TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
Ero pretore di Ivrea, la Ivrea di Adriano, quando nel 1973 arrivò il nuovo processo del lavoro. D’improvviso, come d’incanto, il ruolo si sgonfiò e si afflosciò, senza che io facessi niente.
Era la magia del rito. Con le nuove norme non valeva più la pena menarla tanto per le lunghe.
Mi tornarono alla mente i flash da giovane praticante. Una sala di antico convento barocco, gremita di signori sussiegosi, che vociavano a pieno volume, in cerca di un appoggio su cui scrivere i verbali, qualcuno anche sulle spalle del collega. Una scrivania, con un ammasso di fascicoli, un signore in cravatta seduto, si presume il giudice civile, ma non troppo, con aria rassegnata e afflitta, attorniato e sommerso, anche dalle spalle, da cento mani protese con un foglio su cui ottenere una data e una firma, l’agognato rinvio. Se, alzando la voce, cercava di decidere sul momento almeno l’ammissione dei testi, si trovava di fronte incaricati e sostituti senza la minima conoscenza della causa, doveva arrendersi e riservarsi. Mi colpiva, a parte il folclore, la diseconomia di un processo eterodiretto dalla tolda di comando degli studi legali, grandi e piccoli, con un giudice-zimbello obbligato a ristudiarsi ad ogni riserva la stessa minestra riscaldata, senza mai poter mettere un punto finale, come una trottola impazzita che gira sempre su se stessa. Qualcuno più sveglio aveva messo una lavagna con il menu delle date di rinvio, così la fatica si riduceva alla sola firma. Un altro, ancora più vispo, nel periodo estivo mandava a tenere udienza il segretario (era una città di mare, o a scelta di tenute agricole) che distribuiva i rinvii alle giovani segretarie mandate a questo preciso scopo dai domini, forse impegnati nelle stesse attività.
Adesso invece entravano una causa alla volta, avvocati e parti, rispettosi e silenti; il giudice, che conosceva perfettamente la causa grazie alle preclusioni e decadenze, procedeva a libero interrogatorio, magari con il registratore ex art. 422 c.p.c., tentativo di conciliazione, spesso exitoso, se no ammetteva la prova testimoniale ancora necessaria. Pochi giorni dopo l’udienza di prova, arringhe, camera di consiglio, lettura del dispositivo in udienza, sentenza immediatamente esecutiva, motivazione scritta il giorno dopo, a mente fresca. E’ finita. Un altro mondo.
Come era potuto succedere un cambiamento così repentino e radicale?
Tutto era cominciato nell’ultima decade dell’Ottocento, quando sotto governi di diverso colore fiorirono le prime misure di protezione per i lavoratori dell’Italia unitaria, ed il primo modello processuale specifico per le cause di lavoro, fino allora soggette al rito civile comune. Sotto il governo della destra storica Di Rudinì fu emanata la legge 15 giugno 1893 n. 295 che istituiva i consigli dei probiviri per l’industria. Le caratteristiche principali erano :
Ciascun collegio si articolava in due organi:
a) l’ufficio di conciliazione, composto da un operaio, un industriale e dal presidente, presso il quale doveva svolgersi il tentativo obbligatorio di conciliazione;
b) la giuria, composta da due industriali, due operai e dal presidente, scelto tra gli appartenenti all’ordine giudiziario, o tra quelli che possono essere nominati conciliatori, la quale era competente a risolvere tutte le controversie giuridiche il cui valore non eccedesse 200 lire, limite elevato a L. 1000 nel 1921. Le decisioni della giuria erano immediatamente esecutive e potevano essere appellate solo per incompetenza o eccesso di potere dinanzi al giudice ordinario.
Questo regime diciamo così popolare durò fino al 1928, quando il regime fascista dell’epoca abolì i collegi probivirali ed attribuì la giustizia del lavoro alla gerarchia giudiziaria statale, con il r.d. 26 febbraio 1928 n. 471. La competenza era distribuita tra pretore e tribunale a seconda dal valore, assistiti da due membri laici con voto consultivo. Il procedimento iniziava con ricorso ed era soggetto a rigide preclusioni.
