TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. Cinquant’anni fa
E’ trascorso mezzo secolo dal 1973, che fu un anno molto importante per il diritto del lavoro. Le novità introdotte allora sul piano della contrattazione collettiva e su quello legislativo, meriterebbero una rievocazione, quanto meno per rammentare ‘’come eravamo’’. Per quanto riguarda il primo aspetto va segnalato lo storico contratto dei metalmeccanici sottoscritto il 19 aprile del 1973, dopo un lungo lavoro di stesura che portò in coerenza con l’inquadramento unico ad una radicale ristrutturazione dell’assetto contrattuale che superò – salvo taluni aspetti specifici – la classica ripartizione tra impiegati, operai e intermedi ereditata dall’ordinamento corporativo. Quello stesso contratto avviò l’esperienza delle <150 ore> ovvero il diritto di ottenere, in un triennio, 150 ore pagate dalle imprese, per quei lavoratori che volevano terminare la scuola dell’obbligo, con la sola condizione che il lavoratore ne aggiungesse altrettante dal suo tempo libero. Si trattò di una misura che consentì a centinaia di migliaia di lavoratori di completare un ciclo di studi dell’obbligo. Fu la scuola pubblica a doversi adattare a queste esigenze, individuando programmi particolari per l’educazione degli adulti con cicli di studio di 300 ore in un triennio.
2. Il nuovo processo del lavoro

Sul versante legislativo, nel 1973 il Parlamento approvò in via definitiva l’istituzione del processo del lavoro con legge n.553 che abrogava il Titolo V del codice di procedura civile (cpc) tornando ad una disciplina peculiare per le vertenze di lavoro rivolta ad assicurare una maggiore e più rapida tutela del lavoratore grazie a criteri di snellezza, semplicità, minor costo economico e soprattutto alla maggior brevità rispetto ai tempi del processo ordinario. La brevità è stata raggiunta attraverso la previsione di un sistema di preclusioni in base al quale sia il ricorrente che il convenuto devono in modo preciso esporre le proprie posizioni e indicare mezzi di prova e documenti nei propri atti giudiziari. Caratteristiche di questo processo sono: a) l’oralità: Infatti solo gli atti introduttivi vanno redatti per iscritto; b)l’immediatezza: Infatti fra deposito del ricorso e udienza di discussione non possono trascorrere più di 60 giorni e sono vietate anche le udienze di mero rinvio e ecc.); c) la concentrazione degli Atti Processuali; d) gli ampi poteri Istruttori del Giudice del lavoro rispetto a quelli del giudice del Processo Ordinario. La riforma è stata integrata, sul piano funzionale, nel 1998 con tre decreti legislativi (n. 51, 80 e 387) che soppressero, rispettivamente, l'ufficio del pretore trasferendo le competenza al Tribunale in composizione monocratica in funzione di giudice del lavoro, riformato la disciplina della conciliazione e compiuto alcune integrazioni al codice di procedura civile. La figura del pretore era emblematica, perché, in quegli anni da quell’ufficio (dei c.d. pretori d’assalto) provenivano clamorose sentenze pro labour salutate come indice di un ‘’fare giustizia’’ in modo sostanziale con la pretesa di fare riferimento all’ordito normativo della Costituzione piuttosto che alle leggi in vigore. La riforma del processo del lavoro del 1973 è comunque un prodotto dell’autunno caldo e del capovolgimento avvenuto nell’ambito dei rapporti contrattuali e (se è consentito dirlo) e di ‘’classe’’. Peraltro è bene notare che la legge non introduceva una giurisdizione speciale come era l’ordinamento della magistratura del lavoro durante il regime corporativo, abilitata ad intervenire anche nelle controversie collettive (ovvero nella definizione degli accordi che regolavano i rapporti di lavoro). La novità effettiva stava nell’istituzione di un giudice ‘’specializzato’’ in materia di lavoro, allo scopo di realizzare l’obiettivo della snellezza del processo e la rapidità del relativo giudizio,
