TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. Premessa
Mentre per il giudizio di primo grado e di appello il rito del lavoro è regolato da norme apposite ed autonome rispetto al rito ordinario, che costituisce soltanto regola di fondo destinata a colmare le lacune della disciplina speciale, per il giudizio di cassazione manca un capo destinato soltanto alle controversie di lavoro e si può dire che il regime processuale sia uniforme ed omogeneo nei due riti.
Non vi è quindi luogo ad attardarsi - perché estranee al tema che origina questi scritti – sulle regole processuali comuni rispetto alle cause ordinarie.
Le peculiarità del giudizio lavoristico di legittimità vanno invece colte, per un verso, in alcune disposizioni specifiche dell’ambito suo proprio, inserite nel contesto della regolazione uniforme del grado di legittimità, mentre, per altro verso, sembra significativo valorizzare il lungo lavoro ermeneutico che la S.C. ha svolto nel corso dei decenni, con l’effetto di sagomare, anche in relazione alla ricorribilità per cassazione e quindi al fenomeno processuale nel suo complesso, alcune connotazioni caratterizzanti del rito.
2. Norme lavoristiche nel giudizio di cassazione: la denuncia di violazione dei contratti collettivi nazionali di lavoro (art. 360 n. 3 c.p.c.)
Tra le norme specifiche del giudizio di cassazione che riguardano l’ambito lavoristico viene intanto in evidenza il disposto dell’art. 360 n. 3 c.p.c., nella parte in cui prevede tra i motivi di ricorso per cassazione la denuncia della violazione e falsa applicazione anche “dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro”, estendendo quindi a tutta la contrattazione collettiva una previsione originariamente propria del solo pubblico impiego privatizzato (art. 63 d. lgs. 165/2001).
È pacifico che l’interpretazione di tale contrattazione debba muovere, data la natura comunque negoziale di essa, sulla base dei c.d. canoni ermeneutici (art. 1362 ss. c.c.).
In una prima fase, l’interpretazione della norma ha tuttavia dato adito a difformità valutative, in quanto, secondo un certo indirizzo, la denuncia del vizio di legittimità riguardante la contrattazione collettiva avrebbe dovuto comunque essere veicolata dal ricorrente con l’indicazione dei canoni ermeneutici violati .
Secondo un diverso orientamento – poi risultato prevalente – è sufficiente che la censura denunci l’errore di diritto conseguente all’applicazione della contrattazione fatta dal giudice del merito, mentre poi la S.C., nel decidere, pur dovendo interpretare la contrattazione sulla base dei parametri ermeneutici e non delle regole di interpretazione della legge, può procedere direttamente alla valutazione del corretto significato da attribuire ad essa .
Si è infatti affermato che la denuncia di violazione o di falsa applicazione dei contratti o accordi collettivi di lavoro, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., come modificato dall'art. 2 del d.lgs. 2 febbraio 2006 n.40, è parificata sul piano processuale a quella delle norme di diritto, sicché, anch'essa comporta, in sede di legittimità, l'interpretazione delle loro clausole in base alle norme codicistiche di ermeneutica negoziale (artt. 1362 ss. cod. civ.) come criterio interpretativo diretto e non come canone esterno di commisurazione dell'esattezza e della congruità della motivazione, senza più necessità, a pena di inammissibilità della doglianza, di una specifica indicazione delle norme asseritamente violate e dei principi in esse contenuti, né del discostamento da parte del giudice di merito dai canoni legali assunti come violati o di una loro applicazione sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti .
Sussiste, come è noto, una differenza tra il settore del pubblico impiego e quello del lavoro privato, nel senso che solo rispetto al primo vale, quanto alla contrattazione, il principio iura novit curia, nel senso che il testo negoziale può e deve essere acquisito e conosciuto dal giudice e quindi anche dalla S.C. a prescindere dalla produzione di parte; viceversa, i contratti nazionali di diritto privato vanno acquisiti a cura della parte interessata, secondo le regole proprie dele produzioni documentali .
Produzione, quest’ultima, che deve avvenire nella loro interezza, perché anche la contrattazione di diritto privato può rendere rende necessaria un’interpretazione sistematica del testo, attraverso le diverse clausole di esso.
Nel complesso resta un ulteriore margine differenziale tra il pubblico impiego e l’ambito privatistico, perché in quest’ultimo, come si desume dall’onere di produzione, lo spaziare interpretativo officioso del giudice riguarda l’operazione ermeneutica in quanto tale .
