TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1.- Adeguatezza e differenziazione come declinazioni (soprattutto in materia di lavoro) dell’effettività della tutela giurisdizionale.
La tutela giurisdizionale, per essere effettiva, deve soprattutto essere adeguata al bisogno fatto valere in giudizio. L’adeguatezza passa anche dalla differenziazione degli strumenti volti all’attuazione dei diritti . Nel canone di effettività è insita, perciò, una opzione assiologica. D’altronde, le qualificazioni di «giusto» (art. 111 Cost.) ed «equo» (art. 6 CEDU e 47 Carta di Nizza) riferite al processo non si esauriscono nel richiamo al principio di legalità, ma richiamano, appunto, il sistema di valori sotteso alle regole. In definitiva, la fisiologica “disegualità” del diritto processuale, quale applicazione dell’art. 3, 2° comma, Cost., comporta che non possa esistere una uguale soddisfazione dei diritti che non sia modulata in ragione della diversità dei diritti stessi .
Orbene, a nessuno è mai sfuggito che l’eccessiva differenziazione delle forme di tutela comporti possibili inconvenienti. Uno di questi può derivare dalla creazione di corsie preferenziali, recanti in sé, accanto ad un miglioramento della situazione “preferita”, anche un possibile peggioramento di quelle neglette. In materia di impugnazione del licenziamento, ciò è avvenuto di recente con l’introduzione dell’art. 441 bis c.p.c. ad opera del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, emanato in attuazione della l. delega 26 novembre 2021, n. 206 (v. infra).
Tuttavia, non è questo l’aspetto peggiore dell’abuso di differenziazione. La frenetica proliferazione dei riti è un fenomeno pericoloso, perché genera confusione e incertezza interpretativa. In astratto, si potrebbe anche concepire un sistema fondato su tanti modelli di tutela quante sono le categorie di diritti contemplati dall’ordinamento, ma la correlata atomizzazione delle forme frustrerebbe, paradossalmente, proprio l’esigenza di effettività perseguita, senza contare il moltiplicarsi delle questioni tecnico-formali derivanti dalla necessità di coordinamento tra un modello e l’altro. L’esempio più eclatante di questa frenesia è la previsione di un monstrum come il c.d. rito Fornero (art. 1, 47° comma ss., l. 92/2012), ancora una volta in tema di impugnazione del licenziamento, ora per fortuna definitivamente abrogato (v. d.lgs. 149/2022) e applicabile soltanto ai processi pendenti alla data di entrata in vigore della c.d. riforma Cartabia (v. infra).
Casi come questo dovrebbero indurre a ricorrere alla previsione di nuovi percorsi procedimentali solo quando l’effettività della tutela non possa conseguirsi se non attraverso la differenziazione (ad esempio, a dir poco infelice è stata l’estensione del rito del lavoro alla materia degli incidenti stradali, ai sensi dell’art. 3 l. 102/2006, anch’essa, non a caso, abrogata dopo tre soli anni di applicazione, dalla l. 69/2009). Si tratta di un problema di selezione e bilanciamento di interessi e valori, e dunque di politica legislativa prima ancora che di stretta tecnica.
D’altra parte, neanche un sistema che, all’opposto, prevedesse soltanto un modello generale di tutela sarebbe adeguato, poiché non terrebbe in alcun conto le inevitabili peculiarità di talune fattispecie. Invece, un sistema nel quale la diversità fosse giustificata dalla essenzialità dello strumento per la soddisfazione delle situazioni sostanziali dedotte, sarebbe senz’altro da prediligere. Infatti, al pieno e genuino rispetto del principio di uguaglianza sostanziale si accompagnerebbe un notevole ridimensionamento degli inconvenienti insiti negli altri due sistemi appena delineati .
Ora, indipendentemente dall’attualità di questo dibattito, sta di fatto che la natura e la rilevanza della situazione soggettiva sostanziale tutelanda e del contenzioso ad essa relativo hanno favorito fortemente l’introduzione di un rito ad hoc in materia di lavoro all’inizio degli anni Settanta dello scorso secolo, conferendogli, per questa ragione, una dimensione assiologica piuttosto netta.