3. La disciplina del licenziamento individuale

La pietra d’angolo di questo cambiamento (che è poi anche il principale oggetto del processo del lavoro) era la nuova disciplina del licenziamento individuale. nell’immediato dopoguerra e fino alla legge n.604 del 1966 (che aggiunse, per la legittimità del recesso, il requisito di un giustificato motivo, sindacabile in giudizio) il datore di lavoro aveva facoltà di licenziare un proprio dipendente (ex articolo 2118 c.c.) senza dover fornire alcuna motivazione ma ottemperando solamente all’obbligo di assegnare un congruo preavviso o di corrispondere un’indennità sostitutiva come previsto dalle norme contrattuali. Analoga disciplina valeva – in nome di un’astratta par condicio per le dimissioni del lavoratore. Fino al 1966, dunque, l’unica sindacabilità possibile dei motivi del licenziamento avveniva – salvo l’eventuale ricorso giudiziario per i casi di giusta causa - per via contrattuale mediante una serie di accordi interconfederali che istituivano – in parallelo con una procedura prevista per i licenziamenti collettivi – un percorso intersindacale di conciliazione di arbitrato nel settore dell’industria. Gli accordi interconfederali che disciplinarono questa materia furono tre: il primo siglato il 7 agosto 1947 (dopo che era venuto a scadenza il provvedimento legislativo di blocco dei licenziamenti operante negli anni 1945 e 1946) l’accordo ne compensò la fuoriuscita); il secondo il 18 ottobre 1950; il terzo il 29 aprile 1965, che, in pratica, ‘’tirò la volata’’ alla legge n.604 dell’anno successivo (particolare curioso: durante il dibattito i parlamentari della Cisl – allora non c’era l’incompatibilità ed erano eletti all’interno dei partiti, quasi tutti dalla DC - si opposero alla legge in nome dell’autonomia contrattuale). In sostanza, la normativa che segnò di sé un’intera fase (un quindicennio) di storia sindacale nella lotta contro i licenziamenti ingiustificati fu quella sancita nell’accordo del 1950. E fu anche l’unica occasione in cui una procedura di conciliazione e di arbitrato, in materia di recesso, trovò applicazione nell’ambito del sistema di relazioni industriali. La regolamentazione di natura contrattuale - che assicurava nella sostanza una tutela solo di carattere obbligatorio – dopo l’approdo legislativo nella legge n. 604 del 1966 sfociò poi in un regime di tutela reale contro il licenziamento ingiustificato (con la sanzione della reintegra nel posto di lavoro) nell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970.
Non c’è dubbio che, soprattutto in materia di risoluzione del rapporto di lavoro, le nuove regole sostanziali trovarono un approdo nel processo del lavoro introdotto nel 1973 che garantiva l’esame e la pronuncia di un giudice togato in quelle controversie di lavoro fino ad allora affidate alla ‘’giustizia privata’’. L’entrata in campo di un rito del lavoro in grado di risolvere le controversie in base alla legge fu accolto con diffidenza in alcuni settori sindacali minoritari (in particolare della Cgil) come se la nuova disciplina mortificasse il conflitto. Ma la preoccupazione si rivelò ben presto inconsistente, proprio perché il nuovo processo del lavoro dimostrò di essere uno strumento efficace per affermare le tutele conquistate per quanto riguardava il licenziamento individuale. In generale la Cgil, come linea di condotta in materia di diritto del lavoro, ha sempre guardato con sospetto e diffidenza le forme di ‘’giustizia privata’’ (solitamente più compatibili con l’impostazione politico-culturale della Cisl assertiva del primato della contrattazione collettiva anche nella risoluzione stragiudiziale delle controversie)
