L´anno prossimo ricorrerà il cinquantesimo anniversario dell´entrata in vigore della legge n. 533 del 1973 (Disciplina delle controversie individuali di lavoro e delle controversie in materia previdenziale) che, nell´introdurre il nuovo rito del lavoro, fortemente innovativo, destinato a governare le relative controversie, ha istituito la nuova figura del giudice del lavoro.
Condivido pienamente il giudizio sostanzialmente positivo che generalmente viene formulato con riferimento al modo in cui il giudice del lavoro ha operato nei quasi cinquanta anni dalla sua istituzione. Giudizio riferito in particolare alla sua capacità di coniugare in modo generalmente equilibrato il rapporto fra giustizia formale - in un processo che è governato da un rigido meccanismo di preclusioni e decadenze - e giustizia sostanziale – avvalendosi, ove ritenuto opportuno, di un complesso e articolato apparato di poteri ufficiosi, finalizzati a perseguire appunto quest´ultimo obiettivo in un contesto palesemente caratterizzato, come comunemente riconosciuto, anche in dottrina da una situazione di strutturale diseguaglianza economica fra le parti del giudizio.
Giudizio riferito anche, con riguardo soprattutto ai primi decenni di applicazione del nuovo rito, alla capacità del giudice del lavoro di realizzare il fondamentale obiettivo, quanto meno per le cause più urgenti – mi riferisco, in particolare a quelle in tema di licenziamento, di tutela dei diritti sindacali e ad alcune tipologie di controversie previdenziali -, della ragionevole celerità della decisione; e cioè una decisione, ex lege provvisoriamente esecutiva, resa entro pochi mesi dal deposito del ricorso introduttivo del giudizio. Sono pienamente consapevole del fatto che si tratta di un giudizio che soffre di una inevitabile generalizzazione, che non tiene conto dei problemi che si sono verificati in singoli uffici giudiziari per le cause più varie, non ultima quella della sopravvenuta inadeguatezza dell´organico in relazione dell´evolversi della situazione economico-sociale ed industriale nella zona nella quale il giudice del lavoro si è trovato ad operare. Ma il suddetto giudizio positivo trova indiscutibile riscontro nel fatto che il modello “rito del lavoro” è stato spesso considerato vincente ed ha dimostrato, agli occhi del legislatore, una forte capacità espansiva.
2.
Negli ultimi anni il compito affidato al giudice del lavoro è diventato sempre più gravoso e complesso per una serie di ragioni che possono essere sintetizzate, a mio avviso, nei termini che seguono.
Per oltre quaranta anni il giudice del lavoro ha operato sulla base di una legislazione rimasta sostanzialmente omogenea e coerente; legislazione basata sulla centralità del modello contrattuale costituito dalla subordinazione e sulla affermazione e garanzia dei diritti ad essa connessi. Diritti concernenti, fra l´altro, le mansioni, l´inquadramento contrattuale, la persona del lavoratore, lo svolgimento dell´attività sindacale e la tutela del posto di lavoro. Diritti enunciati per la prima volta in modo sistematico nel c.d. Statuto dei lavoratori (legge n. 300 del 1970) e la cui concreta ed efficace applicazione è stata, assieme alla realizzazione dei principi costituzionali concernenti il rapporto di lavoro, l´obiettivo di cui si è fatto storicamente carico – a mio avviso con successo - il giudice del lavoro.
Negli ultimi dieci anni il legislatore è intervenuto in modo fortemente incisivo sull´assetto normativo preesistente, in primo luogo agendo sul sistema delle tutele tradizionalmente garantite al lavoratore subordinato. Fra gli interventi normativi di maggior rilievo, e a mero titolo di esempio, ritengo opportuno ricordare, in primo luogo, le profonde modifiche concernenti il regime sanzionatorio relativo al licenziamento illegittimo (mi riferisco alla sostanziale riscrittura dell´art. 18 della legge n. 300 del 1970 introdotta dalla legge Fornero (legge n. 92 del 2012) e alle ulteriori modifiche del suddetto regime previste dal d. lgs. n. 23 del 2015 con riferimento al c.d. contratto a tutele crescenti che hanno drasticamente ridotto l´ambito di applicazione dell´istituto della reintegrazione nel posto di lavoro specularmente ampliando quello di applicabilità della tutela indennitaria. Sono note le difficoltà interpretative relative alla citata disciplina ed il travaglio giurisprudenziale, ancora non del tutto risolto, che ne è derivato.