Il processo del lavoro è stato sempre un laboratorio per il processo civile. I buoni risultati del modello processuale del 1928 furono trasfusi nell’ordinario processo civile dalla riforma del 1942, che assorbì il processo del lavoro.
Tutto però fu vanificato con la sciagurata novella del 1950 . La perla della riforma è l’art. 184 c.p.c.: “Durante l'ulteriore corso del giudizio davanti al giudice istruttore, e finché questi non abbia rimesso la causa al collegio, le parti . . . possono modificare le domande, eccezioni e conclusioni precedentemente formulate, produrre nuovi documenti, chiedere nuovi mezzi di prova e proporre nuove eccezioni che non siano precluse da specifiche disposizioni di legge". Allegria. Chi può avere avuto interesse a sollecitare una riforma e a sguazzare in un sistema siffatti?
I tempi processuali si dilatarono ed entrambi i processi, civile e lavoro, naufragarono.
Gli anni 50’ e 60’ del secolo scorso furono gli anni del boom economico e della grande avanzata dei diritti sostanziali e previdenziali dei lavoratori, culminata nello statuto dei lavoratori. Mancava un tassello, quello della tutela processuale, cui provvide la legge 11 agosto 1973 n. 533 la quale, riprendendo alcune esperienze positive del 1928, elaborò un rito le cui principali caratteristiche erano:
-introduzione del processo mediante ricorso,
-rigido sistema di preclusioni e decadenze,
-principio di non contestazione,
-libero interrogatorio,
-poteri istruttori del giudice,
-discussione orale,
-lettura del dispositivo in udienza,
-immediata esecutività.
Ciascuna caratteristica ha una sua ragion d’essere.
Il ricorso, in luogo della precedente citazione, mantiene il controllo dell’agenda del giudice e gli consente di fissare l’udienza in un giorno in cui possa trattare la causa con i dovuti tempo, attenzione e completezza. Era l’unica norma che non osservavo, quella della fissazione a 60 giorni. Mi sembrava una grida manzoniana, capace di trasformarla in un’udienza di mero rinvio, a rischio di ripiombare nella sala del convento. La fissavo appena avevo uno spazio nel quale io e i difensori potevano incominciare e finire.
Il sistema di preclusioni e decadenze consente alle parti e al giudice una rapida determinazione del thema decidendum e del thema probandum, e di arrivare all’udienza completamente preparati per la sua trattazione, e non riaprire la causa ad ogni libito della parte o del suo avvocato, come avveniva nel processo civile, post 1950.
Il principio di non contestazione, studiato e suggerito dalla dottrina , tende allo stesso scopo e a sfrondare le esigenze probatorie.
Il libero interrogatorio, già conosciuto anche al rito processuale civile, ma, prima della riforma del 1990, con carattere di sporadicità , è stato inserito in maniera sistematica in un coerente programma processuale, nel quale ha molteplici funzioni:
-mettere a fuoco, attraverso il rapporto diretto con le parti, il tema oggetto della controversia;
-sfrondare il fatto e le esigenze istruttorie dalle circostanze ridondanti o non più necessarie di prova a seguito delle ammissioni o non contestazioni del convenuto;
-richiedere alle parti i chiarimenti necessari (art. 183, comma 3, c.p.c.), e quindi anche la precisazione di circostanze dedotte in maniera non chiara; e tutto ciò nella maniera più efficace e produttiva, perché svolto dal giudice nel contraddittorio con le parti e i loro difensori .
La giurisprudenza di legittimità ne ha rivalutato anche la funzione probatoria, corroborando con nuovi argomenti l’indirizzo giurisprudenziale che ammette che le risposte rese dalle parti possano essere liberamente utilizzate dal giudice come elementi di convincimento , soprattutto se riguardano fatti che possono essere conosciuti soltanto dalle parti in causa , o non siano contraddette da elementi probatori contrari , così da poter costituire anche unica fonte di convincimento del giudice , e la possibilità che siano ammessi ulteriori mezzi di prova, in relazione a fatti emersi dal contraddittorio .
