TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1. Il ruolo centrale delle parti nel processo del lavoro.
Le parti del processo non sono soltanto utenti del servizio pubblico di risoluzione del conflitto di cui sono protagoniste, “sedute in platea” a seguirne lo sviluppo in attesa del finale. Sono anche, e prima di tutto, le protagoniste della vicenda reale da cui trae origine quella giudiziaria. Questo doppio ruolo ne fa figure centrali del processo, in quanto dirette conoscitrici della realtà a cui si riferisce la decisione e uniche titolari del potere di definirlo in modo alternativo, attraverso la conciliazione.
Ciò rende evidente l’importanza di una loro partecipazione effettiva e concreta al processo, che vada oltre il momento preliminare in cui, dato mandato ad un avvocato per perseguire un certo obiettivo sostanziale, gli offrono il racconto della vicenda reale da cui il difensore attinge gli elementi di fatto con cui costruire la causa petendi e gli spunti istruttori.
Il processo del lavoro, deputato a risolvere conflitti particolarmente delicati a livello individuale e sociale, riconosce con grande lucidità questa centralità delle parti.
A differenza di quanto accade nel processo civile ordinario, in cui la comparizione personale delle parti è prevista dall’art. 185 c.p.c. come soltanto eventuale, l’art. 420 comma 1 c.p.c. esordisce affermando che “Nell’udienza fissata per la discussione della causa il giudice interroga liberamente le parti, tenta la conciliazione della lite e formula alle parti una proposta transattiva o conciliativa” e, dunque, prevede l’interrogatorio ed il tentativo di conciliazione come il primo fondamentale passaggio di ogni vicenda processuale che si svolge davanti al giudice del lavoro.
Nella concezione originaria del processo del lavoro come unica udienza in cui, dopo aver interrogato le parti e tentato la conciliazione, il giudice si pronuncia subito sulle istanze probatorie, sente i testi e decide, le parti hanno l’opportunità di svolgere il loro ruolo fino in fondo, anche dopo la conclusione dei due passaggi di cui sono dirette protagoniste.
L’avvocato può infatti rivolgersi in ogni momento al suo cliente, seduto accanto a lui, per sciogliere qualunque dubbio sulla vicenda reale che possa insorgere nel confronto con la controparte ed anche, eventualmente, per prendere piccole e grandi decisioni processuali e il giudice ha la possibilità di integrare l’interrogatorio iniziale ogni volta in cui sorga l’esigenza di avere un chiarimento e di riprendere al momento debito il discorso conciliativo, inizialmente naufragato o eventualmente accantonato per la consapevolezza che i tempi non fossero ancora maturi.
2. L’importanza dell’interrogatorio libero.
Interrogando liberamente le parti, il giudice ha l’opportunità di sentirsi raccontare i fatti direttamente dai loro protagonisti, andando oltre l’inevitabile filtro applicato dagli avvocati nel delineare la causa petendi.
In tal modo è possibile ottenere i chiarimenti che siano resi necessari, o anche soltanto utili, dall’esame congiunto delle contrapposte difese, dalla scarsa dimestichezza del giudice con il contesto lavorativo in cui la vicenda è maturata, da una sintesi eccessiva con cui il difensore l’abbia eventualmente raccontata.
L’interrogatorio libero è anche un’ottima occasione per consentire alla parte ricorrente di prendere posizione sui fatti allegati dal convenuto nella sua memoria costitutiva, il che permette al giudice di individuare agevolmente, al momento della decisione istruttoria, a quali di essi applicare il principio di non contestazione di cui all’art. 115 c.p.c.
Affacciandosi sulla vicenda reale attraverso le parole dei suoi protagonisti, infine, il giudice è messo in grado di recuperare direttamente fatti importanti che siano rimasti fuori dalla “vicenda processuale” ricostruita dai difensori, o perché la stessa parte li ha taciuti al suo avvocato o perché quest’ultimo ha deciso di non inserirveli.