4. La ‘’giustizia privata’’ nel recesso
Caratteristiche essenziali di questa forma di ‘’giustizia privata’’ erano le seguenti: in caso di licenziamento ai sensi dell’articolo 2118 era previsto un primo passaggio consistente in un tentativo di conciliazione, fallito il quale si poteva far ricorso ad un Collegio (costituito da tre membri di cui due indicati rispettivamente dall’organizzazione sindacale a cui il lavoratore era iscritto o aveva conferito mandato e dall’associazione datoriale ed un terzo estratto per sorteggio da una lista comune), il quale, dopo aver esperito inutilmente un ulteriore tentativo di conciliazione, pronunciava il proprio lodo. Nel caso in cui fossero riconosciute le ragioni del lavoratore, il Collegio invitava (platonicamente) il datore a riassumere il dipendente o, in caso di suo (normale) rifiuto, a versare una penale da un minimo di cinque ad un massimo di otto mensilità (nelle aziende che occupavano da 36 a 80 lavoratori le penale veniva ridotta rispettivamente a 2,5 mensilità e a quattro mensilità, mentre nelle imprese fino a 35 dipendenti poteva aver luogo soltanto un ‘’esame conciliativo’’ in sede aziendale. In caso di licenziamento per giusta causa, il datore poteva chiedere, in attesa della sentenza del giudice, la sospensione della procedura che veniva ripresa successivamente nel caso di condanna del datore stesso. Riassunta in estrema sintesi la procedura, è il caso di valutarne il funzionamento effettivo. Ci aiuta in questa ricerca storica una pubblicazione de il Mulino del lontano 1968: ‘’La disciplina dei licenziamenti nell’industria italiana (1950-1964)’’ a cura del ‘’Gruppo di lavoro sulla formazione extra-legislativa del diritto del lavoro delle Università di Bari e Bologna (ovvero le scuole di Gino Giugni e Federico Mancini)’’, con una lunga introduzione di Umberto Romagnoli. La raccolta sistematica dei dati dell’esperienza inerente all’applicazione dell’accordo del 1950 ‘’ha definitivamente chiarito che il baricentro della tutela contro i licenziamenti ad nutum si è spostato dal livello arbitrale dove sembrava situato, a quello della conciliazione in sede intersindacale o in sede di collegio arbitrale’’. Il che – secondo Romagnoli – ha provocato una grossa delusione, soprattutto a chi sperava (e non erano pochi) che i lodi emersi in sede arbitrale avrebbero dato luogo ad una ‘’catena di precedenti’’ suscettibili di dettare le linee della nuova disciplina del recesso ad nutum’’. La percentuale dei responsi arbitrali fu davvero modesta: nella capitali del c.d. triangolo industriale (Torino, Milano, Genova) aveva riguardato il 6% dei 2.997 ricorsi proposti nel periodo 1950-1964 (con una punta massima del 13,6% a Genova ed una minima del 2,5% a Torino). La percentuale più numerosa di lodi si registrò (21% dei 1.616 ricorsi) nel 1951 per scendere negli anni successivi. Il numero dei lavoratori assistiti dalla Cgil era pari al 70-75% mentre la Cisl era presente nel 15- 20% dei casi. Ad eccezione dei primi tre anni i licenziamenti ritirati si mantennero sempre ad un livello modesto, intorno al 3-4% e anche meno. Riflettendo sui dati riguardanti il passaggio della controversia non conciliata in sede sindacale al Collegio, Umberto Romagnoli scriveva che ‘’è più probabile pensare ad una definitiva consacrazione voluta dalle parti (sindacati operai ed associazioni industriali) del Collegio come seconda ed ulteriore fase di tentativo di conciliazione dopo la fase propriamente sindacale’’. Tuttavia, ‘’tra tutela nelle forme contrattualmente previste e assenza di tutela è possibile esprimere un giudizio globale in termini moderatamente positivi’’.

