TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. I PRINCIPI DI CHIAREZZA E SINTETICITÀ DEGLI ATTI. LA MODIFICA DELL’ART. 121 C.P.C.
L’ennesima riforma del processo civile affonda le sue radici, come è no-to, nel PNRR, nell’ambito del quale assume massimo rilievo il “fattore tempo”. Il PNRR si pone il precipuo obiettivo di ridurre i tempi del giu-dizio, al fine di riportare il processo italiano ad un modello di efficienza e di competitività, sì da costituire addirittura un volano per l’economia del Paese , anche al fine di renderlo appetibile all’investitore d’oltralpe. Una delle strade individuate per curare i mali atavici della giustizia civile è quella, ancora una volta, di un ennesimo intervento sul processo civi-le, probabilmente omettendo di considerare gli insuccessi dei precedenti interventi, che tendevano ai medesimi fini . Tra i vari proclami del PNRR, si afferma che “dal punto di vista generale si rendono effettivi il principio di sinteticità degli atti e il principio di leale collaborazione tra il giudice e le parti (e i loro difensori) mediante strumenti premiali e l’individuazione di apposite sanzioni per l’ipotesi di non osservanza” .
Il comma 17, lett. d) dell’articolo unico della legge delega 26 novembre 2021 n. 206 ha delegato il governo a prevedere che i provvedimenti del giudice e gli atti del processo, per i quali la legge non richiede forme de-terminate, possano essere compiuti nella forma più idonea al raggiun-gimento del loro scopo, nel rispetto dei princìpi di chiarezza e sintetici-tà, stabilendo che sia assicurata la strutturazione di campi necessari all’inserimento delle informazioni nei registri del processo, nel rispetto dei criteri e dei limiti stabiliti con decreto adottato dal Ministro della giustizia, sentiti il Consiglio superiore della magistratura e il Consiglio nazionale forense.
In attuazione della legge delega, il decreto legislativo 10 ottobre 2022 n. 149 ha modificato sia la rubrica che il contenuto dell’art. 121 del codice di procedura civile, prevedendo che “Gli atti del processo, per i quali la legge non richiede forme determinate, possono essere compiuti nella forma più idonea al raggiungimento del loro scopo. Tutti gli atti del processo sono redatti in modo chiaro e sintetico”. Altre disposizioni codicistiche, all’esito della riforma Carta-bia,richiamano espressamente il dovere di chiarezza e sinteticità degli atti del processo civile, a volte con riferimento ad entrambi i principi, a volte in maniera disgiunta: il riformato art. 163 c.p.c. prevede che l’atto di citazione debba contenere l’esposizione in modo chiaro e specifico dei fatti e degli elementi di diritto costituenti le ragioni della domanda, con le relative conclusioni; parallelamente, nella comparsa di risposta il con-venuto deve proporre tutte le sue difese prendendo posizione in modo chiaro e specificosui fatti posti dall’attore a fondamento della domanda (167 c.p.c.); con riferimento al giudizio di appello, sia civile che del lavo-ro, gli artt. 342 e 434 c.p.c. , nel prevedere che l’appello deve essere mo-tivato, dispongono che lo stesso, per ciascuno dei motivi deve indicare, a pena di inammissibilità, in modo chiaro, sintetico e specifico: 1) il capo della decisione di primo grado che viene impugnato; 2) le censure proposte alla ricostruzione dei fatti compiuta dal giudice di primo grado; 3) le violazionidi legge denunciate e la loro rilevanza ai fini della decisione impugnata.
Infine, con riferimento al giudizio di cassazione, il novellato art. 366 c.p.c. prevede che il ricorso debba contenere, a pena di inammissibilità: la chiara esposizione dei fatti della causa essenziali alla illustrazione dei motivi di ricorso (n. 3), nonché la chiara e sintetica esposizione dei motivi per i quali si chiede la cassazione, con l’indicazione delle norme di dirit-to su cui si fondano (n. 4).
Balza immediatamente agli occhi il fatto che i principi di chiarezza e sin-teticità non viaggiano sempre di pari passo, essendo richiamati anche in maniera disgiunta, sicché appare opportuna una preliminare verifica in ordine al significato e alla portata di ciascun principio, che anche nella legge delega appaiono distinti . Concettualmente, il principio di chiarez-za attiene alla intellegibilità dell’atto, alla capacità di rendere immedia-tamente percettibile il suo contenuto mediante un linguaggio ed una esposizione lineare; la sinteticità, viceversa, attiene ai “confini”in senso lato dell’atto, che deve risultare non ridondante e privo di inutili ripeti-zioni, indipendentemente dalla sua lunghezza fisica o, secondo diversa prospettiva, coerente con il numero e soprattutto la complessità delle questioni trattate . Se tali sono le premesse, è facile intuire che un atto chiaro potrebbe non essere sintetico e viceversa un atto sintetico po-trebbe comunque risultare non chiaro , a conferma dell’alterità di con-tenuto dei due principi.