Ovviamente ciò può avvenire solo nel rispetto dei limiti entro cui, grazie allo sviluppo della giurisprudenza, il giudice civile può oggi conoscere – ed il giudice del lavoro anche accertare, attraverso i poteri istruttori d’ufficio di cui all’art. 421 c.p.c. – i fatti principali fondanti eccezioni cd. in senso lato e i fatti secondari, anche quando non siano stati menzionati negli atti introduttivi, ma emergano in qualche modo ex actis.
Non vanno sottovalutati, infine, i risvolti psicologici del dialogo diretto con le parti.
Ascoltandole parlare, il giudice ha l’occasione di acquisire elementi utili ad esperire un proficuo tentativo di conciliazione, percependone il coinvolgimento emotivo e gettando uno sguardo sulla loro personalità. Interessarsi alla loro vicenda e consentire loro di raccontarla, ovviamente solo se e nei limiti in cui ciò serva alla decisione, favorisce anche lo sviluppo di un’atmosfera di fiducia nel processo che aiuta le parti a coglierne lo spirito, a collaborare al meglio con il proprio difensore, a compiere scelte difensive più consapevoli e convinte.
L’utilità dell’interrogatorio è massima ove sia possibile procedere alla sua fonoregistrazione ai sensi dell’art. 422 c.p.c.
Le parole delle parti, infatti, vengono conservate integralmente nella loro esatta sequenza assieme ad ogni intervento – del giudice, dei difensori, della controparte – che ne provoca la pronuncia o comunque interferisce con essa, con evidente beneficio per la loro interpretazione; il giudice e i difensori possono concentrarsi sui contenuti, senza essere distratti dalle necessità della verbalizzazione; l’interrogatorio si sviluppa in modo più fluido, rilassato e rapido, senza le continue interruzioni e le possibili tensioni legate alle esigenze di verbalizzazione; la maggiore genuinità del risultato ed il considerevole risparmio di tempo e di fatica, a loro volta, favoriscono il ricorso ad esso .
3. Il valore del tentativo di conciliazione.
La conciliazione realizza l’obiettivo del processo, la soluzione del conflitto tra le parti, quanto la decisione del giudice e dalla conciliazione e, sotto vari punti di vista, il risultato è anche migliore.
Concludendo più rapidamente il processo, innanzi tutto, si riducono i costi che, inevitabilmente, ne derivano in capo alle parti. Non si tratta soltanto del costo economico dovuto alla necessità di una difesa professionale.
C’è anche – e non va mai sottovalutato, tanto più nella materia del lavoro – il prezzo emotivo di rivivere il conflitto già affrontato nella realtà in un contesto dominato da soggetti estranei e da regole che, per offrire certezza e speditezza, non sempre garantiscono la coincidenza tra verità processuale e reale e con la consapevolezza che, alla fine, la decisione potrebbe essere sfavorevole.
Derivando da un accordo degli stessi protagonisti del conflitto e consistendo, comunque, in una soluzione di compromesso con cui entrambe le parti rinunciano alla speranza di un esito più vantaggioso, ma si liberano anche dal rischio di ottenerne uno meno favorevole, peraltro, la pace giuridica così realizzata risulta più idonea a realizzare una effettiva soluzione del conflitto reale di quella provocata da una decisione passata in giudicato. Ne sono chiaro segno il sollievo e la gratitudine che spesso vengono manifestati da entrambe le parti, mentre sottoscrivono il verbale di conciliazione.
Alla luce di tutti i vantaggi che ne derivano alle parti, non si può d’altronde dubitare che il fondamentale supporto offerto in ambito conciliativo dal difensore al suo cliente realizzi appieno il mandato professionale e possa anche essere fonte di soddisfazione.
