di merito, un significato di danno punitivo, per stigmatizzare il comportamento processuale della parte soccombente, che surroga il ben diverso - da motivare adeguatamente e in presenza di dati presupposti - meccanismo della condanna per responsabilità aggravata.
Indubbiamente il processo del lavoro (ma non solo) è il campo obbligato in cui si misura l’estensione della giustizia sostanziale rispetto a quella formale.
La scelta del difensore, consapevole delle difficoltà del processo nel suo evolversi e nel suo insieme, consiglia, quando vi siano i presupposti, di addivenire ad una conciliazione, nella prospettazione degli effetti positivi della transazione con la risoluzione definitiva (in prospettiva, almeno) della lite.
Prima di intraprendere una causa, in questa valutazione il difensore soffre di una esasperata solitudine perché è difficile, in molti casi, far comprendere alle parti l’opportunità e il valore aggiunto di un accordo, anche faticosamente raggiunto tra le parti.
Ecco perché nel giudizio di primo grado è importante il ruolo del giudice che dovrebbe esperire con maggiore dedizione il tentativo di conciliazione. Dico dovrebbe perché o non lo fa, oppure lo fa senza cognizione di causa, lasciando sempre alle parti e soprattutto ai loro difensori la responsabilità di coltivare soluzioni transattive anche in corso di causa.
La via da percorrere nella tutela dei diritti del lavoro è indicata dalla Costituzione.
Oggi però, più che in passato, la giustizia sostanziale lascia il passo a quella formale. Si percepisce, in tante occasioni, che il processo è il luogo destinato per affermare una regola di diritto, un principio, non quello per realizzare la giustizia del caso concreto considerato il diverso peso e ruolo delle parti in causa.
Questo è un punto della discussione che merita un approfondimento da parte degli studiosi e degli operatori pratici.
In questa sede mi limito solo ad evidenziare che il processo del lavoro ha bisogno di una sana e robusta manutenzione se l’intento è davvero quello di perseguire l’affermazione della giustizia sostanziale, come derivata dalla eguaglianza sostanziale.
È un problema di scelte politiche che comportano regole e tecniche processuali più adeguate alla situazione, rispetto al passato.
Ma i temi sono anche altri.
Un giusto processo civile è un processo che - con i tempi adeguati - riesce ad affermare i diritti delle parti in causa e a soddisfare le pretese di chi ha il lavoro come primario bene della vita.
La necessità di assicurare la celerità delle decisioni indubbiamente incide sulle scelte e sul comportamento processuale del giudice che con equilibrio deve addivenire alla soluzione della controversia.
Fare presto è una parola d’ordine alla quale da qualche anno ci siamo passivamente abituati. Ma non sempre la celerità delle decisioni si coniuga con l’efficienza del processo.
Una istanza di accelerazione c’è, indubbiamente, almeno in alcune controversie (penso ad esempio alla materia dei licenziamenti) e talvolta questo comporta un condizionamento anche del giudice che è portato a un malgoverno del processo, spesso (ma non sempre) a fin di bene.
Il problema, però, potrebbe essere risolto stabilendo una corsia preferenziale per alcune controversie e stringendo i tempi delle impugnazioni, di appello e legittimità, garantendo, però ampio sfogo al processo di primo grado, che, in punto di accertamento dei fatti, è quello più importante, se non l’unico, considerato come, in generale, viene svolto quello di appello.
Da ultimo (ma non perché è l’ultima delle questioni, anzi) dedico qualche osservazione - qualche punto di domanda - ai temi dell’interpretazione e del ruolo della giurisprudenza, anche nella sua tendenziale linea evolutiva (11).
Un punto di domanda è quale sia il rapporto che debba esistere fra il valore della libertà della giurisprudenza e quello della tendenziale univocità e prevedibilità delle decisioni.
È un tema davvero problematico, ma, a mio avviso mal posto e per certi versi irrisolvibile.
La giurisprudenza non deve essere libera, ma consapevole dei limiti dell’interpretazione e del rispetto delle regole da applicare.
La certezza del diritto non è un assioma, ma un fine a cui il processo, nella sua immanente funzione nomofilattica, deve tendere e deve cercare di realizzare positivamente.
Del resto, l’affidamento incolpevole del cittadino (e in questa categoria ricomprendo tutti, anche i difensori) vale anche nei confronti delle decisioni dei giudici che, pur a diverso livello (a maggior ragione, ma non esclusivamente, questo discorso vale per le pronunce di cassazione), ci indicano delle regole di condotta da seguire e condizionano anche le scelte difensive e le iniziative giudiziarie.
Ovviamente la libertà della giurisprudenza consente ai soggetti interessati di realizzare una diversa applicazione della legge, nel rispetto, anche, dei principi fissati dalle fonti sovraordinate, ma non può essere utilizzata per sovvertire la certezza del diritto.