Fra le altre modifiche che a mio avviso hanno inciso in modo significativo sull´assetto complessivo del rapporto di lavoro subordinato è da ricordare quella relativa alla disciplina delle mansioni, tradizionalmente contenuta nell´art. 2103 cod. civ. nella formulazione dettata dall´art. 13 dello Statuto dei lavoratori. Come è noto, con tale norma il legislatore aveva posto limiti precisi all’esercizio dello ius variandi che costituisce uno dei poteri tipici del datore di lavoro e che, in applicazione della citata disposizione, poteva essere esercitato solo nell’ambito delle mansioni professionalmente equivalenti, con diritto alla promozione definitiva in caso di assegnazione a mansioni superiori protrattasi oltre un determinato periodo e con previsione della nullità dei patti modificativi in peius delle mansioni. Si trattava, come appare evidente, di norma caratterizzata da un notevole grado di rigidità che ha comportato notevoli difficoltà applicative (si pensi all’approdo giurisprudenziale che, con riferimento alla disposizione che sancisce la nullità dei patti modificativi in peius delle mansioni, ha stabilito che tale nullità non opera nelle ipotesi in cui il patto di demansionamento sia finalizzato a scongiurare un licenziamento, nel caso in cui il lavoratore, a causa di una sopravvenuta inabilità, non sia più abile a svolgere le mansioni in precedenza svolte). Nel corso degli anni le suddette difficoltà applicative sono progressivamente aumentate in relazione all’evoluzione dell’organizzazione del lavoro in azienda, difficoltà determinate, da un lato, dall’evoluzione tecnologica e, dall’altro, dall’esigenza di far fronte alle sempre più impegnative sfide della concorrenza imposte dalla globalizzazione. Nel 2015 la norma suddetta è stata (a mio avviso opportunamente) modificata in modo significativo (art. 3 d. lgs. n. 81 del 2015) e resa così più coerente con i nuovi assetti organizzativi aziendali. In particolare, è stata resa più elastica la disciplina dello ius variandi consentendone l’esercizio non già nei ristretti limiti delle mansioni equivalenti alle ultime effettivamente svolte, bensì nell’ambito delle mansioni riconducibili allo stesso livello e categoria legale di inquadramento. Sono state inoltre previste ipotesi di legittima assegnazione del lavoratore a mansioni appartenenti al livello di inquadramento inferiore. Anche in questo caso, quindi, è stata introdotta una normativa complessa, che sconvolge assetti giurisprudenziali faticosamente formatisi nell´arco di oltre quaranta anni e che ha quindi bisogno di nuove soluzioni interpretative equilibrate, coerenti e stabili.
Infine, quale ulteriore importante esempio di normativa introdotta dal legislatore per meglio governare fenomeni industriali connessi all´evoluzione delle strutture produttive del nostro Paese, e che a mio avviso è destinata a porre rilevanti problemi interpretativi ed applicativi che il giudice del lavoro sarà chiamato a risolvere, merita di essere ricordata la recente disciplina sulle delocalizzazioni, inserita nella legge di bilancio del 31 dicembre 2021 (legge n. 234 del 2021, art. 1, commi da 224 a 238), che incide in modo rilevante, fra l´altro, sulla disciplina dei licenziamenti collettivi e di quelli per giustificato motivo oggettivo.
Il legislatore, peraltro, non si è limitato a incidere sulla disciplina degli istituti lavoristici tradizionali, ma ha allargato il proprio campo di azione a tutta una serie di tipologie di prestazioni lavorative che traggono la loro origine dall´evoluzione tecnologica ed in particolare dalle tecnologie digitali.