L’utilità della conciliazione è ovvia anche per l’Amministrazione della giustizia: essa libera energie da dedicare subito ad altre controversie e alleggerisce il lavoro dei gradi di giudizio successivi, concorrendo così sensibilmente all’obiettivo – comune a tutta la giustizia civile, ma particolarmente sentito in materia di lavoro e previdenza – di contenimento dei tempi di definizione del contenzioso.
Indubbiamente il massimo risparmio di costi per parti e Stato deriva dalle conciliazioni stragiudiziali, che infatti sono viste con favore dal legislatore del lavoro .
La conciliazione giudiziale, tuttavia, presenta due punti di forza che, soprattutto nelle cause più complesse, ne fanno un’alternativa speciale.
Quando si tenta la conciliazione davanti al giudice, innanzi tutto, le parti hanno già “schierato i loro eserciti” e, dunque, ognuna di esse conosce gli argomenti e le prove della controparte e, confrontandoli con i propri, può compiere una esaustiva analisi delle maggiori o minori prospettive di vittoria.
Il giudice, in secondo luogo, è un mediatore diverso dagli altri: non soltanto conosce già le difese definitive delle parti e può aiutarle efficacemente ad analizzare i rischi di causa, ma è anche colui o colei che, in assenza di conciliazione, deciderà la causa e ciò induce le parti a prestare particolare attenzione alle sue parole.
4. I fattori di successo della conciliazione giudiziale .
Per realizzare al meglio l’obiettivo di aiutare le parti a trovare un accordo, è raramente sufficiente fare appello alla buona volontà e caldeggiare una salomonica “via di mezzo”. Solitamente è necessario “prenderle per mano” e accompagnarle con calma e competenza lungo il percorso più o meno lungo e difficile che conduce vero la meta.
I fronti su cui lavorare sono essenzialmente due: motivare le parti alla conciliazione e aiutarle a ridurre progressivamente la distanza tra le loro posizioni conciliative, fino ad annullarla.
Quanto più le parti mancano di volontà conciliativa – a causa della convinzione di avere ragione e che non esista altra via di uscita che vincere o perdere per effetto di una decisione del giudice, del coinvolgimento emotivo e/o del difetto di conoscenze giuridiche ed esperienza – tanto più è necessario, innanzi tutto, convincerle a mettersi in gioco, spiegando quanto la conciliazione sia utile per i loro stessi interessi e che essa deve necessariamente consistere in reciproche concessioni. Se le parti sono già pronte ad un discorso conciliativo, ovviamente, è possibile entrare subito nel vivo del secondo aspetto, salvo recuperare il momento motivazionale ove esse, esaurito lo slancio iniziale, si ritrovino in un punto morto e risulti necessario ravvivare la loro volontà conciliativa.
Il secondo fronte è più complesso.
Le ragioni per cui le parti possono compiere spontanee concessioni reciproche sono molte e si combinano variamente tra loro: consapevolezza o, comunque, timore di avere più o meno torto; necessità o, anche soltanto, desiderio di non continuare ad impegnare le proprie energie nel processo; interesse a non accendere i riflettori su alcune vicende o realtà aziendali; debolezza economica o psicologica; generosità; riconoscenza; amicizia.
Chi partecipa professionalmente al tentativo di conciliazione può rimanere a guardare l’operare di tali fattori, limitandosi ad incitare a turno le parti a compiere un passo dopo l’altro verso il punto di incontro a cui le conducono le varie spinte sopra evocate.
Esiste tuttavia una via alternativa più attiva e coerente con la professionalità di giudici e avvocati e che, ove seguita con disponibilità mentale e competenza, aumenta seriamente le possibilità che le parti raggiungano un accordo e che esso sia anche equilibrato e adeguatamente ponderato: la ricerca di una soluzione conciliativa razionalmente agganciata alle concrete prospettive della controversia, grazie alla commisurazione delle concessioni reciproche anche, e prima di tutto, ai rischi che le parti corrono.