5. Il processo del lavoro e la tutela dei diritti
La riforma del processo del lavoro, con le procedure previste, ha sicuramente rafforzato la tutela dei diritti, anche attraverso il formarsi di una giurisprudenza consolidata che – in una certa misura – ha supplito alla mancanza dell’efficace generale del contratto collettivo di diritto comune. Inoltre, anche le novità riconducibili alla c.d. riforma Cartabia non modificano in modo significativo la dinamica del processo del lavoro, per quanto riguarda le disposizioni sulla negoziazione assistita. Anzi, la riforma ne amplia i confini applicativi, allargandoli a quelle controversie che, altrimenti, sarebbero state gestite, ancora per qualche tempo, secondo lo schema del c.d. rito Fornero, in materia di licenziamento. Ma non è un segnale positivo che in Italia non abbiano attecchito – in materia di lavoro – le forme di conciliazione e di arbitrato che sono connaturali ai rapporti di lavoro. Sono previsti strumenti e procedure di giustizia privata, che tuttavia finiscono per essere atti preliminari al processo al punto da divenire inutili e ritardare l’accertamento dei fatti controversi.
6. Il Collegato Lavoro
Nella XVI Legislatura il governo presieduto da Silvio Berlusconi (Maurizio Sacconi era titolare del Lavoro) tentò di rilanciare (nel c.d. Collegato Lavoro, legge n.183/2010) il ricorso a strumenti di conciliazione e di arbitrato. Vanno ricordate, tuttavia, altre norme importanti, proprio sul piano delle procedure processuali quali la razionalizzazione delle impugnative delle risoluzioni dei rapporti di lavoro, la tipizzazione delle clausole del licenziamento. Il provvedimento ebbe ben sette letture e fu oggetto di un messaggio di rinvio alle Camere, ai sensi dell’articolo 74 della Costituzione, da parte del Presidente della Repubblica. Per quanto riguarda il principale casus belli ovvero l’articolo 31, recante norme sull’arbitrato secondo equità nelle controversie di lavoro, il messaggio presidenziale, pur ritenendo apprezzabile un indirizzo normativo teso all'introduzione di strumenti arbitrali (compresi quelli che introducevano la possibilità di un giudizio secondo equità) volti a prevenire e accelerare la risoluzione delle controversie, evidenziava tuttavia la necessità di definire, in via legislativa, meccanismi meglio idonei ad accertare l'effettiva volontà compromissoria delle parti, con riguardo al contratto individuale, e a tutelare il lavoratore, soprattutto nella fase di instaurazione del rapporto di lavoro. Inoltre, il messaggio metteva in luce che la possibilità di pervenire a una decisione arbitrale "secondo equità" non poteva in ogni caso compromettere diritti costituzionalmente garantiti, o comunque indisponibili, di cui era titolare il lavoratore; nel settore del pubblico impiego, tale possibilità andava altresì coniugata con il rispetto dei principi costituzionali di buon andamento, trasparenza e imparzialità dell'azione amministrativa.
Il Governo e la maggioranza ritenevano che spettasse alla contrattazione collettiva definire un quadro adeguato di garanzie (della cui necessità nessuno aveva mai dubitato), tanto che il ministro Maurizio Sacconi volle prendere l’iniziativa di promuovere la sottoscrizione ad opera delle parti sociali di un avviso comune che escludesse, nel contesto delle intese negoziali, la materia della risoluzione del rapporto di lavoro dal ricorso a procedure stragiudiziali. Nel suo messaggio il Capo dello Stato ritenne indispensabile, invece, un ampliamento del perimetro delle garanzie presidiate dal precetto legislativo.
La maggioranza e il Governo si adeguarono, seguendo quelle autorevoli indicazioni, secondo le quali era <la fase della costituzione del rapporto… il momento nel quale massima è la condizione di debolezza della parte che offre la prestazione di lavoro>. Questa preoccupazione, riferita al momento dell’assunzione, era ripetuta più volte nel testo del massaggio.