Nonostante la distinzione concettuale tra i due principi sia stata affer-mata di recente anche dalla Suprema Corte a Sezioni Unite , sinteticità e chiarezza, in quanto funzionalmente collegate, vengono di solito richia-mate congiuntamente, sì da divenire un’endiadi, con la precisazione che “la chiarezza dev’essere considerata il fine, mentre la sinteticità soltanto il mezzo per raggiungere quel fine” .
In tale prospettiva, quindi, la sinteticità assumerebbe una funzione ser-vente rispetto alla chiarezza, che è il fine ultimo cui l’atto deve tendere; interpretazione condivisibile, ferma tuttavia restando l’autonomia con-cettuale tra i due principi, nei termini innanzi richiamati. Con l’ulteriore – quanto ovvia - precisazione che assolvere al dovere di chiarezza e sin-teticità non comporta alcuna garanzia in termini di contenuto giuridico dell’atto, posto che un atto chiaro e sintetico potrebbe comunque risul-tare privo di qualsivoglia spessore giuridico e pertanto non assolvere al suo scopo ultimo.
La codificazione dei principi di chiarezza e sinteticità degli atti, foriera di timori soprattutto per la classe forense, non può tuttavia considerarsi una novità (né francamente una necessità, considerati i problemi inter-pretativi che dalla stessa è prevedibile che derivino), risultando il natura-le approdo di un percorso già ampiamente tracciato dalla giurispruden-za, espressasi nel senso di ritenere i principi di chiarezza e sinteticità - anche in assenza di specifiche disposizioni presenti in altri ambiti - immanenti al processo civile, quali presupposti per la realizzazione di un processo celere , che si svolga nel rispetto del principio di collabora-zione tra le parti ed il giudice e che sia finalizzato ad una decisione di merito, nel rispetto dei principi del giusto processo ex art. 111 Cost., co. 2 e dell’art. 6 CEDU .
A latere degli approdi giurisprudenziali, il tema della chiarezza e della sinteticità, sia degli atti di parte che dei provvedimenti del giudice , ha da tempo interessato la classe forense e la magistratura, in uno sforzo sinergico teso a dettare “le regole del gioco” .
Se ciò è vero, è altrettanto innegabile che di detti principi – a fortiori ove codificati - si possa dare una interpretazione distorta, utilizzandoli quali impropri strumenti deflattivi, al fine di giustificare esiti abortivi del processo basati su mere questioni “stilistiche”; conclusione all’evidenza inaccettabile, una volta che l’atto abbia comunque raggiunto il suo sco-po (art. 156 co. 2 c.p.c.).
2. CHIAREZZA E SINTETICITÀ TRA PROPENSIONE INDI-VIDUALE E DOVERE PROCESSUALE.
Chiarezza e sinteticità, sempre autonomamente intese, costituiscono do-ti individuali difficilmente trasmissibili; non può tuttavia negarsi che mancanza di chiarezza ed incontinenza negli scritti, spesso dilaganti, af-fondano le loro radici molto lontano: la sostituzione di quaderni, libri e penne a scuola con l’ipad, la comunicazione cifrata e sincopata mediante messaggi - ai limiti della balbuzie lessicale –degli adolescenti, l’incapacità di misurarsi con un testo scritto riguarda una larga fetta di studenti, che per forza di cose hanno sempre minore dimestichezza con la lingua parlata, ma soprattutto scritta . Alle carenze del sistema edu-cativo, soprattutto scolastico, va aggiunta la scomparsa delle scuole di retorica o comunque di percorsi mirati alla cura degli scritti nella pro-fessione forense; anche in assenza di particolari doti personali, tuttavia, dovrebbe essere immediatamente percepibile dall’avvocato l’utilità di essere chiaro e conciso negli scritti, nell’ antica consapevolezza che in presenza di scritti oscuri e prolissi “i giudici, o si annoiano, o si confondono, ovvero si insospettiscono che si usi la prolissità per intorbidare la causa” .