In sostanza il legislatore, preso atto dell´emersione di una variegata tipologia di forme di collaborazione fra prestatori di lavoro e imprese che non appaiono facilmente inquadrabili nello schema tradizionale della subordinazione, ma che sembrano concretarsi, almeno tendenzialmente, in prestazioni di opera continuativa e coordinata prevalentemente personale (e quindi si avvicinano, sia pure con varie sfumature, alla definizione fornita dall’art. 409, n. 3, cod. proc. civ.), ha cercato di dettare una disciplina ad hoc pensata per tener conto della specificità di tali tipologie. Mi riferisco, in primo luogo, alla legge n. 81 del 2017, che ha introdotto misure in tema di lavoro autonomo non imprenditoriale e misure “volte a favorire l’articolazione flessibile nei tempi e nei luoghi del lavoro subordinato”. Mi riferisco altresì, e principalmente, al decreto legge n. 101 del 2019, convertito con modificazioni dalla legge n. 128 del 2019, che, a modifica del decreto legislativo n. 81 del 2015, ha dettato una specifica disciplina a tutela del lavoro tramite piattaforme digitali, e si è preoccupato di determinare “livelli minimi di tutela” per i lavoratori autonomi che svolgono attività di consegna di beni per conto altrui, in ambito urbano e con l'ausilio di velocipedi o veicoli a motore attraverso piattaforme anche digitali.
Come appare evidente, si tratta di interventi normativi di grande impatto sistematico e applicativo, e che peraltro sono caratterizzati, secondo una communis opinio pienamente condivisibile e che riguarda non solo il diritto del lavoro ma l´intera produzione legislativa più recente, da una scarsa qualità tecnica dei testi legislativi, talvolta poco coerenti e privi di una visione di sistema.
Il contesto normativo di riferimento, col quale chiunque operi nel mondo del lavoro e sia chiamato ad applicare le sue regole si trova a doversi confrontare, è reso ancor più complesso dagli interventi, particolarmente frequenti e talvolta di grande rilievo sistematico, operati dalla Corte costituzionale, dalla Corte di giustizia dell´Unione europea e dalla Corte europea dei diritti dell´uomo.
E il contesto suddetto è destinato a complicarsi ulteriormente con la prossima (presumibilmente) entrata in vigore della Direttiva sul miglioramento delle condizioni lavorative nel lavoro mediante piattaforme digitali, di cui è stata pubblicata la relativa Proposta nel dicembre 2021 e che introdurrà regole suscettibili di forte impatto, anche in considerazione della crescente diffusione di tali tipologie di lavoro.
3.
È in questo quadro già estremamente complesso dal punto di vista dell´interpretazione sistematica, dove, per di più, le soluzioni applicative devono confrontarsi con un mondo del lavoro in rapida evoluzione e dove la domanda di giustizia richiede risposte allo stesso tempo rapide, sistematicamente coerenti e convincenti, che il giudice del lavoro deve operare. In un contesto, per di più, in cui la pressione pubblica ad aumentare la sua produttività (e cioè il numero delle decisioni adottate nell´unità di tempo) è crescente e rende quindi meno agevole l´attività istruttoria ed il meditato uso dei poteri ufficiosi.
In questo contesto la corte di legittimità costituisce un supporto importante che può e deve essere utilizzato in tutte le sue potenzialità.
La principale fonte di supporto è costituita dalla nomofilachia.
È stato autorevolmente affermato che, se è vero che ogni pronuncia – provenga essa dal giudice di legittimità o da un giudice di merito – enuncia un principio di diritto che, per il naturale carattere generale ed astratto di ogni regula iuris, è potenzialmente idoneo a valere per qualsiasi altra analoga vicenda, e che pertanto è legittimo affermare che la funzione nomofilattica, in quanto volta ad individuare la corretta interpretazione del contenuto delle norme giuridiche da applicare, è propria del giudice di ogni ordine e grado, è anche vero che, in un senso più circoscritto e specifico, la nomofilachia è compito proprio della Corte di cassazione, alla quale l’art. 65 dell´ordinamento giudiziario (regio decreto n. 12 del 1941) impone di assicurare non solo l’esatta osservanza della legge ma anche la sua uniforme interpretazione e l’unità del diritto oggettivo nazionale. In sostanza spetta alla Corte di cassazione il compito di ricondurre il più possibile a sistema le linee interpretative che si manifestano nella giurisprudenza, agevolata dalla sua stessa posizione di vertice del sistema piramidale delle impugnazioni.