Si tratta di un percorso articolato utile sia ai singoli difensori, quando cercano di definire assieme al loro cliente una proposta conciliativa che sia interessante anche per la controparte a cui è rivolta, sia al giudice quando arriva il momento di formulare un suggerimento conciliativo.
La prima operazione è quella stessa che il giudice deve compiere per giungere alla decisione: individuare e ordinare tra loro le questioni da cui dipende la decisione di ciascuna domanda ed i relativi profili di fatto e di diritto . Si deve quindi procedere alla stima delle chance esistenti per ciascuna questione di fatto e di diritto – rispettivamente, in base all’onere della prova e alle prove concretamente offerte da entrambe e allo stato della normativa e della giurisprudenza – di essere risolta a favore dell’una o dell’altra parte. I passaggi seguenti consistono nella fusione delle valutazioni relative alle singole questioni da cui dipende la decisione della domanda, che consente di individuare quante sono le possibilità che essa venga accolta, e nella successiva traduzione del rischio così stimato in una frazione o percentuale. La sua applicazione al valore della domanda porta ad una somma che, pur con l’inevitabile approssimazione insita nel suo stesso concetto, rispecchia l’entità del rischio che le parti corrono al riguardo.
Questa modalità di gestione del tentativo di conciliazione richiede sicuramente un notevole impegno per difensori e giudice.
È necessario, infatti, far comprendere alle parti l’importanza di agganciare la soluzione conciliativa alle loro prospettive di vittoria e spiegare loro come procedere e, poi, assisterle nel percorso di analisi delle questioni e individuazione del rischio e nella sua traduzione in un importo conciliativo. Tutto ciò, ovviamente, deve avvenire senza dimenticare mai il proprio ruolo di avvocato e giudice che, ove la conciliazione fallisca, rispettivamente, deve difendere gli interessi del suo cliente e decidere in modo imparziale.
Nel processo del lavoro un tale impegno è certamente favorito dal fatto che, come già sottolineato, sin dalla prima udienza è possibile effettuare un’analisi del rischio completa.
Per assolvere al suo compito di aiutare le parti a raggiungere un accordo conciliativo, il giudice del lavoro dispone di un ulteriore importante strumento che ovviamente anche il giudice civile può utilizzare, ma che il legislatore non ha ancora ritenuto di attribuirgli ufficialmente.
Recependo una prassi invero già diffusa, la legge n. 183/2010 ha infatti inserito nell’ambito dell’art. 420 c.p.c. l’inciso “e formula alle parti una proposta transattiva”, a cui poi il d.l. n. 69/2013 ha aggiunto le parole “o conciliativa”.
L’utilità di un suggerimento conciliativo del giudice è evidente: quando le parti si bloccano su posizioni distanti, incapaci di compiere spontaneamente ulteriori concessioni, l’unica concreta possibilità che raggiungano un accordo è data dall’intervento di un terzo esterno al conflitto che, sì, chiede uno sforzo aggiuntivo ad entrambe, ma così facendo le libera dall’impasse psicologica in cui si ritrovano.
La sua efficacia dipende molto da tempi e modi del suo utilizzo.
Il suggerimento, innanzi tutto, deve essere formulato solo quando le parti si trovano nella condizione psicologica necessaria ad apprezzarlo, cioè hanno raggiunto la consapevolezza che, nonostante la volontà di conciliare e l’impegno profuso, non sono in grado di raggiungere autonomamente un accordo.
In secondo luogo, esso deve essere completo – cioè relativo ad ogni dettaglio necessario a concludere l’accordo – ed accompagnato da una motivazione chiara e coerente con una puntuale analisi dei rischi di causa. Soltanto in questo caso le parti possono apprezzarne la rispondenza al loro interesse e aderirvi in modo consapevole, meditato e realmente volontario. Un suggerimento privo di motivazione, al contrario, si riduce spesso alla richiesta alle parti di fidarsi del giudice il che, da un lato, riduce le sue possibilità di successo e, dall’altro, aumenta il rischio che esso venga di fatto subìto dalle parti.