Nel pubblico impiego, invece, una volta affermata la conoscibilità officiosa della contrattazione in un ambito di iura novit curia, ne deriva la possibilità per la S.C. nel contesto delle proprie valutazioni giuridiche, di valorizzare eventuali norme della contrattazione nazionale che assumano rilievo in causa . Si pensi ad es. alla valutazione di validità o meno della contrattazione integrativa in ragione del contrasto con quella nazionale o più in generale, al rilievo giuridico di decisività di determinate statuizioni della contrattazione stessa rispetto all’oggetto del contendere del caso che venga volta a volta in rilievo.
Pur con i diversi gradi di intensità appena segnalati, la previsione della denuncia diretta della violazione dei contratti collettivi consente quindi di acquisire un primo dato al ragionamento, nel senso che, senza dubbio, da ciò deriva una più estesa portata dell’intervento nomofilattico , di cui si può intanto rilevare la migliore capacità uniformante dell’intervento giurisdizionale, a garanzia, in ultima analisi, non solo di diritti processuali (art. 111 Cost.), ma dell’assicurazione in concreto del principio di eguaglianza (art. 3 Cost.).
Su ciò si tornerà anche oltre.
3. (segue): l’accertamento pregiudiziale sull’efficacia, validità ed interpretazione dei contratti e accordi collettivi.
Altre norme speciali sono quelle che riguardano il procedimento di accertamento pregiudiziale sull’efficacia, validità ed interpretazione dei contratti ed accordi collettivi. Si tratta dell’art. 420-bis c.p.c., anch’esso mutuato con estensione generalizzata, dal pubblico impiego, ove l’ipotesi è regolata dall’art. 64 del d. lgs. 165/2001, i cui commi 4, 6, 7 e 8 sono richiamati dall’art. 146-bis disp. att. c.p.c. anche rispetto all’ipotesi codicistica.
Qui la specialità lavoristica del giudizio di legittimità è, per così dire, di seconda battuta, nel senso che essa si manifesta perché, quando ricorra una questione concernente quei profili, la decisione in tal senso assunta dal giudice del merito, destinata a rifluire in una sentenza munita di una sua autonomia processuale cui segue in via separata l’eventuale prosecuzione del giudizio per l’ulteriore istruzione o comunque per la prosecuzione della causa, è impugnabile soltanto con ricorso immediato per cassazione da proporsi nel termine di sessanta giorni dal deposito della sentenza stessa.
Tratti particolari del procedimento sono, per quanto riguarda l’ipotesi di cui all’art. 64 cit., l’esistenza di una fase “sindacale” di consultazione attraverso l’ARAN e l’esistenza, per entrambi i procedimenti, di alcuni spunti – pur timidi - finalizzati ad attribuire un qualche effetto espansivo alla valutazione giuridica della S.C., pur resa inter alios .
Si tratta del fatto che, qualora la questione pregiudiziale rilevi anche in processi diversi da quello in cui essa sia stata sollevata, anche questi ultimi possono essere sospesi (art. 64, co. 6 cit., applicabile anche all’ipotesi di cui all’art. 420-bis) e della previsione, anch’essa comune (art. 64, co. 7, cit.), secondo cui, quando per la definizione di altri processi sia necessario risolvere un’analoga questione pregiudiziale sulla quale sia già intervenuta pronuncia della S.C. e il giudice non ritenga di uniformarsi, egli deve procedere con sentenza non definitiva sulla sola questione pregiudiziale. Quest’ultimo disposto non è chiarissimo e la portata di esso la si coglie sostanzialmente rispetto all’ipotesi contraria a quella esplicitamente ivi regolata, ovverosia consentendo che, quando il giudice condivida invece quanto affermato dalla S.C. rispetto alla questione pregiudiziale sollevata in un diverso processo, egli non sia tenuto a pronunciare la separata sentenza, ma possa proseguire nel merito il giudizio in corso .
Si può oggi discutere dei rapporti tra tali procedimenti preesistenti ed il nuovo rinvio pregiudiziale, per così dire, “diretto”, in quanto non necessariamente mediato da una previa sentenza sull’interpretazione da parte del giudice a quo, di cui all’art. 363-bis c.p.c., quale introdotto dalla L. 197/2022.