E se la nomofilachia significa il rispetto del valore del precedente, essa costituisce il mezzo per ottenere, almeno in via tendenziale, la certezza del diritto: valore fondamentale anche per le implicazioni che ne derivano in ordine all’effettivo rispetto del principio di eguaglianza enunciato dall’art. 3 della Costituzione. Quel valore sembra oggi messo a repentaglio dal moltiplicarsi delle fonti normative, dalla difficoltà di coordinamento tra esse e dal peggioramento del livello tecnico di formulazione delle norme. Certezza del diritto che trova il suo irrinunciabile presupposto nella prevedibilità della decisione, che a sua volta è indotta dall´adozione, da parte dell´organo giudicante, di linee interpretative comuni ed è finalizzata ad assicurare la parità di trattamento.
Le Sezioni unite civili hanno ripetutamente ribadito tali principi. In particolare con Cass. SS.UU. n. 23675 del 2014 hanno affermato che l'affidabilità, la prevedibilità e l´uniformità dell'interpretazione delle norme costituisce imprescindibile presupposto di eguaglianza tra i cittadini e di “giustizia” del processo. Hanno altresì precisato (Cass. SS.UU. n. 13620 del 2012) che, benché non esista nel nostro sistema processuale una norma che imponga la regola dello stare decisis, essa costituisce, tuttavia, un valore o, comunque, una direttiva di tendenza immanente nell'ordinamento, stando alla quale non è consentito discostarsi da un'interpretazione del giudice di legittimità, investito istituzionalmente della funzione della nomofilachia, senza forti ed apprezzabili ragioni giustificative. Ed ancora con Cass. SS.UU. n. 11747 del 2019 è stato ribadito che, se è vero che il precedente giurisprudenziale, pur se è diretta espressione di nomofilachia, non rientra tra le fonti del diritto e, pertanto, non è di norma vincolante per il giudice, è anche vero che in un sistema che valorizza l'affidabilità e la prevedibilità delle decisioni, l'adozione di una soluzione difforme dai precedenti non può essere né gratuita, né immotivata, né immeditata, ma deve essere frutto di una scelta interpretativa consapevole e riconoscibile come tale, ossia comprensibile attraverso la motivazione.
Sullo stesso tema è stato condivisibilmente affermato che la stabilità della giurisprudenza trova il proprio fondamento nella tutela dell´affidamento. Se un soggetto è consapevole del fatto che in una determinata situazione vale una certa regola, adeguerà i suoi comportamenti a tale regola. Del resto costituisce principio di civiltà giuridica la garanzia del diritto di ciascuno di conoscere preventivamente gli effetti dei suoi comportamenti. E se da un lato la prevedibilità della decisione costituisce una componente non secondaria del diritto di difesa, dall´altro, appare del tutto evidente l´importante effetto deflattivo che la prevedibilità delle decisioni esercita sul contenzioso, atteso che essa induce a rinunciare a giudizi il cui esito prevedibile è negativo. Giova infatti ad entrambe le parti di un rapporto di lavoro, ad esempio, sapere in anticipo se una certa condotta possa costituire o meno una giusta causa di licenziamento e, una volta eventualmente insorta la controversia, confidare in una soluzione che riposi su orientamenti giurisprudenziali chiari e tendenzialmente stabili.
E se diminuisce il numero dei ricorsi al giudice, che non a caso in Italia è più alto, percentualmente, rispetto a quello della maggioranza dei Paesi europei, migliora la capacità di risposta del servizio giustizia. In ultima analisi, vi è un nesso tra ragionevole prevedibilità e i principi del giusto processo e della sua ragionevole durata.
4.