In particolare, la l. 533/1973 ha voluto rappresentare una risposta sia alla generale situazione di crisi, caratterizzata dalla spropositata durata dei processi e dalle carenze di tipo organizzativo e strutturale , sia principalmente all’esigenza di introdurre uno strumento tecnico adeguato a fronte dei rilevantissimi mutamenti avvenuti, in un contesto di rivendicazioni e lotte sindacali, sul piano della legislazione sostanziale (dalla l. 15 luglio 1966, n. 604, sulla illegittimità del licenziamento in assenza di giusta causa o giustificato motivo, alla l. 20 maggio 1970, n. 300, c.d. Statuto dei lavoratori), che avevano contribuito ad affievolire i principali aspetti di sperequazione tra datore di lavoro e prestatore di lavoro. Il nuovo “strumento” del processo del lavoro, insomma, fu calibrato su una specifica categoria di controversie e in vista di un maggior favor verso la parte debole del rapporto contrattuale (e, dunque, dimostrò di essere assiologicamente orientato). Per diffusa convinzione, esso avrebbe potuto coniugare in maniera efficace la rapidità (il presto) e la giustizia sostanziale (il bene) .
Nel corso del tempo, il rito, di per sé snello, ideale per la soluzione di controversie semplici e seriali, è stato esportato anche in altri contesti e persino elevato a modello processuale, sia pure al netto delle rationes iniziali (v. infra), ma il suo impianto originario non è stato mutato.
2.- Le principali novità, gli obiettivi e le aspettative della riforma del 1973.
La l. 533/1973, come anticipato, aveva l’ambizioso obiettivo di far fronte a una generale situazione di crisi, in termini di durata dei processi e di carenze di tipo organizzativo e strutturale degli uffici giudiziari, che appariva ancora più grave con riferimento alle controversie di lavoro, urgentemente bisognose di uno strumento tecnico adeguato alle novità introdotte dalla legislazione sostanziale.
La tutela dei nuovi diritti, peraltro, aveva già cominciato a godere di una notevole spinta propulsiva grazie alla coraggiosa e disinvolta applicazione del¬l’art. 700 c.p.c. da parte dei pretori (c.d. “d’assalto”) del lavoro, favorita certamente dal fervore ideologico e socio-politico di quel periodo . Così, il giudice dovette scendere dalla torre ed esporsi al rischio di partigianeria .
Era ormai tempo di introdurre un nuovo strumento processuale diretto a confermare e rafforzare talune scelte già compiute in precedenza, specificamente calibrato sulle controversie di lavoro (e su quelle di assistenza e previdenza obbligatorie).
Partendo dai principali punti deboli della disciplina anteriore, furono indicate le seguenti soluzioni: monocraticità del giudice ; rigidità del sistema di preclusioni legate alla fase introduttiva; valorizzazione della prima udienza; ampliamento dei poteri istruttori del giudice; possibilità per il giudice di disporre, in ogni stato del giudizio, con ordinanza immediatamente esecutiva, il pagamento delle somme non contestate o relativamente alle quali ritiene già raggiunta la prova; lettura del dispositivo in udienza; condanna del datore di lavoro al maggior danno subito dal lavoratore, per la diminuzione di valore del suo credito, in caso di condanna al pagamento di somme di denaro per crediti di lavoro, con decorrenza dal giorno della maturazione del diritto; provvisoria esecutorietà ex lege delle sentenze che pronunciano condanna a favore del lavoratore per crediti di lavoro, anche sulla base del solo dispositivo; sospensione dell’esecuzione della sentenza di primo grado favorevole al lavoratore soltanto quando dalla stessa possa derivare all’altra parte gravissimo danno; divieto di ius novorum in appello.
Alle novità di carattere tecnico si accompagnarono misure di tipo organizzativo (v. l’istituzione della sezione lavoro della Corte di cassazione) e le fondamentali previsioni della gratuità del giudizio e del patrocinio a spese dello Stato. Il lavoro di giudici e avvocati dovette così essere ripensato .