Tale mezzo, che risulta ampiamente e doverosamente adottato dai giudici di primo grado nelle controversie di lavoro, è generalmente trascurato nelle controversie previdenziali, atteso il loro carattere seriale, dati anche i carichi di lavoro. Invece proprio in questo campo, quando si discute ad es. di esposizione al rischio, o delle modalità dell’infortunio, un suo corretto espletamento avrebbe potuto evitare decisioni che non appaiono adeguate alla funzione previdenziale dell’istituto.
Esso è obbligatorio per il giudice, nel senso che è obbligatorio valutarne la indispensabilità . In effetti il valore e l’utilità del libero interrogatorio è differente nelle controversie nelle quali sono necessari accertamenti di fatto, dove può esplicare tutta la sua validità, e quelle di puro diritto, nelle quali i fatti sono pacifici, e dove il libero interrogatorio appare funzionale più che altro al tentativo di conciliazione.
I poteri ufficiosi: l’art. 421 c.p.c. dispone: “Il giudice ... può disporre d’ufficio in qualsiasi momento l’ammissione di ogni mezzo di prova, anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile, ad eccezione del giuramento decisorio”.
La dottrina delle origini si è interrogata appassionatamente su come si conciliasse il sistema di preclusioni e decadenze del processo del lavoro con l’iniziativa d’ufficio del giudice .
La giurisprudenza di legittimità si è consolidata (anche grazie all’apporto della multiculturalità derivante dalle migrazioni interne provenienti dal penale), nel senso che “Nel rito del lavoro e, in particolare, nella materia della previdenza ed assistenza, dove, per la particolare natura dei rapporti controversi il principio dispositivo va contemperato con quello della ricerca della verità materiale mediante una rilevante ed efficace azione del giudice nel processo, quando le risultanze di causa offrono significativi dati di indagine, non può farsi meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull’onere della prova, ma occorre che il giudice, ove reputi insufficienti le prove già acquisite, eserciti il potere-dovere di provvedere d’ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale e idonei a superare l’incertezza sui fatti costitutivi dei diritti in contestazione, senza che a ciò sia d’ostacolo il verificarsi di preclusioni o decadenze in danno delle parti .
Occorre un limite, e questo è dato dalla c.d. pista probatoria (come ebbe ad esprimersi nei primi anni ’80 il compianto Salvatore Senese, allora Pretore di Pisa, che enunciò la interpretazione poi divenuta consolidata in sede di legittimità); occorre che il fatto sia enunciato dal ricorrente, ed il fatto, come enunciato dalla parte, costituisce il limite a qualsiasi potere di rilevazione d’ufficio del giudice, ma insieme lo abilita a trarne tutte le conseguenze processuali consentite .
Tali principi valgono anche per il grado di appello, in forza dell’art. 437 c.p.c., .
Questo orientamento fa onore alla giurisdizione, perché costituisce un forte antidoto alla tendenza plurimillenaria, stigmatizzata da una letteratura altrettanto millenaria, dei chierici che amministrano la giustizia a trasformarla in una scienza esoterica, irta di regole, in una certa misura certo necessarie, ma che nella loro maligna proliferazione diventano un muro contro cui si infrange l’obiettivo primario di rendere giustizia.
Il successo del nuovo processo del lavoro fu dovuto al rito, conditio sine qua non, ma anche alla mobilitazione professionale appassionata di giudici ed avvocati, specie dei sindacati. In molte città come Firenze, Milano, Torino, Brescia, Napoli in un anno si riusciva tante volte a fare primo e secondo grado, soprattutto nelle cause relative al rapporto di lavoro, meno in quelle previdenziali. La linea di demarcazione dell’efficienza non passava per la solita linea gotica. Il prof. Andrea Proto Pisani, uno dei padri della riforma , amava ripetere nei frequenti convegni del tempo: nella mia città dove nulla funziona, il processo del lavoro funziona, naturalmente a costo di tenere udienza ogni giorno fino a tarda sera. E lo stesso mi dicono i colleghi spagnoli sulla perdurante piena efficienza nel loro Paese, che ha adottato un rito del lavoro ispirato al modello italiano.