Il successo del tentativo di conciliazione dipende da molti fattori, di cui giudice ed avvocato non hanno sempre il dominio: tra essi sono decisivi il tempo ad esso dedicato, la convinzione della sua utilità, un metodo efficace.
È altrettanto importante la capacità del giudice e dell’avvocato di districarsi tra le numerose preoccupazioni che si affacciano durante il percorso, riconoscendo quelle, inutili o controproducenti, di cui liberarsi e quelle invece utili, se non essenziali, da coltivare e, in entrambi i casi, sapendo come comportarsi al riguardo.
Tra le prime stanno, ad esempio, il timore di insistere nel discorso conciliativo quando le parti sono molto distanti e, magari, gli altri soggetti professionali non collaborano abbastanza, di sollevare questioni formali o sostanziali che rischiano di far naufragare il lavoro già svolto , di chiedere o proporre un rinvio per approfondire qualche aspetto rilevante.
Tra le preoccupazioni da coltivare, c’è innanzi tutto quella che la possibilità di influenzare l’atteggiamento delle parti, che inevitabilmente consegue al fatto di essere, rispettivamente, chi le difende e chi dovrà decidere la causa, non si trasformi in una inammissibile coartazione della loro volontà.
È altrettanto importante, all’opposto, fare attenzione a che l’impegno nella conciliazione non comprometta la percezione della parte in merito alla capacità del suo avvocato di difenderla adeguatamente e del giudice di decidere imparzialmente la causa, ove il tentativo di conciliazione fallisca.
A questo scopo è necessario sottolineare con convinzione che il ruolo di difensore e giudice è soltanto aiutare a trovare una decisione conciliativa, che la decisione appartiene soltanto alle parti e che il fatto di evidenziare un rischio in fase di conciliazione non significa affatto, per l’avvocato, mancanza di volontà e/o di capacità di difendere la posizione del suo cliente né, per il giudice, l’esistenza di un pregiudizio destinato ad influenzare la decisione.
5. L’esperienza applicativa della comparizione delle parti e del tentativo di conciliazione.
Molti giudici del lavoro valorizzano apertamente la costante presenza della parte all’udienza e molti avvocati ne procurano regolarmente la partecipazione, anche nelle udienze successive a quella deputata all’interrogatorio e al tentativo di conciliazione in cui, inevitabilmente, le esigenze di ottimizzazione dell’agenda del giudice frammentano l’unica udienza pensata dal legislatore.
Non è sempre così, tuttavia, e per varie ragioni concorrenti.
Ci sono anche giudici, innanzi tutto, che non apprezzano, o non hanno ancora avuto l’opportunità di apprezzare, l’importanza della presenza delle parti e, dunque, non la incentivano.
Ci sono udienze in cui, a causa del numero di cause particolarmente elevato, la trattazione di ciascuna di esse è estremamente veloce e non vi è comunque modo di valorizzare la presenza delle parti.
Nelle controversie di natura previdenziale e di pubblico impiego, ammesso che riesca a costituirsi, la parte pubblica si affida solitamente alla sola difesa tecnica e, comunque, non ha margini conciliativi. Ciò priva il processo della presenza del funzionario che si è occupato della vicenda in sede amministrativa e il giudice dell’indubbia utilità di comprendere meglio, attraverso il suo interrogatorio libero, come l’ente ha ragionato e/o agito. La presenza di un funzionario, d’altronde, consentirebbe a chi decide e agisce per l’ente di valutare meglio i rischi di causa ed eventualmente recuperare una soluzione in sede amministrativa che, come sovente accade con l’INPS, determini una definizione del giudizio in termini di cessazione della materia del contendere, sostanzialmente equivalente alla conciliazione.