In proposito, quanto meno rispetto alla pregiudiziale interpretativa in ambito di pubblico impiego, la specialità del procedimento di cui all’art. 64 cit. appare indubbia in ragione della menzionata fase di consultazione sindacale ed anche il procedimento ai sensi dell’art. 420-bis presenta quei profili di specialità, in sé comuni al procedimento del pubblico impiego, di cui si è detto.
Ciò dovrebbe indurre in linea di principio a ritenere la specialità delle norme riguardanti la contrattazione collettiva, salvo, tuttavia, ragionare sulla possibilità che prevalga l’art. 363-bis c.p.c., quando la questione sia in realtà mista e coinvolga non solo profili interpretativi dell’assetto negoziale, ma anche, e magari con portata pregiudiziale, questioni afferenti alla dubbia interpretazione delle norme che stanno alla base della vicenda giuridica interessata.
Può anzi auspicarsi che la comunanza di ispirazione del nuovo procedimento e di quello lavoristico qui in esame sia ragione di rivitalizzazione dell’istituto, di utilizzazione non certo così diffusa e magari in attenuazione di alcuni orientamenti rigorosi in senso restrittivo talora manifestatisi .
Valorizzandosi magari piuttosto, proprio nella menzionata nuova logica, l’evidente intento di indirizzare rapidamente le questioni pregiudiziali riguardanti la contrattazione collettiva verso una pronta risposta nomofilattica e dunque un piano di uniforme valutazione, lungo un’inclinazione che non è poi molto diversa da quello che si è vista esprimere il senso della denuncia come vizio di legittimità “diretto” della violazione o falsa applicazione dei contratti collettivi nazionali.

4. Il lavorio interpretativo della S.C. sui poteri officiosi del giudice del lavoro.
Con un salto logico voluto, il cui senso rispetto all’occasione che origina questi scritti si spera possa essere chiarito più avanti, si ritiene di porre l’accento, passando dal piano dei contenuti e dell’oggetto lavoristico del ricorso per cassazione a quello dell’attività interpretativa svolta dalla S.C., sull’incessante e complessivo impegno ermeneutico espresso dalla Corte di legittimità rispetto ai poteri officiosi del giudice del lavoro, lungo una linea temporale che copre l’intero corso cronologico dall’entrata in vigore del rito del lavoro a tutt’oggi.
Il tema riguarda i giudizi di merito, ma in realtà esso è nelle chiave di chiusura che deriva dagli orientamenti sviluppatisi presso la Corte di Cassazione che ha tratto linfa vitale e le connotazioni complessive, sostanzialmente consolidiate, sue proprie.
Da un primo punto di vista, la S.C. ha chiarito nel tempo la portata dell’ampliamento dei mezzi di prova “anche al di fuori dai limiti stabiliti dal codice civile” (art. 421 c.c.), nel senso, corrente con la logica complessiva dell’istituto, che la deroga è così estesa ai limiti del codice civile, implicitamente ammettendosi la derogabilità dei limiti stabiliti dal codice di rito, con riferimento ad es. alla possibilità di disporre officiosamente – e non solo su istanza di parte come richiesto dall’art. 210 c.p.c. – l’esibizione documentale.
Al di là di ciò, l’attività interpretativa della S.C. ha presso inevitabilmente le mosse dal limite di “indispensabilità” che l’art. 437 c.p.c. pone rispetto all’esercizio in appello di quei poteri.
Ciò in quanto è la valutazione svolta dal giudice di secondo grado a giungere naturalmente alla cognizione di legittimità processuale della S.C., ma anche perché se la prova, comunque acquisita in primo grado, fosse risultata in concreto indispensabile per il ragionamento di merito del giudice di appello, essa non potrebbe mai essere espunta, proprio per effetto dell’art. 437 c.p.c.) dal novero di quelle utilizzabili, mentre, se si discuta di prove non assunte, è evidentemente sul parametro normativo posto in proposito al giudice di appello che il ragionamento va inevitabilmente svolto.
Con ciò portandosi il requisito a collimare con quello – appunto di indispensabilità - che puntuale dottrina ha da sempre individuate come metro bilanciamento tra l’esercizio di poteri officiosi e l’imparzialità del giudicante .
Tale indispensabilità è stata definita, da un orientamento di cui è sintesi già in alcune sentenze dei primi anni novanta dello scorso secolo , ma che risale ancora più addietro , nel senso che ove il materiale istruttorio acquisito al processo indichi significative direzioni di indagini ulteriormente ed utilmente esperibili ai fini della suddetta ricerca, il giudice non può decidere la causa affidandosi alla meccanica applicazione del criterio di giudizio dell'onere della prova (art. 2697 c.c.), se non abbia prima esercitato tali poteri, destinati quindi a manifestarsi come poteri-doveri, il cui mancato esercizio è destinato come tale ad essere scrutinabile in cassazione.