L’interpretazione è il sale dell’attività giurisprudenziale; e nessuno, nemmeno chi scrive, può negare il potere-dovere di realizzarla, una corretta interpretazione, nell’analisi - fattuale e giuridica - e nella decisione di ogni singola controversia.
Ciò che, spesso, non viene tollerato, dagli avvocati (ma non solo), sono le torsioni interpretative per arrivare ad una soluzione preordinata, preconfezionata, che prescinde dai fatti accertati. Una interpretazione che è il fine e non il mezzo per arrivare alla decisione. E non mancano, anche per questo motivo, motivazioni assolutamente contraddittorie e prive di costrutto logico, prima che giuridico.
Per entrambe le parti (seppure in maniera diversa) gioca l’inevitabile sovrapporsi delle differenti interpretazioni giurisprudenziali, anche nell’ambito dello stesso ufficio giudiziario, che spesso si risolvono in sede di legittimità in un modo completamente diverso dalle aspettative coltivate, anche fondatamente, all’inizio del processo di primo grado.
Considerato, peraltro, che l’interpretazione della norma (e la valutazione della sua legittimità alla stregua dei pronunciati ella Corte Costituzionale e della Corte di Giustizia) muta nel tempo, come è giusto che sia.
Ho molto apprezzato il dibattito introdotto recentemente da Francesco Perrone su Labour Law Community sull’attuale identità del giudice del lavoro (12) che si esprime nelle tre diverse visioni pancostituzionalista (13), pancivilista (14) e paneuropeista (15).
Si tratta, ovviamente, di una semplificazione ( e mi sembra che anche i tre magistrati lo abbiano fatto capire, in diversa misura, nelle risposte date), che indica la tendenza a ricondurre fatti o fenomeni diversi a un denominatore comune, assorbente, che tradisce la funzione essenziale dell’interpretazione del giudice, anche di quello che si occupa di lavoro, che al tempo stesso deve essere legato al dato normativo legale, in termini di stretto positivismo, ai precetti della Costituzione e al diritto europeo in senso lato (convenzionale e dei trattati).
Nel delicato compito dell’interprete, a mio avviso, tutti i criteri sopra indicati interagiscono e consentono al giudice di applicare la norma, partendo dal dato letterale, con una lettura costituzionalmente orientata che non può tradursi, però, in un intervento di tipo manipolativo che è precluso al giudice comune, che, così facendo, oltrepasserebbe il compito che gli è assegnato dall’ordinamento, indossando le vesti del “legislatore”.
Anche di recente la Corte Costituzionale ha valorizzato, ancora una volta, il meccanismo del controllo diffuso di costituzionalità che il giudice comune deve sapientemente utilizzare, con tutto lo sforzo necessario, prima di sollevare una questione di legittimità costituzionale, che non esclude il sindacato accentrato di costituzionalità ex art. 134, Cost., solo nei limiti in cui ciò è necessario.
È vero che la Corte Costituzionale, con la pronuncia di incostituzionalità, interviene con efficacia erga omnes, diversamente da quanto può fare il giudice comune del caso singolo. Ma è proprio il potere dell’interpretazione costituzionalmente orientata che conferisce al giudice un ampio spazio di manovra per arrivare ad una decisione “politicamente” corretta e rispettosa della Carta fondamentale.
Il giudice del lavoro, però, è anche “servo” di due altri padroni: il diritto dell’Unione, alla cui attuazione deve concorrere, con la disapplicazione delle disposizioni del diritto nazionale contrastanti con esso; la Corte di Giustizia, che, avendo competenza esclusiva nell’interpretazione e applicazione dei Trattati comporta, in virtù del principio di effettività delle tutele, che le decisioni dalla stessa adottate siano vincolanti (e non solo nei confronti del giudice che ha disposto il rinvio).
In questo complicato intreccio di poteri e fonti multilivello trova svolgimento e si realizza il sapiente compito dell’interprete.
Sorprende, allora, che nella nostra materia (più che in altre) non siamo ancora riusciti a realizzare non dico una apprezzabile certezza del diritto, ma almeno una durevole stabilità delle decisioni sulle questioni di fondamentale importanza per la vita dei lavoratori e delle imprese, che consenta di indirizzare le scelte economiche sulla base di regole consolidate anche di diritto applicato.
Nemmeno per le regole processuali.
In questa prospettiva, a mio avviso, dovrebbe essere rafforzato il potere nomofilattico della Corte di Cassazione, con un dovere conformativo del giudice di merito, che spesso e talvolta in maniera del tutto immotivata emette pronunce in aperta ribellione con l’orientamento espresso in sede di legittimità.
Mi rendo perfettamente conto che in questo modo si arriva a comprimere, sicuramente più del dovuto, il potere del giudice di interpretare il diritto nella res controversa, ma anche la stabilità del diritto pronunciato deve essere, in qualche modo, assicurata.