Negli ultimi anni il legislatore è più volte intervenuto con norme finalizzate a valorizzare il ruolo nomofilattico della Suprema corte. In particolare:
a. è stata prevista (art. 360 bis, n. 1, c.p.c.) l’inammissibilità del ricorso quando il provvedimento impugnato ha deciso le questioni di diritto in modo conforme alla giurisprudenza della Suprema corte e l´esame dei motivi di ricorso non offre elementi per rivedere tale orientamento;
b. è stata prevista la possibilità per la Corte di cassazione di enunciare un principio di diritto anche d’ufficio, nell’interesse della legge, quando il ricorso proposto dalle parti è dichiarato inammissibile, se la Corte ritiene che la questione decisa sia di particolare importanza (art. 363, comma terzo, c.p.c.). In tal caso, la pronuncia della Corte non ha effetto sul provvedimento del giudice di merito (art. 363, comma quarto, c.p.c.);
c. inoltre, ai sensi dei primi due commi dello stesso art. 363 c.p.c. «Quando le parti non abbiano proposto ricorso nei termini di legge o vi abbiano rinunciato, ovvero quando il provvedimento non è ricorribile in Cassazione e non è altrimenti impugnabile, il Procuratore generale presso la Corte di cassazione può chiedere che la Corte enunci nell’interesse della legge il principio di diritto al quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi» (primo comma). Sulla richiesta del Procuratore generale la Corte può anche pronunciarsi a sezioni unite se, a giudizio del Primo presidente la questione è di particolare importanza» (secondo comma);
d. la previsione dell´obbligo, per le sezioni semplici della Corte, di rimettere il ricorso alle Sezioni Unite, con ordinanza motivata, quando ritengano di non condividere un principio di diritto che queste ultime abbiano in precedenza enunciato (art. 374, terzo comma, c.p.c.);
e. la previsione secondo cui la Corte enuncia il principio di diritto posto a base della propria decisione non solo quando cassa con rinvio la sentenza impugnata, ma in ogni altro caso in cui, decidendo su altri motivi del ricorso, risolve una questione di diritto di particolare importanza (art. 384, primo comma, c.p.c.).
Sotto altro profilo il legislatore ha introdotto norme finalizzate a valorizzare il riferimento al precedente anche da parte del giudice di merito e ad incentivare, quindi, la coerenza, l’uniformità e la prevedibilità delle risposte alla domanda di giustizia.
Ad esempio, l’art. 118 disp. att., c.p.c., nella formulazione dettata dall´art. 52, comma 5, della legge n. 69 del 2009, n. 69, nel fissare la disciplina della motivazione della sentenza, prevede che essa contenga, l´esposizione succinta dei fatti rilevanti della causa e delle ragioni giuridiche della decisione, anche con riferimento ai precedenti conformi. Ancora più significativa è la norma prevista nell´art. 348 ter c.p.c., inserito dall´art. 54, comma 1, lett. a), del decreto legge n. 83 del 2012, convertito con modificazioni, nella legge n. 134 del 2012 la quale nel prevedere la declaratoria (con ordinanza) di inammissibilità dell’appello qualora questo non ha ragionevole probabilità di essere accolto, indica al giudice la possibilità di fare riferimento a precedenti conformi.
È pacifico che le norme sopra citate non sono certamente idonee a mutare il nostro sistema giuridico di civil law, che non attribuisce valore vincolante al precedente giurisprudenziale, atteso che il giudice è sottoposto solo alle legge. Tuttavia, grazie a tali norme, il precedente, quando si traduce in un orientamento giurisprudenziale consolidato della Suprema corte, non ha più solo valenza persuasiva ma assume una ben più pregnante rilevanza giuridica: perché, come si è in precedenza rilevato, se neppure la stessa Cassazione, decidendo a sezione semplice, se ne può discostare senza adeguata motivazione (e rimettendo la questione al vaglio delle Sezioni Unite), a maggior ragione un analogo vincolo di motivazione deve valere per il giudice di merito che intenda prospettare una diversa soluzione giuridica.
5.
Con specifico riferimento al processo del lavoro è stata da tempo introdotta una disciplina che, attraverso un meccanismo che consente una sorta di pronuncia anticipata, è destinata, almeno nelle intenzioni del legislatore, ad ampliare la possibilità di intervento nomofilattico della Corte di cassazione. Si tratta dell´art. 420 bis c.p.c., introdotto, unitamente all´art. 146 bis disp. att. c.p.c., dal d. lgs. n. 40 del 2006, finalizzato ad estendere il sindacato diretto della Corte di cassazione sull´interpretazione e sull´applicazione dei contratti collettivi di diritto comune. Si tratta di una innovazione che si ispira alla procedura disciplinata dall´art. 64 del d. lgs. n. 165 del 2001 e che, come quest´ultima, è finalizzata, oltre che, come detto, a valorizzare la funzione nomofilattica della Corte di cassazione, a deflazionare il carico di lavoro dei giudici di merito, a ridurre la durata delle cause e a razionalizzare la gestione delle cause seriali.