La progettazione dell’ambiziosa riforma – superate alcune iniziali resistenze, come quella di una parte della magistratura (Associazione nazionale magistrati), alla entrata in vigore della l. 533/1973 – fu soprattutto opera, come si disse, di sindacalisti, avvocati, magistrati dell’ufficio legislativo del Ministero della giustizia e non dei processualisti (salva l’autorevolissima eccezione di Virgilio Andrioli nell’intervento all’incontro di studi di Bologna del 1971) , i quali erano pur consapevoli di trovarsi di fronte ad una svolta epocale . Sebbene, va certamente rimarcato, un ruolo significativo, spesso ignorato, nella formazione della volontà politica (non è dato sapere se anche nella individuazione delle soluzioni tecniche) fu svolto, con l’appoggio di Mauro Cappelletti , da Gino Giugni in qualità di consulente giuridico del Ministero del lavoro, già “padre” della precedente grande riforma sostanziale, lo Statuto dei lavoratori .
La discussione della causa in udienza alla presenza personale delle parti, la coincidenza piena tra giudice della fase istruttoria e giudice della decisione, la rigida scansione delle fasi processuali avrebbe dovuto e potuto dare concreta realizzazione ai canoni chiovendiani della oralità, della immediatezza e della concentrazione e contribuire alla caratterizzazione della specialità del rito .
Il generale ottimismo e l’enorme fiducia nella capacità del giudice di fare uso sapiente dei rinnovati e rinforzati poteri attribuitigli dalla riforma, soprattutto in tema di acquisizione d’ufficio dei mezzi di prova, convinsero che finalmente fosse possibile il raggiungimento della giustizia sostanziale in tempi rapidi (o quanto meno ragionevoli).
3.- Il sistema delle preclusioni nel neo-introdotto rito del lavoro.
Si suole dire che il rito del lavoro sia improntato al c.d. principio di eventualità. In realtà, esso è ben lontano dall’applicazione di quel principio e dalle sue formalistiche implicazioni (soprattutto quella di pervenire alla decisione sulla base di una regola di giudizio soltanto formale, a scapito della bontà della stessa). Anzi, la sua dimensione di processo a tappe ordinate e serrate conosce opportuni temperamenti e meccanismi di adeguamento alle esigenze determinate dallo svolgimento del processo stesso.
Sta di fatto che l’estensione all’attore del sistema di preclusioni stabilito per il convenuto è avvenuto per effetto dell’interpretazione data agli art. 414, 416, 418 e 420, 1° e 5° comma, c.p.c. dalla Corte costituzionale, in ossequio ad esigenze di parità costituzionalmente imposte e di tutela del diritto di difesa . La Corte ha infatti ritenuto necessario leggere tali disposizioni nel senso di instaurare una perfetta simmetria tra le parti.
Sennonché, la parificazione dell’attore al convenuto è apparsa «gravemente irrazionale e penalizzante proprio per il lavoratore-attore», costretto a «parlare per primo» e privo del potere di «sfruttare appieno le eventuali ammissioni, esplicite o implicite, del convenuto, poiché il momento in cui quest’ultimo dovrebbe “prendere posizione” circa i fatti affermati nel ricorso è posteriore a quello in cui l’attore stesso deve, a pena di decadenza, formulare le proprie istanze istruttorie» . L’esigenza di assicurare simmetria, insomma, si è rivelata controproducente proprio per la parte debole del rapporto contrattuale, al cui favor era stata improntata la nuova disciplina processuale. Ancora oggi, questo sembra essere il vero punto debole del rito speciale.
Sta di fatto che il sistema di rigide preclusioni non è mutato nel tempo. Anzi, dopo un lungo periodo caratterizzato da un atteggiamento piuttosto elastico della giurisprudenza di legittimità in relazione ai nuovi mezzi di prova e alle nuove eccezioni in appello, nonché alle mere difese, si è assistito ad una netta inversione di tendenza, improntata a un rigido formalismo nell’applicazione del principio della ragionevole durata del processo di cui all’art. 111 Cost., a scapito della pur rimarcata esigenza di ricerca della verità materiale .