Lo scopo ultimo dell’avvocato è quello di farsi comprendere, di portare chiaramente all’attenzione del giudicante le ragioni del proprio assistito, sfrondando i propri scritti da inutili orpelli; per il raggiungimento di tale scopo lo sforzo di sintesi e la chiarezza di esposizione risultano essen-ziali, tenuto conto del contenuto della singola controversia, al quale la difesa deve risultare necessariamente dimensionata. L’atto è quindi uno strumento destinato ad uno scopo preciso, sicché il deficit di chiarezza e sinteticità assume rilievo non in quanto tale, ma solo ove non consen-ta all’atto di raggiungere il suo scopo, che è quello, banale, di farsi capi-re dal giudice; il che equivale a dire che mancanza di chiarezza e sinteti-cità rilevano non già in senso formale (di requisito stilistico), bensì in senso sostanziale (di contenuto dell’atto). Non può sottacersi, altresì, che la ridondanza negli scritti di parte deriva anche dalle incessanti mo-difiche del codice di procedura civile intervenute nel corso del tempo: nella progressiva implementazione di preclusioni e decadenze, nell’introduzione del principio di non contestazione, nella infelice for-mulazione degli articoli 342 e 434 c.p.c. dettata dalla riforma del 2012, nell’oscuro “progetto di sentenza” a cura dell’avvocato costretto per un attimo a diventare giudice, nell’inafferrabile e ondivago principio di au-tosufficienza del ricorso per cassazione (e sull’annosa e diversamente in-terpretata necessità di riprodurre o meno nel corpo del ricorso per cas-sazione il testo integrale di atti e documenti relativi ai precedenti gradi di giudizio), talvolta utilizzato in senso eccessivamente formalistico sì da violare il principio del giusto processo di cui all’art. 6 CEDU. Insomma, un percorso ad ostacoli, che ha ingenerato nella classe forense il timore che qualsivoglia lacuna espositiva possa determinare l’inammissibilità dell’atto di parte .
Indipendentemente dalle propensioni individuali, chiarezza e sinteticità si considerano derivanti da un preciso dovere processuale, ancorato al principio di leale collaborazione di cui all’art. 88 c.p.c., da intendersi ri-ferito non solo ai contendenti ma anche nei confronti del giudice.
La leale collaborazione tra le parti, e tra le parti ed il giudice, nel garan-tire il buon funzionamento della giurisdizione, evita che le risorse ad es-sa assegnate, che evidentemente non sono illimitate e costituiscono un costo per la collettività, vengano sperperate o comunque non proficua-mente utilizzate .
3. VIOLAZIONE DEI PRINCIPI DI CHIAREZZA E SINTETI-CITÀ E SANZIONI.
La codificazione dei principi di chiarezza e sinteticità degli atti nel pro-cesso civile impone di verificare quali siano le conseguenze connesse al-la loro violazione. Partiamo col dire che l’art. 121 c.p.c., che impone chiarezza e sinteticità degli atti, non connette alla violazione di tali prin-cipi alcuna sanzione. Viceversa, problemi potrebbero sorgere in relazio-ne alle impugnazioni: con riferimento all’appello - in cui gli artt. 342 e 434 c.p.c. nell’indicare i requisiti di forma dell’appello previsti a pena di inammissibilità, espressamente prevedono, che ciascuno dei motivi deb-ba essere strutturato in modo chiaro, sintetico e specifico – ed ancor più con riferimento al giudizio di cassazione, in cui l’art. 366 c.p.c. pre-vede (n. 3) il ricorso deve contenere, a pena di inammissibilità, una chia-ra esposizione dei fatti della causa essenziali alla illustrazione dei motivi di ricorso e il n. 4 che chiara e sintetica esposizione dei motivi per i quali si chiede la cassazione, con l’indicazione delle norme di diritto su cui si fondono.L’atto di appello che contenga gli elementi di cui ai nn. 1 2 e 3 dell’art. 342 o 434 c.p.c. e che tuttavia non risulti sufficientemente chia-ro, sintetico o specifico può per tali ragioni ritenersi inammissibile? Analogamente, il ricorso in cassazione che non contenga una chiara esposizione dei fatti di causa essenziali alla illustrazione dei motivi di ri-corso ovvero una chiara e sintetica esposizione dei motivi per i quali si chiede la cassazione può ritenersi per tale unica ragione inammissibile ? Al quesito non può che darsi risposta negativa.Preliminarmente, la “va-ghezza” dei principi di chiarezza e sinteticità degli atti comporta, quale diretta conseguenza, che la valutazione in ordine alla loro sussistenza o anche solo insufficienza sia rimessa alla mera discrezionalità del magi-strato, con tutto quel che ne consegue in termini di certezza del diritto e di distorsioni applicative in funzione deflattiva; è pacifico, infatti, che un atto che un magistrato possa ritenere chiaro o sintetico possa non risul-tare tale per altro magistrato per differente formazione o anche sensibi-lità individuale; in assenza di indicazioni precise – impossibili, peraltro, da definire – in ordine al principio di chiarezza e sinteticità, consentire una declaratoria di inammissibilità di un atto che deficiti in termini di chiarezza o solo di sinteticità sotto il profilo formale sarebbe inaccetta-bile, ove l’atto comunque abbia raggiunto il suo scopo, che è evidente-mente quello di censurare in maniera intellegibile una decisione, sia essa di primo che di secondo grado. Ma… “la tentazione di liberarsi di un fasci-colo, perché l’atto di impugnazione è ritenuto non chiaro, non sintetico e non specifico potrebbe essere invincibile” .