La citata disciplina prevede la possibilità per il giudice di primo grado, nell´ipotesi in cui per decidere una controversia a lui sottoposta, sia necessaria l´interpretazione di una clausola di un contratto collettivo nazionale, di andare subito alla decisione, emettendo una sentenza sulla questione pregiudiziale, impugnabile direttamente con ricorso per Cassazione. La pronuncia della Cassazione avrà efficacia vincolante nello specifico processo, per cui il giudice del merito al quale ritornerà la causa dovrà decidere conformandosi alla soluzione del problema interpretativo adottata dalla Corte di legittimità. Tale pronuncia, peraltro, è destinata a riflettersi anche sugli altri processi in cui la stessa questione venga riproposta.
Come sottolineato in dottrina la disciplina suddetta (ma lo stesso vale per quella, sopra citata, di cui all´art. 64 del d. lgs. n. 165 del 2001) ha avuto ridotta applicazione, avendone fatto i giudici di merito un uso parsimonioso, per cui deve ritenersi che la stessa non abbia risposto alle attese che il legislatore aveva riposto su di esse.
È auspicabile che miglior esito abbia l´istituto del rinvio pregiudiziale previsto dall´art. 1, comma 9, della legge n. 206 del 2021 (in tema di riforma del processo civile). Sulla base della delega ivi contenuta la norma delegata dovrà prevedere che il giudice di merito, quando deve decidere una questione di diritto, possa sottoporre d’ufficio direttamente la questione alla Corte di cassazione per la risoluzione del quesito di diritto. Per esercitare il rinvio pregiudiziale, anzitutto, il giudice deve prima avere sottoposto la questione al contraddittorio delle parti. Sono poi espressamente codificati i presupposti della questione che può essere oggetto di rinvio. Più in dettaglio la questione deve essere: a) esclusivamente di diritto; b) nuova, per non essere stata ancora esaminata dalla Corte di cassazione; c) di particolare importanza; d) caratterizzata da gravi difficoltà interpretative; e) tale da riproporsi in numerose controversie.
Qualora il rinvio sia considerato ammissibile, la Corte di cassazione si pronuncia all’esito di una pubblica udienza enunciando il principio di diritto che è ovviamente vincolante nel procedimento nell’ambito del quale è stato fatto il rinvio. La riforma estende il vincolo del precedente della Corte, qualora il processo si estingua, anche nel nuovo processo che sia stato instaurato, con la riproposizione della medesima domanda, nei confronti delle medesime parti.
6.
Il quadro complessivo che, sia pure per grandi linee, ho cercato di evidenziare nei paragrafi che precedono, dimostra a mio avviso l´opportunità o, meglio, la necessità che i giudici di merito valorizzino sempre di più la cultura del precedente di legittimità e si avvalgano diffusamente degli strumenti che il legislatore ha creato per consentire alla Corte di intervenire nella prima fase del giudizio di merito e di anticipare quindi il principio di diritto che dovrà essere applicato in quel giudizio e negli altri analoghi pendenti a livello nazionale. La Corte di cassazione, ed in particolare la Sezione lavoro, pur tra mille difficoltà dovute, in particolare, ai crescenti carichi di lavoro, ha cercato e cerca costantemente di adottare misure idonee a garantire la qualità della funzione nomofilattica ad essa affidata anche in termini di tempestività delle decisioni di maggior rilievo come precedente.
Occorre, oggi più che mai, stabilire un dialogo fecondo fra giudici di merito e corte di legittimità che sia illuminato dal principio che la giustizia è un servizio e che il buon funzionamento di essa ridonda proprio a favore dei soggetti più deboli.
E se è vero che nel nostro sistema il giudice è soggetto soltanto alla legge e che la Costituzione gli riconosce indipendenza e autonomia nella sua applicazione, garantendo così, fra l’altro, la possibilità del diritto di evolversi come diritto pretorio, è anche vero che, specialmente nel caso del giudice del lavoro, tradizionalmente votato a difendere la propria autonomia, una profonda e meditata riaffermazione dei valori della nomofilachia appare fondamentale, specie nell´attuale situazione, per un sostanziale miglioramento del servizio giustizia. Ed infatti se il principale obiettivo del processo del lavoro è costituito dalla garanzia della tutela dei soggetti più deboli, appare evidente che la corretta applicazione della nomofilachia, con i suoi positivi effetti a favore del rispetto del principio di uguaglianza e della qualità ed efficienza della risposta alla domanda di giustizia, deve essere uno specifico obiettivo del giudice del lavoro.