Secondo una indagine conoscitiva del Consiglio Superiore della Magistratura del 1996 , negli anni ‘90 la durata media delle controversie di lavoro in primo grado era tra i 6 e i 9 mesi a Torino, Milano, Firenze; di 20 mesi a Bologna e Messina, di 30 mesi a Genova e Bari; di 40 mesi a Trieste e Catanzaro, di 48 mesi a Roma e Ancona. Non vi è dunque alcun nesso necessario tra i tempi processuali e le dimensioni della città, o con la dislocazione geografica. Forse non è questione solo di mezzi, ma anche di prassi personali e locali, e di mancato controllo amministrativo ed organizzativo di entrambi. Al tempo della riorganizzazione delle preture, mi toccò andare per qualche tempo come missus dominicus a fare il giudice del lavoro nelle preture mandamentali del circondario, dove vidi con somma sorpresa che lì le cause si trattavano come un tempo, con rinvii ad libitum, prove assunte dagli avvocati, durata pluriennale, senza che ciò provocasse alcun fastidio o pensiero ad alcuno, né nella curia né nel foro. Non che manchi l’osservazione del fenomeno ed assidue e assillanti rilevazioni statistiche ministeriali, ma nessuna ricaduta visibile sulla organizzazione in senso perequativo sul territorio nazionale dell’amministrazione della giustizia.
Il grande poeta lucano Rocco Scotellaro, prematuramente scomparso, venuto a Ivrea per far visita alla sua debita quota di parenti emigrati al Nord, vi aveva dedicato una poesia che terminava con il verso “qui ognuno è re delle sue mani”. Ecco, con il processo del lavoro il giudice vedeva la ragione, il frutto e la gratificazione del proprio impegno. Non come quello sconsolato collega del penale che mi confessò una volta: in dieci anni di carriera non ho mai visto una mia decisione passare in giudicato tra riforme, condoni e amnistie.
Un rito concentrato ed efficiente dunque. Non è solo questione di tempi, ma soprattutto di qualità dell’istruzione e della decisione. A volte la prova si assumeva sul posto, come previsto dal 421 3° comma, perché più immediata e comprensibile: i testi erano compagni di lavoro, specie nelle cause infortunistiche era più facile capire la dinamica del sinistro; all’una si staccava e si andava tutti insieme giudici avvocati e parti alla mensa aziendale in unica tavolata, e le conciliazioni fioccavano.
Importante il ruolo degli avvocati: vi erano mastini del sindacato che non perdonavano i rinvii; decisivo il loro apporto nelle conciliazioni; trasferito a Firenze, mi colpiva il pragmatismo degli avvocati milanesi, che arrivavano con il libretto degli assegni in mano, pronti a conciliare, talvolta a condizioni migliori di quelle che io nello studio della controversia mi ero prefigurato.
Ero molto soddisfatto. A volte brillava nella pupilla degli ex litiganti la gratitudine, spesso la soddisfazione per la composizione della lite. strette di mano. Credevo di vivere nel migliore dei mondi e dei riti possibili. Giunto in Cassazione, la prospettiva è cambiata. Adesso avevo la mappa della distribuzione della efficienza in tutti gli angoli del Paese, con enormi differenze da distretto a distretto, non solo nei tempi, ma anche nella osservanza dei principi enunciati dalla Corte di legittimità; avevo la cronometria delle tappe successive in ciascun processo.
Incominciarono i primi interrogativi. Processi d’appello fino a sei anni dopo il primo grado, altrettanti per la cassazione. Arrivavano licenziamenti dopo 10 anni dal fatto: che senso aveva, come si poteva ribaltare una decisione dopo tanto tempo, e a volte lo si doveva, nonostante il doppio grado conforme di merito.