Orientamento corroborato, alla luce dei parametri obiettivi (concrete piste probatorie; decisione altrimenti fondata sulla regola di cui all’art. 2697 c.c.) così individuati, dall’affermarsi progressivo del concomitante principio per cui l’esercizio di quel potere dovere va attuato senza che a ciò sia di ostacolo il verificarsi di preclusioni o decadenze in danno delle parti .
I predetti principi vivono ormai concretamente nella giurisprudenza della S.C. sul rito del lavoro e non si ha timore di affermare che essi siano in buona misura alla base anche dell’evolversi dell’interpretazione delle norme sul rito ordinario in senso sempre meno incline ad avallare paralisi formali sula base di regole di decadenza e ad avviare anch’esso verso la ricerca, nei limiti del possibile, dell’effettivo assetto della realtà su cui si deve andare a decidere .
Chiave di volta dell’intero sistema, necessaria al fine di coerentemente inserire i principi nel contesto impugnatorio, che presuppone una reale erroneità nell’operare del giudice di appello, è l’unica limitazione frapposta dalla S.C. a tale potere-dovere, consistente nella necessità che chi denunci in cassazione il mancato esercizio dei poteri istruttori di ufficio nel giudizio di merito sia tenuto ad allegare, a parte la ricorrenza dei presupposti propri del corrispondente potere-dovere, di avere espressamente e specificamente richiesto tale intervento nel predetto giudizio .

5. L’eredità del rito del lavoro nella logica del giudizio di cassazione: verso una giustizia giusta.
Il ragionamento, pur nel limitato approfondimento teorico degli istituti, appare così maturo per trarne alcune considerazioni di fondo, che ad avviso di scrive consentono di allineare i diversi profili esaminati e pur nella portata giuridicamente disomogenea – normativa contenutistica del ricorso nei paragrafi dedicati alle censure in Cassazione riguardanti i contratti collettivi; evolversi dell’elaborazione della S.C. rispetto ai poteri istruttorie del giudice del lavoro - di essi.
L’associazione è in realtà voluta, perché è da ritenere che, pur nella diversità degli istituti i tratti evidenziati siano linearmente espressivi, rispettivamente sul piano giuridico e su quello fattuale, di tratti di ispirazione profonda propri del rito di cui si celebra il cinquantenario.
Rispetto al fatto, è indubbio che l’insistenza della S.C. sui poteri istruttori propri del rito si radichi non solo in un’esigenza astratta di avvicinamento alla “verità materiale”, ma sulla considerazione che quanto più esistano mezzi conoscitivi che il giudice debba (e non soltanto possa) sperimentare, tanto più il processo sia destinato ad essere giusto, ovverosia coerente con la realtà rispetto alla quale si va a decidere.
Come autorevolissima la dottrina non ha mancato di sottolineare .
Ma sul diverso piano giuridico-formale, le norme riguardanti le censure sulla contrattazione collettiva nel giudizio di legittimità esprimono una tensione a ben vedere non molto diversa.
Già si è detto come l’espandersi, pur con intensità diverse tra lavoro pubblico e lavoro privato, della cognizione giudiziale sul significato da attribuire alle norme collettive, con l’indubbio effetto pervasivo che di fatto il precedente è destinato ad esprimere, siano parimenti profili di attuazione obiettiva ed uniforme dell’ordinamento che traggono linfa dal medesimo humus culturale che da sempre ha ispirato il rito speciale qui interessato.
Nel senso che sono i diritti dei lavoratori, come anche quelli della previdenza ed assistenza, nella loro centralità ed intangibilità, ad avere ispirato gli istituti processuali disaminati e la loro attuazione attraverso il giudizio di legittimità.
In ciò sta l’eredità forte della tutela di tali diritti, nella logica del giudizio di legittimità, ed è quanto mai rilevante sottolineare l’effetto espansivo di tali premure di tutela verso il rito ordinario, nei recenti approdi delle S.U. di cui si è appena detto, ma anche nella creazione generalizzata di un sistema di definizione pregiudiziale dei temi di interesse “seriale” (art. 363-bis c.p.c.).

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