La Suprema Corte, infatti, ha affermato l’esistenza di una «necessaria circolarità» tra i vari oneri posti a carico delle parti nel processo del lavoro (onere di allegazione, onere di contestazione e onere di prova), dalla quale ha ritenuto di far discendere l’impossibilità di contestare o richiedere prove – oltre i termini preclusivi stabiliti dal codice di rito – su fatti non allegati nonché su circostanze che, pur configurandosi come presupposti o elementi condizionanti il diritto azionato, non siano stati esplicitati in modo espresso e specifico nel ricorso introduttivo del giudizio .
Allo stesso tempo, in altri interventi, ha avvertito la preoccupazione di mitigare la portata di tali arresti. Pertanto, alle affermazioni appena viste, si è accompagnata quella secondo cui «è caratteristica precipua del rito del lavoro il contemperamento del principio dispositivo con le esigenze della ricerca della verità materiale di guisa che, allorquando le risultanze di causa offrano significativi dati di indagine, il giudice, ove reputi insufficienti le prove già acquisite, non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull’onere della prova, ma ha il potere-dovere di provvedere d’ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale ed idonei a superare l’incertezza dei fatti costitutivi dei diritti in contestazione, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o decadenze in danno delle parti» .
A quest’ultimo proposito, occorre subito precisare che il riconoscimento di ampi poteri istruttori d’ufficio al giudice, giustificato, tra l’altro, dal diverso ruolo che nelle controversie di lavoro può giocare il “fatto” , non corrisponde necessariamente ad un’opzione di stampo autoritaristico. Tale sarebbe un sistema nel quale l’ampiezza dei poteri di iniziativa probatoria del giudice ne comportasse l’esercizio in spregio del principio che attribuisce alle parti il monopolio circa l’allegazione dei fatti ovvero consentisse al giudice di ampliare la sfera dei fatti stessi facendo uso del proprio sapere privato ovvero ancora alterasse la distribuzione del¬l’onere della prova tra le parti. Al contrario, in presenza di un sistema forte di preclusioni a carico delle parti, esso può rappresentare un’opportuna forma di temperamento . E poiché, come per la maggior parte delle cose, tutto dipende dall’uso che se ne fa, il vero problema sta nell’individuazione di limiti e rimedi, nella predisposizione di efficaci meccanismi di controllo dell’esercizio o del mancato esercizio dei poteri connessi a quell’intervento, senza indulgere in slogan quali più poteri al giudice ovvero meno poteri al giudice. Semmai, si deve essere disposti ad accordare un’enorme fiducia al giudice affinché, nella ricerca della “verità materiale”, faccia un uso sobrio e imparziale di tali poteri. Del resto, il “governo” del processo non è direzione autoritaria delle regole del gioco da parte del giudice e neanche meccanica applicazione delle formule di stile invocate dalle parti .
In conclusione, il rito del lavoro si è spesso trovato prigioniero di letture contrastanti e ondivaghe. Ciononostante, esso ha tenuto mirabilmente nel tempo, forte della sua struttura fondamentalmente razionale e ragionevolmente equilibrata.
4.- La vis expansiva, la prevalenza del rito del lavoro e la differenziazione esasperata.
A riprova di quest’ultimo rilievo vi è che le norme contenute nel titolo IV del libro II del codice di procedura civile e, in particolare, quelle di cui agli art. 413 ss., introdotte dalla l. n. 533 del 1973 hanno dimostrato, come accennato, una forza espansiva molto spiccata, tale da determinarne l’utilizzazione anche in altri e differenti contesti. Ciò è dipeso principalmente sia dalla elevata concentrazione del rito sia dalla su vista marcata ampiezza dei poteri istruttori d’ufficio del giudice, la quale, a sua volta, dovrebbe favorire il raggiungimento della c.d. verità materiale, ossia l’accertamento pieno dei fatti.
Il fenomeno si è manifestato in una duplice direzione: da un lato, in relazione a specifiche materie, attraverso il rinvio alle disposizioni che lo regolano ; dall’altro, attraverso la prevalenza rispetto a qualsiasi altro rito concorrente .