7. La clausola compromissoria
Così, si scelse di <blindare> la clausola compromissoria, da sottoscrivere al momento dell’assunzione e che rappresentava la chiave di volta del provvedimento. Tale clausola, ai sensi dell’articolo 808 cpc, recitava: <Le parti, nel contratto che stipulano o in atto separato, possono stabilire che le controversie nascenti dal contratto medesimo siano decise da arbitri…>. E’ chiaro, allora, che si trattava di un impegno che le parti assumevano per il futuro e per tutte le controversie nascenti. Non avrebbe, allora, avuto senso sommare due adempimenti: sottoscrivere liberamente una clausola compromissoria all’atto della stipula del contratto e decidere, poi, tutte le volte in cui insorgesse una controversia, se adire il giudice togato o il collegio arbitrale. In tal modo, attraverso un sovraccarico di burocrazia, si sarebbe in pratica precluso il ricorso all’arbitrato pur dichiarando di condividerne, come sostenevano talune forze di opposizione, l’introduzione nel sistema delle relazioni industriali. Uno strumento facilitatore del <rendere giustizia> al lavoratore non poteva trasformarsi in un pellegrinaggio davanti alle commissioni e agli organi di certificazione.
8. La conciliazione e l’arbitrato dopo il messaggio del Capo dello stato
E’ il caso di richiamare, in sintesi, il contesto di garanzie di cui fu circondata l’introduzione dell’arbitrato, dopo le sollecitazioni del Capo dello Stato. Premesso che l’articolo 31 metteva in campo una serie molto ampia di opzioni per quanto riguardava le forme di risoluzione stragiudiziale delle controversie di lavoro e che l’arbitrato irrituale secondo equità, di cui ai commi 10 e 11 era solo una di queste, va ricordato, in proposito, quanto segue:
a) le clausole compromissorie nel contratto individuale potevano essere pattuite solo laddove ciò era previsto dalla contrattazione collettiva. Ed era tanto importante e costitutiva la definizione di un ambito negoziale di riferimento che veniva addirittura stabilita una procedura, conforme alle osservazioni del messaggio presidenziale, attraverso cui il ministro del lavoro e delle politiche sociali può intervenire in caso d’inerzia dei soggetti collettivi;
b) le parti dovevano recarsi davanti alle commissioni di certificazione le quali erano tenute ad accertare l’esistenza di un’effettiva volontà; le parti stesse potevano farsi assistere da un legale di propria fiducia o da un rappresentante sindacale;
c) prima di poter sottoscrivere le clausole doveva essere esaurito il periodo di prova o comunque dovevano essere trascorsi almeno 30 giorni dalla stipula del contratto;
d) il collegio era un soggetto terzo, che giudicava secondo equità, ma doveva attenersi comunque non solo ai principi generali del diritto, ma anche a quelli specifici della materia del lavoro ancorchè derivanti da obblighi comunitari;
e) era precluso, conformemente a quanto pattuito nell’avviso comune, il ricorso all’arbitrato per le controversie riguardanti la risoluzione del rapporto di lavoro.
9. Le speranze deluse
Come abbiamo ricordato, il fatto che si siano rese necessarie ben sette letture per l’approvazione del provvedimento che nei suoi 50 articoli affrontava diverse materie, denota le difficoltà politiche che ha incontrato nella politica legislativa del dopoguerra il ricorso a forme di ‘’giustizia privata’’ che pure appartengono alla fase di amministrazione del contratto come continuazione della stessa attività negoziale da parte dei soggetti stipulanti. Il percorso attuativo affidava alle parti sociali di affrontare e definire la questione attraverso la contrattazione. Trascorso inutilmente il termine assegnato sarebbe intervenuta una mediazione del governo. In caso di mancato accordo anche in questa sede, il ministro era autorizzato ad avanzare una proposta vincolante, tenendo conto degli elementi emersi fino a quel momento. Caduto il governo, l’esecutivo presieduto da Mario Monti non fu in grado di affrontare la materia. Nella legislatura successiva nessuno si fece carico di riaprire il dossier.

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