In tali contesti molti avvocati sono indotti a “lasciare a casa” il proprio cliente fino a quando non venga eventualmente disposto l’interrogatorio formale e si renda dunque necessario evitare l’applicazione dell’art. 232 c.p.c. Ciò avviene a maggior ragione quando la partecipazione della parte richiede spostamenti geografici da luoghi più o meno lontani ed il coordinamento con impegni lavorativi o personali e fa sì che, in molti fori, l’udienza si svolga sempre, o quasi sempre, senza le parti.
La frequenza con cui il giudice del lavoro tenta la conciliazione è ovviamente influenzata, innanzi tutto, dalla partecipazione o meno delle parti all’udienza.
Vi sono altre ragioni, tuttavia, che concorrono ad allontanare l’attuazione concreta di questo fondamentale passaggio del processo del lavoro dal modello pensato dal legislatore anche quando le parti si presentano.
Ciò dipende, a volte, dalla scarsa propensione alla conciliazione di giudici ed avvocati, a sua volta dovuta ad insufficiente consapevolezza dei suoi vantaggi ed alla, più o meno inconscia, idea che il processo è naturalmente destinato a sfociare in una decisione e che le parti interessate ad un accordo debbono cercarlo altrove.
Spesso, tuttavia, la ragione è oggettiva e risiede nella mancanza di tempo e/o di adeguata formazione che costringe giudici e avvocati ad “alzare le mani” davanti alla prima difficoltà o, addirittura, li dissuade dall’iniziare un discorso conciliativo.
Un buon tentativo di conciliazione, in effetti, richiede molto tempo.
Esso serve innanzi tutto al difensore, prima dell’udienza, per preparare il cliente alla brusca inversione di rotta che gli viene richiesta dal discorso conciliativo rispetto allo spirito con cui ha agito o resistito in giudizio; per spiegare con calma e lucidità i punti di forza e di debolezza della sua tesi difensiva; per provare ad ipotizzare una accettabile soluzione di compromesso; per iniziare a trattare con la controparte.
Comprimere tutta questa attività nell’udienza, per quanto lunga sia, riduce fortemente le possibilità di successo e crea il serio rischio che le parti compiano scelte superficiali e poco convinte, comunque da rifuggire, indipendentemente dal fatto che conducano o meno ad una conciliazione.
Anche il giudice ha bisogno di tempo per studiare adeguatamente la causa prima dell’udienza ed essere così pronto ad aiutare le parti ad analizzarne i rischi e ad effettuare egli stesso le valutazioni indispensabili a formulare un eventuale suggerimento conciliativo.
Pur quando questo lavoro preliminare sia stato svolto al meglio, di tempo ne serve parecchio anche in udienza.
Occorre al giudice per capire la situazione, motivare le parti che siano ancora riluttanti ad un serio discorso conciliativo e spiegare l’importanza di fare riferimento ai rischi, ascoltare le loro proposte, valutarle alla luce del concreto atteggiarsi del rischio per le varie domande, sollecitare un avvicinamento, individuare una soluzione conciliativa da proporre e illustrarla in relazione alla valutazione dei rischi già compiuta.
Occorre ai difensori per dare man mano alle parti chiarimenti e pareri su ciò che si sentono dire dal giudice ed aiutarle a valutare e decidere.
Spesso un’udienza non basta, anche se di un’ora o più, e si rendono necessari uno o più rinvii per consentire alle parti di riflettere con calma, consultare soci e familiari, approfondire aspetti sostanziali o formali e, a volte, anche per dare al giudice il modo di ponderare il suggerimento nelle cause più complesse.
Trovare tutto il tempo che serve è difficile anche per i giudici che hanno ruoli contenuti. Il giudice che ha un ruolo eccessivo, però, si trova nella vera e propria impossibilità di dedicare al tentativo di conciliazione il tempo necessario e, ancora più, di farlo per tutte le cause che lo meritano.