E poi, se il processo del lavoro nei gradi di merito è ancora il meglio della giustizia civile, se i tempi sono ancora comparativamente più rapidi, siamo sicuri che il modello civilistico avversariale-piramidale sia il più appropriato alle controversie di lavoro?
Per la Cassazione si pone un problema specifico. Si è passati da poche migliaia di sentenze all’anno nel 1950, a 38.178 sentenze civili e 49.748 sentenze penali nell’anno 2022. In nessuna parte del mondo vi è una Corte suprema con tale carico di lavoro. Come può una Corte siffatta garantire un corretto esercizio della funzione nomofilattica, ragione della sua esistenza, ma anche meccanismi di filtro effettivamente funzionanti per consentirla, e, naturalmente tempi processuali accettabili ?
Che fare?
La giustizia del lavoro è nata profondamente radicata nello stesso mondo del lavoro, sia come composizione del collegio giudicante con persone tratte da quella esperienza, sia come attribuzione del potere compositivo alle stesse parti. E così è continuata in molti Paesi europei, caratterizzati dalla presenza dei Lay men, membri laici.
Nella esperienza di Paesi non meno democratici del nostro l'autorevolezza della decisione viene raggiunta non attraverso la moltiplicazione dei gradi di giudizio ed il lungo ed illusorio processo piramidale di reductio ad unum della corte di ultima istanza , ma attraverso l'allargamento e la rappresentatività del collegio giudicante. In Svezia, che non è certo un paese autoritario, che non ha conosciuto il fascismo, ma neppure la reazione al fascismo, le controversie di interpretazione dei contratti collettivi vengono decise in unico grado dalla Labour Court, composta da sette giudici, di cui tre professionali, tra i quali il presidente, e quattro Lay men, scelti tra economisti e sociologi, in rappresentanza due di parte datoriale e due di parte dei lavoratori. Mi dicono i colleghi svedesi che la massima parte delle decisioni è raggiunta all'unanimità, nel giro delle 4-8 settimane. E la medesima Labour Court giudica le controversie individuali in secondo ed ultimo grado .
La riforma del 1973 ha proceduto in due direzioni:
-da una parte è rimasta fedele al modello di processo statalista impostato nel 1928. La partecipazione dei rappresentanti sindacali alla giustizia del lavoro è andata a passo di gambero: da membri effettivi dell'ufficio di conciliazione e della giuria con diritto di voto previsti dalla legge sui probiviri industriali del 1893, a membri con valore puramente consultivo nella riforma del 1928, a meri fornitori di informazioni ed osservazioni nella riforma del 1973,
-dall’altra ha aperto alla composizione amichevole delle controversie, con alcune garanzie.
Il codice di procedura del 1940 (art. 806) non consentiva l’arbitrato in materia di lavoro, in coerenza con il monopolio statale della giurisdizione in tale materia stabilito con la legge del 1928.
La 533/1973 ha aperto sia all’ arbitrato rituale (art. 4, che ha introdotto il secondo comma dell’art. 808 c.p.c., tuttora vigente), sia a quello irrituale (art. 5), con alcune condizioni: che la possibilità dell’arbitrato sia prevista da leggi o accordi e contratti collettivi; senza pregiudizio della facoltà di adire l’ autorità giudiziaria ordinaria; obbligo per l’arbitro di applicare le norme inderogabili di legge o di contratto collettivo.
Ha altresì novellato l’art. 410 c.p.c., in due modi:
-mantiene le procedure di conciliazione previste dai contratti e accordi collettivi (ad es. quelli per i dirigenti d’azienda, o quelli cui rinvia l’art. 7 l. 300/1970);
-disciplina il tentativo di conciliazione avanti la commissione di conciliazione costituita presso la direzione provinciale del lavoro, composta dal direttore dell’ufficio stesso, o da un suo delegato o da un magistrato collocato a riposo in qualità di presidente, da quattro rappresentanti effettivi e da quattro supplenti dei datori di lavoro e altrettanti dei lavoratori, designati dalle rispettive organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello territoriale.