La soluzione potrebbe quindi essere individuata mutuando i principi già espressi dalla Suprema Corte, che come innanzi detto ha ritenuto che chiarezza e sinteticità siano principi di carattere generale del processo (cui pertanto la modifica dell’art. 121 c.p.c. nulla ha aggiunto), la cui inosservanza non determina ex se l’inammissibilità dell’atto. Chiarezza e sinteticità vanno valutati sotto il profilo della sostanza e non della mera forma, con conseguente inammissibilità del ricorso, solo ove l’inosservanza di detti requisiti pregiudichi “l'intellegibilità delle questioni, rendendo oscura l'esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sen-tenza gravata” .
La decisione appare corretta, nella misura in cui assegna ai principi di chiarezza e sinteticità un valore non “assoluto”, imponendone viceversa la valutazione con riferimento al tenore complessivo dell’atto ed al rag-giungimento dello scopo cui esso è finalizzato nel processo, in linea con il principio di “civiltà giuridica codificato dall’art. 156 c.p.c. che individua nel requisito dello scopo del singolo atto processuale il metro della validità – invali-dità del singolo atto del processo” .
Il dovere di chiarezza e sinteticità non può quindi costituire uno stru-mento di deflazione o peggio di puntigliosa valutazione “stilistica” degli atti di parte, dovendo viceversa lo scrutinio del giudice valutare se l’atto stesso, anche se non particolarmente chiaro ovvero inutilmente prolisso, abbia offerto al giudicante gli elementi di comprensione utili a definire il giudizio. Solo nelle ipotesi in cui mancanza di chiarezza e sinteticità produca una totale incomprensibilità dell’atto, quest’ultimo va dichiara-to inammissibile; approdo cui la giurisprudenza era giunta ben prima dell’entrata in vigore della riforma, dichiarando inammissibili le impu-gnazioni in cui, al netto dello stile non cristallino o ridondante, la parte avesse espresso in maniera oscura e contorta i fatti processuali, fornen-do una serie infinitesimale di dettagli inutili ed al contempo impedendo un’idonea focalizzazione dei fatti di causa dirimenti . Fermo restando il principio di carattere generale, va tuttavia evidenziato che la redazione del singolo atto deve comunque rispettare i requisiti di forma che la legge impone per ogni singolo grado di giudizio.
Principio confermato nella nota sentenza Succi e altri contro Italia, in cui la CEDU , partendo dal presupposto che le condizioni di ricevibili-tà di un ricorso per cassazione possono essere più rigorose che per un appello e che il legale incaricato dovesse essere a conoscenza delle tecniche di redazione del ricorso, ha ritenuto non violato l’art. 6 §1 della Convenzione, in quanto l’ordinanza di inammissibilità emessa dalla Cor-te di Cassazione non aveva pregiudicato la sostanza del diritto dei ricor-renti a un tribunale . Deve pertanto concludersi che la codificazione dei principi di chiarezza e sinteticità negli atti del processo non introduce nuove ipotesi di inammissibilità, non potendosi confondere i requisiti di forma - contenuto degli atti con quelli di dimensione o di stile degli stessi, viceversa dovendosi dare applicazione all’indirizzo, risalente e consolidato, secondo cui la sanzione di inammissibilità si giustifica solo ove sia pregiudicata l’intellegibilità delle questioni sottoposte all’esame del giudice .