Peraltro, il forte appeal esercitato dal rito speciale si è tradotto negli anni Novanta dello scorso secolo nell’avvicinamento ad esso del rito ordinario, che ne ha mutuato alcune delle principali caratteristiche, quali la (tendenziale) monocraticità del giudice di primo grado, la centralità della prima udienza, il principio di preclusione, la lettura del dispositivo e della motivazione in udienza a seguito di discussione orale, la provvisoria esecutività ex lege della sentenza di primo grado, il divieto di ius novorum in appello, la previsione di provvedimenti anticipatori di condanna (v. la l. 353/1990 e il d.lgs. 51/1998).
A questa forza espansiva si è contrapposta per un certo periodo la tendenza a porre in discussione talune soluzioni tecniche distintive del rito speciale. Tale tendenza, inizialmente promossa da progetti di ampio respiro , si è poi tradotta in interventi normativi limitati a specifiche disposizioni o istituti che, tuttavia, non hanno mutato l’impianto complessivo del rito stesso .
E infatti, circa dodici anni fa, esso è stato elevato a vero e proprio modello processuale , nel quale sono confluiti i procedimenti con «prevalenti caratteri di concentrazione processuale, ovvero di officiosità dell’istruzione», con la finalità di semplificare e ridurre i numerosi riti esistenti (d.lgs. 150/2011). In sostanza, gli schemi e le forme di cui agli art. 413 ss. c.p.c., privi delle peculiarità che ne avevano determinato l’introduzione, sono divenuti una sequenza adattabile a contesti disparati, accomunati da esigenze di concentrazione e officiosità della istruzione. Sicché, è sembrato più appropriato distinguere tra “rito del lavoro” e “rito delle controversie di lavoro”, intendendo con quest’ultima formula soltanto il procedimento da esperire per le controversie di cui all’art. 409 c.p.c.
Il processo del lavoro ha conosciuto anche tempi bui con l’introduzione del c.d. rito Fornero (art. 1, 47° comma ss., l. 92/2012) da esperire per le «controversie aventi ad oggetto l’impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro». Un vero e proprio “mostro” procedimentale, caratterizzato da una fase sommaria obbligatoria, una fase a cognizione piena di primo grado eventuale in forma di opposizione al provvedimento conclusivo della prima, un giudizio di secondo grado denominato ambiguamente “reclamo”, ma destinato a concludersi con sentenza impugnabile con ricorso per cassazione.
Le complicazioni strutturali e le defatiganti questioni interpretative da esso sollevate avevano suggerito già da tempo l’opportunità del suo abbandono .
L’art. 11 d.lgs. 23/2015, stabilendo che «Ai licenziamenti di cui al presente decreto non si applicano le disposizioni dei commi da 48 a 68 dell'articolo 1 della legge 28 giugno 2012, n. 92», aveva portato alla sussistenza di molteplici “binari” procedimentali . Successivamente, il d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, emanato in attuazione della delega contenuta nella l. 26 novembre 2021, n. 206 ha provveduto alla definitiva ed espressa abrogazione dell’art. 1, commi dal 47° al 69°, l. 92 cit. e, allo stesso tempo, ha introdotto con riferimento alle cause di licenziamento gli art. 441 bis, 441 ter e 441 quater c.p.c., nonché l’art. 144 quinquies disp. att. c.p.c., applicabili (v. l’art. 35, 1° comma, d.lgs. cit., come modificato dall’art. 1, 380° comma, l. 197/2022) alle impugnative instaurate dopo il 28 febbraio 2023.
Cosicché, i “binari” sono diventati due: a) procedimenti pendenti alla data del 28 febbraio 2023, assoggettati alle disposizioni anteriormente vigenti; b) procedimenti iniziati dopo, regolati dal rito del lavoro, con il tradizionale regime improntato a rigide preclusioni e con l’attribuzione di una “corsia preferenziale” in caso di richiesta congiunta della condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro .
Lungi dal poter approfondire in questa sede le disfunzioni del rito Fornero ed esaminare gli orientamenti giurisprudenziali formatisi con non lieve fatica interpretativa sul testo normativo, vale la pena sottolineare che di questo eccesso di differenziazione non vi era alcun bisogno, poiché le esigenze di accelerazione ed effettività, particolarmente avvertite per le controversie relative all’impugnazione del licenziamento, avrebbero potuto trovare soddisfazione con semplici misure di carattere organizzativo.
Sotto questo profilo, le soluzioni offerte dalla riforma del 2022 – con l’assegnazione di un “carattere prioritario” a questo tipo di cause tutte le volte in cui l’attore domandi anche la tutela reale – sebbene non del tutto scevre da critiche, sono astrattamente più ragionevoli, se non altro perché evitano di ripetere la precedente scelta di prevedere un procedimento ad hoc.
Si potrebbe osservare che la corsia preferenziale, “favorita” e “verificata” dal presidente di sezione e dal dirigente dell’ufficio giudiziario (art. 144 quinquies disp. att. c.p.c.), è destinato a scontare l’inconveniente, su segnalato, che la trattazione e la decisione delle altre controversie, anche di quelle aventi ad oggetto situazioni sostanziali meritevoli di un trattamento non deteriore (ad esempio, cause di mobbing, là dove il comportamento datoriale non si sia tradotto anche nel licenziamento del lavoratore), avvenga con maggior ritardo.
Tuttavia, si potrebbe temperare questo innegabile rischio, auspicando una sapiente applicazione dell’art. 37, comma 5 quater, d.l. 98/2011, conv. con modif. in l. 15 luglio 2011, n. 111, poi modificato dall’art. 14 l. 17 giugno 2022, n. 71, in vigore dal 21 giugno 2022, secondo cui il presidente di sezione è chiamato a segnalare immediatamente al capo dell'ufficio giudiziario: «a) la presenza di gravi e reiterati ritardi da parte di uno o più magistrati della sezione, indicandone le cause «interessato, il quale deve parimenti indicarne le cause; b) il verificarsi di un rilevante aumento delle pendenze della sezione, indicandone le cause e trasmettendo la segnalazione a tutti i magistrati della sezione, i quali possono parimenti indicarne le cause» .
5.- Per un processo del lavoro preferibilmente orale e immediato, ragionevolmente concentrato.
Dopo cinquant’anni di applicazione il processo del lavoro sembra più vivo che mai. La trasformazione del contesto socio-economico, il mutamento dell’approccio al lavoro e ai “lavori” e l’attua¬zione di riforme, che, volta a volta, hanno spostato il baricentro degli interessi e delle forze in campo, determinando l’arretramento del valore (sia pure tendenziale) della stabilità del rapporto di lavoro a tempo indeterminato e il confinamento della reintegrazione nel posto di lavoro a ipotesi residuali, non hanno scalfito l’opportunità di conservare un rito speciale per una materia speciale, ferma restando l’applicazione delle norme e dei principi generali. E certamente, non hanno fatto venir meno la necessità di assegnare la cognizione delle relative controversie a giudici specializzati, vale a dire preparati specificamente in funzione della risoluzione di una peculiare tipologia di conflitti .
Altre questioni si pongono oggi all’attenzione dell’interprete, meno drammatiche, certamente aliene dalla conflittualità politico-ideologica che ha caratterizzato la gestazione della l. 533/1973. Questioni la cui soluzione può avere il risultato di rileggere, in una chiave in origine impensabile, la dimensione dell’oralità e della immediatezza. E perciò tali da non mettere in discussione l’impianto complessivo del rito e nemmeno l’opzione assiologica che ne ha caratterizzato la previsione.
In particolare, il dibattito si è da ultimo incentrato sulla compatibilità con le controversie di lavoro delle modalità di svolgimento delle udienze alternative a quella in presenza, ora disciplinate dalle disposizioni generali di cui agli artt. 127, 127 bis e 127 ter c.p.c. (introdotte dal d.lgs. 149/2022) , che hanno stabilizzato soluzioni già adottate nel periodo dell’emergenza pandemica da Covid-19 . Dal 1° gennaio 2023, infatti, le udienze possono svolgersi anche mediante collegamento audiovisivo oppure ancora possono essere sostituite dal deposito di note scritte. La legge lascia al giudice ampia discrezionalità nella scelta, di per sé non sindacabile in quanto rientrante nei poteri di direzione del procedimento di cui all’art. 175 c.p.c. e dell’udienza ex art. 127 c.p.c.