Ecco allora che – a meno di non avviare un tavolo di buone prassi in cui giudici ed avvocati riescano ad individuare i criteri per selezionare un numero ridotto di cause a cui offrire il tentativo di conciliazione giudiziale – si finisce per accantonarne l’idea e limitare la conciliazione giudiziale ai soli casi in cui si tratta di ratificare accordi raggiunti in autonomia dalle parti con l’aiuto dei loro difensori.
Anche la mancanza di formazione può allontanare giudici ed avvocati dal loro compito conciliativo.
Oltre ad impedire loro di comprenderne appieno l’importanza, essa affida alla sola esperienza e predisposizione personale la capacità di gestire situazioni complesse e parti “difficili”. E così, in tali situazioni, non sapendo come comportarsi, si finisce per sentirsi in un vicolo cieco da cui è possibile uscire solo abbandonando l’intento conciliativo.
6. La comparizione delle parti alla prova dei nuovi istituti processuali.
La deviazione dell’attuazione pratica rispetto all’impostazione voluta dal legislatore – spesso giustificata, ma comunque negativa, in quanto destinata a privare il processo dei vantaggi che derivano dal dialogo tra giudice e parti – trova una indubbia possibilità di temperamento nella attuale facoltà di celebrare l’udienza da remoto, introdotta in tempo di Covid e “stabilizzata” dall’art. 127 bis c.p.c.
Eliminando i tempi, e i costi, dello spostamento, infatti, la celebrazione dell’udienza da remoto favorisce indubbiamente la partecipazione personale all’udienza delle parti, dei soggetti aziendali titolari dell’effettivo potere transattivo, del difensore che conosce a fondo la causa e la parte, perché ha ricevuto la delega e scritto l’atto introduttivo. In tal modo, si amplia la possibilità del giudice di instaurare con costoro – e, se serve, riprendere in un secondo momento – il dialogo finalizzato a chiarire i fatti e a raggiungere un accordo conciliativo e si incentiva anche la scelta di vedersi quella “volta in più” che, a volte, è decisiva nel percorso conciliativo.
L’eredità processuale del Covid, però, concretizza anche un nuovo fattore di rischio: la possibilità di sostituire l’udienza davanti al giudice del lavoro con lo scambio di note scritte ai sensi dell’art. 127 ter c.p.c., che esclude in radice ogni possibilità di contatto diretto e personale del giudice non soltanto con le parti, ma anche con i difensori.
Tale possibilità viene utilizzata in molti tribunali anche per la prima udienza, tendenzialmente per cause, cd. seriali, di previdenza e pubblico impiego in cui, di solito, non sussistono necessità di approfondimento in fatto, né vi sono margini di conciliazione.
Prendendo atto che, in quel genere di contenzioso, la comparizione delle parti non ha grande utilità e tralasciando, in questa sede, l’acceso dibattito dei giuslavoristi sulla compatibilità con il processo del lavoro di tale modalità di trattazione, va tuttavia evidenziato il serio rischio che l’ambito di applicazione di questa modalità di trattazione, così lontana dall’udienza voluta dalla l. n. 533/1973, possa ampliarsi anche alle altre cause, quelle in cui la presenza delle parti mantiene tutta l’importanza sottolineata nelle prime righe di questo scritto.
La sostituzione dell’udienza con lo scambio di note scritte, infatti, esonera giudice e avvocati dalla necessità di ritrovarsi in un’aula di Tribunale e di svolgere il proprio ruolo processuale secondo il ritmo serrato impresso dai canoni dell’oralità, concentrazione ed immediatezza ed è verosimile che la sua disponibilità da parte di giudici e avvocati provati dalla “fatica” dell’udienza, oberati di lavoro, poco abituati alla comparizione delle parti e/o poco sensibili ai vantaggi della stessa e del contraddittorio orale potrà indurli a farvi ricorso anche in cause in cui, invece, l’incontro del giudice con le parti presenta tutta la sua utilità.