Discorso a parte è quello riguardante le sanzioni connesse all’inosservanza dei principi di chiarezza e sinteticità. Pur in assenza di precise disposizioni, viceversa rinvenibili nel processo amministrativo , atti ipertrofici ed oscuri possono giustificare la condanna alle spese di li-te; da escludersi, viceversa, che l’inosservanza dei principi di chiarezza e sinteticità possa comportare, ex se, una responsabilità processuale ag-gravata ex art. 96 c.p.c., in assenza di specifici riferimenti oggettivi, in termini di contenuti della violazione e delle connesse sanzioni. L’atto privo di chiarezza e sinteticità non può, in quanto tale, ritenersi un abu-so del processo – categoria dogmatica anch’essa dai confini sfuggenti -sì da comportare una condanna per responsabilità aggravata, come soste-nuto in recenti pronunce, nelle quali, pur precisandosi che il mancato ri-spetto dei principi di chiarezza e sinteticità non rileva in termini di estensione del ricorso (normativamente non sanzionato), viceversa ri-dondando nella violazione delle prescrizioni di cui ai nn. 3 e 4 dell’art. 366 c.p.c., si afferma che la proposizione di un ricorso “all’evidenza inammissibile” giustifica la condanna per responsabilità aggravata in quanto si pone in frontale contrasto con un assetto ordinamentale che da un lato deve “universalmente garantire l’accesso alla tutela giurisdizionale e dall’altro tener conto del principio di ragionevole durata del processo e, dunque, della conseguente necessità di strumenti dissuasivi rispetto ad un ingiustificato sviamento del sistema processuale dai suoi fini istituzionali” . Affermazione non condi-visibile, in primo luogo in quanto l’obiettivo dell’accesso “universale” alla giustizia si realizza non intervenendo con le punizioni ma affrontan-do, a monte, l’annosa questione del sovraccarico del ruolo della corte; in secondo luogo, in quanto il principio di ragionevole durata del processo non può costituire un valore assoluto e comunque non può giustifica-re l’utilizzo indiscriminato, peraltro d’ufficio, di “strumenti dissuasivi” in assenza di azioni effettivamente temerarie; diversamente opinando, si attribuirebbero al giudice “discrezionali e officiosi poteri repressivi dell’uso dell’azione e della difesa” , peraltro impropriamente allargando la nozione di abuso del processo, che va correlata esclusivamente a comportamenti deliberatamente distorsivi, che attentino al regolare funzionamento della giustizia e non già ad atti che non siano sufficientemente chiari e sinte-tici .
Rimane, irrisolvibile, il problema del perimetro dei poteri decisori e del corretto utilizzo degli stessi, cui, peraltro, non sono correlate sanzioni; ciò in quanto l’irrigidimento dei canoni di valutazione di detti criteri ad opera della magistratura potrebbe condurre ad una pericolosa deriva sanzionatoria (oltre che ad una ingiustificata contrapposizione tra avvo-catura e magistratura), sicuramente violativa dei precetti costituzionali c convenzionali di cui all’art. 24 Cost e all’art. 6 CEDU.
4. LE SPECIFICHE TECNICHE E LA MODIFICA DELL’ART. 46 DISP. ATT. C.P.C.
Il secondo criterio direttivo in tema di atti è previsto dalla lettera e) del comma 17 della legge 26 novembre 2021 n. 206 e prescrive il divieto di sanzioni sulla validità degli atti per il mancato rispetto delle specifiche tecniche sulla forma, sui limiti e sullo schema informatico dell’atto, quando questo ha comunque raggiunto lo scopo, e che della violazione delle specifiche tecniche, o dei criteri e limiti redazionali, si possa tener conto nella disciplina delle spese.