Questo tentativo di conciliazione, e le successive modalità di composizione amichevole, sono tutte facoltative e non pregiudicano il diritto di adire l’autorità giudiziaria . La conciliazione raggiunta è inoppugnabile ai sensi dell’art. 2113, 4° comma, c.c.; il relativo verbale non costituisce titolo esecutivo, ma tale forza può acquisire con decreto del giudice (art. 411 c.p.c.).
Questa è la via imboccata decisamente con successive ondate legislative , fino alla negoziazione assistita della riforma Cartabia.
Nella incapacità di garantire l’osservanza del rito del lavoro in misura paritaria in tutti gli angoli del Paese, l’azione del legislatore sembra caratterizzata in tre direzioni:
1. presa d’atto della validità del rito del lavoro e pertanto sua conferma con la riforma Cartabia, che non è intervenuta sulla sua trama;
2. per lo stesso motivo esportazione dei suoi collaudati meccanismi di efficienza nel processo civile ordinario, come era già avvenuto nel 1940, in particolare:
- il principio di non contestazione, applicato dall’art. 45, comma 14, legge 18 giugno 2009, n. 69, nel nuovo testo dell’art. 115 c.p.c., per il quale il giudice deve porre a fondamento della decisione ... i fatti non specificamente contestati dalla parte costituita;
-il libero interrogatorio delle parti, come risulta dal nuovo testo dell’art. 183 c.p.c., All'udienza fissata per la prima comparizione e la trattazione le parti devono comparire personalmente. La mancata comparizione delle parti senza giustificato motivo costituisce comportamento valutabile ai sensi dell'articolo 116, secondo comma. . . Il giudice interroga liberamente le parti, richiedendo, sulla base dei fatti allegati, i chiarimenti necessari e tenta la conciliazione a norma dell'articolo 185.
3. Ulteriori strumenti di composizione amichevole:
-la risoluzione arbitrale della controversia prevede che in qualunque fase del tentativo di conciliazione, o al suo termine in caso di mancata riuscita, le parti possono indicare la soluzione, anche parziale, sulla quale concordano, riconoscendo, quando è possibile, il credito che spetta al lavoratore, e possono accordarsi per la risoluzione della lite, affidando alla commissione di conciliazione il mandato a risolvere in via arbitrale la controversia. Il lodo emanato a conclusione dell'arbitrato è inoppugnabile ai sensi dell’art. 2113, comma 4, c.c.. E’ impugnabile solo a norma dell'art. 808-ter c.p.c. sul lodo arbitrale irrituale, può essere dichiarato esecutivo con decreto del giudice.
- conciliazione e arbitrato con le modalità previste dai contratti collettivi . L’art. 412-ter (art. 31 comma 6 l. 183/2010) sotto il titolo “Altre modalità di conciliazione e arbitrato previste dalla contrattazione collettiva” prevede che la conciliazione (già prevista dall’art. 410) e l'arbitrato possono essere svolti altresì presso le sedi e con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative.
-arbitrato irrituale. Infine l’art. 412-quater, sempre dalle fonti citate, ha stabilito: Ferma restando la facoltà di ciascuna delle parti di adire l'autorità giudiziaria e di avvalersi delle procedure di conciliazione e di arbitrato previste dalla legge, le controversie di cui all'articolo 409 possono essere altresì proposte innanzi al collegio di conciliazione e arbitrato irrituale.
Il collegio di conciliazione e arbitrato è composto da un rappresentante di ciascuna delle parti e da un terzo membro, in funzione di presidente, scelto di comune accordo dagli arbitri di parte tra i professori universitari di materie giuridiche e gli avvocati ammessi al patrocinio davanti alla Corte di cassazione. Non sono menzionati i magistrati a riposo come fa l’art. 410 c.p.c.
-Negoziazione assistita nelle controversie di lavoro.
L’art. 2 del d.l. 132/2014 , ha introdotto la convenzione di negoziazione assistita da avvocati, definendola un accordo mediante il quale le parti convengono di cooperare in buona fede e con lealtà per risolvere in via amichevole la controversia tramite l'assistenza di avvocati iscritti all'albo. L’art. 2, comma 2, lett.b) escludeva da questa possibilità i diritti indisponibili e le controversie di lavoro.