Invero, il problema della compatibilità, che va senz’altro misurata sul piano tecnico e applicativo , impone anche di verificare, una volta cessata l’emergenza, se la rinuncia all’attuazione di tali canoni possa effettivamente costituire un attentato al cuore del processo del lavoro.
Quanto all’oralità, messa in crisi dalla modalità c.d. “cartolare” di svolgimento dell’udienza, giova ricordare che uno dei suoi maggiori sostenitori aveva già avvertito che se esso «in talune applicazioni dovesse produrre danni maggiori dei vantaggi», «deve esser sacrificato all’utilità pratica» .
In effetti, il sacrificio cui si va incontro in tali casi appare molto più accettabile in concreto di quanto non sia in astratto. Se si guarda con occhio disincantato, si può persino sottolineare il vantaggio derivante da una “trattazione scritta” sostitutiva dell’udienza, consistente nel risparmio di tempo ed energie per parti, giudici, avvocati, non costretti in ogni caso alla presenza fisica.
A ben vedere, però, si potrebbe obiettare, con sguardo forse più tradizionalista, che l’oralità presenta il vantaggio di una più ampia probabilità che il giudice riesca a cogliere il cuore pulsante della vicenda sostanziale ed eserciti, perciò, al meglio i propri poteri di direzione del processo e la selezione dei temi della decisione. Aspetti, questi, che la modalità di svolgimento dell’udienza da remoto assicura in gran parte.
Quanto al canone della immediatezza, il discorso è per certi versi analogo. La presenza fisica delle parti, da un lato, favorisce la percezione diretta dei fatti di causa; dall’altro, in molti casi essi rappresenta un vero e proprio lusso, per ammettere il quale si deve essere disposti a sacrificare l’esigenza di celerità.
Probabilmente, l’approccio più ragionevole è quello di tener conto delle specifiche attività volta a volta da svolgere. Senza assumere posizioni preconcette o troppo nostalgiche, occorre selezionare accuratamente le ipotesi in cui è necessario o anche solo molto opportuno confermare l’udienza in presenza (soprattutto, ove è richiesta la discussione e l’assunzione di mezzi di prova). Se non vi vuole rischiare di ingessare il processo in schemi predefiniti, si deve cercare di assicurare ad esso quel minimo di flessibilità che al contempo sia in grado di soddisfare l’esigenza di proporzionalità e adeguatezza degli strumenti rispetto ai fini. Per questo motivo, è ragionevole lasciare che il giudice, nell’esercizio del suo potere di direzione, opti per una modalità alternativa, ma è ancora più ragionevole, se non necessario nella prospettiva di un processo ancora imperniato sul principio dispositivo, consentire alle parti di interloquire sull’opzione espressa dal giudice.
L’auspicio è che comunque non si perda mai di vista che, nella materia del lavoro, la disuguaglianza economica delle parti e, ancor di più, la presenza di situazioni sostanziali spesso a contenuto e funzione non patrimoniale di rango costituzionale, dovrebbero imporre all’in-terprete una più spiccata sensibilità sì che, invece di indulgere in inutili e ridondanti esercizi di stile o in disquisizioni di principio, sappia leggere il travaglio insito nella lite e indagare i termini effettivi della vicenda sostanziale.
Quanto, infine, alla concentrazione, si dovrebbe ancora oggi distinguere tra quella “buona” e quella “cattiva”. La prima (ad esempio, divieto di udienze di mero rinvio, previsione di giorni ravvicinati di udienza per la trattazione di determinate tipologie di controversie) guarda quasi principalmente all’interesse delle parti. La seconda (soprattutto, barriere preclusive anche per l’attore sin dall’atto introduttivo), qualche volta delle parti si dimentica, senza conseguire, peraltro, un’effettiva utilità in termini di efficienza del processo.