In esecuzione di tale criterio, il decreto legislativo 149/2022 ha modifi-cato l’art. 46 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura ci-vile, prevedendo che il Ministro della giustizia, sentiti il Consiglio supe-riore della magistratura e il consiglio nazionale forense, definisce con decreto, da aggiornarsi con cadenza almeno biennale, gli schemi infor-matici degli atti giudiziari con la strutturazione dei campi necessari per l’inserimento delle informazioni nei registri del processo; con il mede-simo decreto sono stabiliti i limiti degli atti processuali, tenendo conto della tipologia, del valore, della complessità della controversia, del nu-mero delle parti e della natura degli interessi coinvolti. Nella determina-zione dei limiti non si tiene conto dell’intestazione e delle altre indica-zioni formali dell’atto, fra le quali si intendono compresi un indice e una breve sintesi del contenuto dell’atto stesso. L’idea che gli atti di giudi-ziari possano essere concepiti mediante schemi informatici non desta particolari preoccupazioni, essendo peraltro tale previsione il naturale approdo dell’introduzione del processo telematico. Il vero problema at-tiene al contenuto dello schema, allo stato non ancora definito: se infatti appare ovvia la individuazione dei campi necessari a contenere le infor-mazioni minime del giudizio, relative alle parti, all’oggetto della contro-versia, al numero di ruolo, al valore della causa ecc., maggiore attenzio-ne andrà dedicata alla eventuale predefinizionedei campi che riguardino la parte argomentativa dell’atto, non solo in termini di numero di pagine massime consentite: opzione che ovviamente incontra la maggiore resi-stenza da parte del ceto forense,preoccupato di eventuali “ingabbiamen-ti” dei propri scritti e più in generale della compressione del diritto di difesa della parte assistita. Le critiche mosse alla nuova formulazione dell’art. 46 dispatt. c.p.c. non riguardano solo il contenuto dello schema da definire ad opera del Ministero della Giustizia, ma anche, in radice, la possibilità che la predefinizione dell’atto possa promanare, appunto, dal Ministro della Giustizia, cui la Costituzione affida meri compiti di orga-nizzazione e di funzionamento dei servizi relativi alla giustizia, nei quali non paiono rientrare, come correttamente osservato, i criteri di stesura degli atti . Ad oggi, la questione è aperta, e solo con l’emanazione del decreto ministeriale comprenderemo se si apriranno scenari processuali orwelliani ovvero se le misure adottate, nel rispetto dei valori di cui all’art. 6 Cedu e dell’art. 24 Cost., siano comunque compatibili con il ri-spetto del principio di difesa delle parti. Non vi è quindi preclusione di sorta all’introduzione di schemi e formulari, a condizione, tuttavia, che la parte relativa alla parte argomentativa della domanda non subisca ec-cessive e cogenti limitazioni; del resto, vi sono altre disposizioni che espressamente prevedono la stesura degli atti secondo schemi e limiti già prefissati, che appaiono più draconiane nel sanzionare il mancato ri-spetto degli schemi predefiniti. Ad esempio, l’art. 47 del Regolamento della procedura della Corte EDU, secondo cui ogni ricorso depositato a norma dell’art. 34 della Convenzione è presentato mediante un formula-rio di ricorso fornito dalla cancelleria, salvo che la Corte decida altri-menti; in detto formulario si impongono, oltre che i dati necessari alla identificazione delle parti e dei difensori e all’oggetto della causa, per quanto attiene alla parte argomentativa un’esposizione succinta e leggi-bile dei fatti; un’esposizione succinta e leggibile della o delle violazioni della Convenzione lamentate e delle relativeargomentazioni ; e un’esposizione succinta e leggibile che dimostri il rispetto da parte del ricorrente dei criteri di ricevibilità del ricorso; nessuna predefinizione di criteri di stesura dell’atto, ma l’indicazione delle caratteristiche che ogni atto giudiziario dovrebbe avere, finalizzati alla predisposizione di atti contenuti e specifici. Nell’ipotesi in cui il ricorso non presenti i requisiti indicati dal regolamento, lo stesso non sarà esaminato dalla Corte .
Da ultimo, l’art. 47 delle disposizioni di attuazione del codice di proce-dura civile prevede che il mancato rispetto delle specifiche tecniche sulla forma e sullo schema informatico e dei criteri e limiti di redazione dell’atto non comportano invalidità, ma possono essere valutati dal giu-dice ai fini della decisione sulle spese del processo. Trattasi, come cor-rettamente evidenziatocon riferimento alla medesima previsione conte-nuta nella legge delega, di disposizione “tautologica” , poiché appare ovvio che l’atto che ha raggiunto il suo scopo non possa essere sanzio-nato con la sua invalidità per violazione di specifiche tecniche sulla for-ma e sullo schema informatico, ferma restando la possibilità di una va-lutazione della violazione ai fini della condanna alle spese di lite. Di si-curo, il processo telematico non può costituire il “percorso ad ostacoli” del futuro: una cosa è il rispetto di regole chiare e predefinite, altro, evi-dentemente, perdere di vista la funzione del processo, quale strumento di tutela effettiva di chi ha bisogno di giustizia.

 

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