Questa seconda preclusione è caduta con la riforma Cartabia. Il d.lgs 149/2022 ha introdotto un art. 2-ter alla legge 162/2014 del seguente tenore: Art. 2-ter (Negoziazione assistita nelle controversie di lavoro). 1. Per le controversie di cui all’art. 409 c.p.c., . . . le parti possono ricorrere alla negoziazione assistita senza che ciò costituisca condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Ciascuna parte è assistita da almeno un avvocato e può essere anche assistita da un consulente del lavoro. All'accordo raggiunto all'esito della procedura di negoziazione assistita si applica l’art. 2113, quarto comma, c.p.c.
Con questo ultimo passo viene reciso ogni raccordo con il sindacato o con altri istituti di protezione del lavoratore, anche se poi l'accordo stesso è trasmesso ad uno dei (numerosi) organismi di certificazione dei contratti di lavoro elencati dall’art. 76 d.lgs. 276/2003.
Il legislatore ha fatto ricorso a tutte queste misure in funzione essenzialmente deflattiva, ma ritengo che la composizione amichevole sia provvista di una sua validità intrinseca, e sia perciò condivisibile il giudizio positivo già espresso da altri .
Una volta un collega mi propose un quesito: un’azienda in crisi stava per chiudere e licenziare tutti i dipendenti. I più coraggiosi si riunirono in cooperativa, investirono tutti i loro risparmi passati e futuri del TFR e rilevarono l’azienda. Dopo un periodo di rodaggio, la nave prese il largo. A quel punto gli ignavi che erano rimasti alla finestra chiesero di essere assunti ai sensi del 2112. Se accogli la domanda, risposi, la nave affonda. Accolse la domanda e la nave affondò . Forse era la sola soluzione possibile secondo il diritto, ma non secondo le ragioni di vita dei lavoratori.
E questa considerazione positiva per gli strumenti alternativi di risoluzione delle controversie anche di lavoro si è rafforzata in me ed in altri che dopo il pensionamento hanno maturato una esperienza arbitrale. Per il suo successo è fondamentale, come per il processo del lavoro, che gli avvocati ci credano; grazie al loro aiuto ho potuto fare abbracciare tra le lacrime fratello e sorella che litigavano da anni, e grazie all’intervento telefonico dell’ultimo minuto ho visto fallire una conciliazione che sembrava già cosa fatta.
Norme in parte diverse, ma nello stesso spirito, la legge 533 detta per le controversie previdenziali . Di particolare rilievo l’art. 149 d.a.c.p.c. novellato, secondo cui “Nelle controversie in materia di invalidità pensionabile deve essere valutato dal giudice anche l’aggravamento della malattia, nonché tutte le infermità comunque incidenti sul complesso invalidante che si siano verificate nel corso tanto del procedimento amministrativo che di quello giudiziario” .
Cosa dire in conclusione.
La bontà del rito si rivela anche dalla sua capacità di resistenza, dopo 50 anni, ai risucchi culturali atavici, di tipo normativo, come la novella del 1950, o di costume, nel deterioramento delle prassi, nonché dalla graduale trasposizione di molte sue norme nel processo civile ordinario. E perciò, che Dio salvi il processo del lavoro e la sua osservanza.
Qualche nube però è apparsa all’orizzonte Cartabia.
Una piccola erosione vi era già stata quando il d.l. 112/2008, intervenendo sull’art. 429 c.p.c., aveva consentito il deposito della sentenza fino a 60 giorni dalla lettura del dispositivo, con il solito argomento della complessità della questione (ma non se l’era studiata prima dell’udienza?), questa volta evidentemente su richiesta del ceto dei magistrati.
La riforma Cartabia, come accennato, non interviene direttamente sul processo del lavoro, ma nella parte generale relativa allo svolgimento dell’udienza introduce due norme che, ove venissero ritenute applicabili anche all’udienza di lavoro, minerebbero il rito alle radici.
Si tratta degli articoli 127 bis, che consente la trattazione a distanza mediante strumenti telematici, e soprattutto il 127 ter che addirittura sostituisce l’udienza in presenza con le note scritte.
Il primo problema che si pone è se queste disposizioni siano direttamente o indirettamente applicabili al processo del lavoro.
La risposta positiva è stata data sulla base della collocazione sistematica delle due disposizioni, introdotte nel libro I, titolo IV, degli atti processuali e dell’udienza, che le renderebbero rilevanti al di là del processo ordinario di cognizione .
Noi riteniamo che l’argomento sistematico non sia risolutivo, ma vada valutata la compatibilità di ciascuna singola disposizione della parte generale con i caratteri specifici del processo del lavoro. Così, ad es., l’art. 363-bis introdotto dall’art. 3, comma 27, d.lgs. 149/2022, che consente il rinvio pregiudiziale alla Corte di cassazione per la risoluzione di una questione di diritto rilevante per una pluralità di giudizi, sulla quale la Corte non si sia ancora pronunciata, corrisponde alle esigenze di celerità del processo del lavoro, ed è stata perciò già applicata in questo sede .
Viceversa le due disposizioni aggiunte all’art. 127 bis vanno misurate con la struttura dell’art. 420, che disciplina in maniera autonoma e specifica l’udienza del processo del lavoro, concettualmente unica, in maniera differenziata rispetto al processo civile ordinario, che si snocciola in una pluralità di udienze, anche esse disciplinate separatamente a partire dall’articolo 175.
La prima misura, art. 127 bis, che si avvale della sperimentazione in fase pandemica, è introdotta con grandi cautele: lo svolgimento dell’udienza mediante collegamenti audiovisivi a distanza è consentita solo quando non è richiesta la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti, dal pubblico ministero, dagli ausiliari del giudice; non è consentita per l’escussione dei testimoni. Inoltre ciascuna parte costituita può chiedere che l’udienza si svolga in presenza, che rimane quindi la modalità preferenziale. Si deve concludere che questa modalità a distanza potrebbe essere consentita nel processo del lavoro solo quando garantisca la medesima percezione e interazione dell’udienza in presenza, quando cioè tutti i partecipanti possano essere simultaneamente presenti ed interagire sullo schermo. Forse potrà essere adottata nelle cause di puro diritto ed in alcune cause previdenziali, dove non vi siano esigenze istruttorie.
Quanto alla trattazione scritta dell’art. 127-ter, che ci riporta agli anni 50, essa appare assolutamente incompatibile con il rito del lavoro, che richiede il contatto diretto delle persone per il libero interrogatorio obbligatorio, il tentativo di conciliazione e la relativa interazione. In questo senso negativo si è espresso in modo netto anche l’ufficio massimario della Corte di cassazione nella sua relazione in merito alla riforma .
Quanto infine alle modalità di risoluzione alternativa delle controversie, nella situazione data, ci sentiamo di associarci ai pareri positivi condizionati espressi dalla dottrina. Certo tutto dipende dalla forza rappresentativa e di aggregazione del sindacato e dalla sua capacità di fornire adeguata assistenza legale. Non vorremmo che la proliferazione dei sindacati gialli, come ha condotto ad un peggioramento delle condizioni di lavoro e ad una riduzione delle retribuzioni, non comporti altresì una minor tutela nelle controversie relative .
Per la Cassazione il discorso è diverso. Le molte misure organizzative adottate sono state utili, ma non risolutive. Particolarmente apprezzabile la suddivisione della Sezione lavoro in tre sottosezioni, lavoro, previdenziale e lavoro pubblico, che, con la fissità e specializzazione dei collegi, un pò come i Senaten delle Corti supreme tedesche, può ridurre i contrasti ed aiutare la continuità della giurisprudenza . Altri Paesi usciti da regimi dittatoriali che, come il nostro, non vogliono incidere sulle possibilità di accesso alle Corti supreme, affidano la selezione dei ricorsi in ultima analisi alla stessa classe forense . Ma questa soluzione non sembra da noi neppure proponibile.