TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. Introduzione
Caratteristica propria del diritto del lavoro è costituita dalla disuguaglianza economica e sociale tra le parti del rapporto di lavoro. Tale disparità ha imposto, storicamente, anche prima che si cominciasse a prevedere una tutela differenziata, la creazione di regole giurisdizionali distinte rispetto a quelle ordinarie .
Nell’impianto della riforma del codice di procedura civile del 1973, l’art. 421 c.p.c. assume un ruolo centrale, che concorre fortemente a caratterizzare il diverso habitus del giudice specializzato in materia.
La disposizione prevede che il giudice possa disporre d'ufficio in qualsiasi momento l'ammissione di ogni mezzo di prova, anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile, ad eccezione del giuramento decisorio, nonché la richiesta di informazioni e osservazioni, sia scritte che orali, alle associazioni sindacali indicate dalle parti. Si applicano i commi 6 e 7 dell’art. 420 c.p.c..
La norma concorre a rendere il giudice del lavoro non mero arbitro di un processo di parti, ma motore dello stesso, necessariamente specializzato della materia, con poteri di impulso. La disposizione però, inserita nel codice di procedura civile, non rende il procedimento inquisitorio, bensì rappresenta il delicato punto di equilibrio tra processo a carattere pur sempre dispositivo e poteri del giudice .
La disposizione si inserisce in un meccanismo processuale più agevole, rispetto al processo civile ordinario, al fine del sollecito accertamento della verità con la previsione di: un atto introduttivo avente la forma del ricorso; un sistema delle preclusioni che obbliga a dire tutto e subito; un’ordinanza di pagamento delle somme non contestate o di una somma a titolo provvisionale, nei limiti in cui sia ritenuta raggiunta la prova del diritto; un’unica udienza per lo svolgimento di tutte le attività; provvisoria esecutività già del dispositivo della sentenza di primo grado, ove preveda la condanna relativa a crediti di lavoro; una disciplina speciale sulla sospensione della provvisoria esecuzione, possibile solo al ricorrere di un gravissimo danno; credito pecuniario rivalutato in deroga al principio nominalistico.
Dette previsioni hanno il chiaro scopo di velocizzare il processo, tenuto conto che esso ha un costo, sovente insostenibile per il lavoratore, nonché di contemperare le diverse capacità economiche delle parti, anche nella scelta del difensore, al fine di compensare lo squilibrio delle parti e realizzare l’eguaglianza sostanziale di cui all’art. 3 della Costituzione: in tal modo si vuole riconoscere una tutela effettiva dei diritti coinvolti .

2. Principio dispositivo e principio inquisitorio; la ratio di un contemperamento.
La deroga al principio dispositivo in punto di prova, con la previsione di poteri inquisitori, trova ragione anche nella natura dei diritti coinvolti, in capo al prestatore di lavoro e derivanti da disposizioni inderogabili della legge e dei contratti o accordi collettivi concernenti i rapporti di cui all'art. 409 del codice di procedura civile (art. 2113 c.c.). I diritti sono qualificati indisponibili perché si riconosce loro una particolare natura, oggi rafforzata anche dal diritto eurounitario, in ragione di un obbligo di uniformità del mercato che garantisca la concorrenza, con conseguente necessità di applicazione generalizzata delle norme legali o pattizie che lo regolano.
Il processo non può perciò essere uno strumento neutro ma uno strumento per l’attuazione del diritto sostanziale: le regole devono garantire l’effettiva attuazione applicazione delle norme inderogabili che regolano la materia.
È corretto parlare di deroga al principio dispositivo, non di superamento, perché il processo rimane fondato sul principio della domanda, con possibilità di rinunciare al diritto o agli atti, anche implicitamente; inoltre lo stesso è ancorato all’onere di allegazione, addirittura integrale in un momento anticipato (ricorso, memoria di costituzione) ed all’onere della prova (resta alle parti la possibilità di non adempiere gli incombenti istruttori disposti d’ufficio dal giudice): la delimitazione del perimetro della domanda e dei fatti da provare rimane nella esclusiva disponibilità delle parti .
Dunque tre appaiono le ragioni principali che giustificano il porte istruttorio del giudice:
1) natura del diritto;
2) struttura del processo (preclusioni);
3) posizione di debolezza del lavoratore.
I poteri istruttori conferiti al giudice del lavoro, così delimitati nella ratio, pongono numerose opzioni interpretative in relazione alle finalità cui tali poteri devono ricondursi, alle condizioni e i limiti per il loro esercizio: in tale perimetro è stato fondamentale l’intervento giurisprudenziale.
Infatti l’espressione ammissione di ogni mezzo di prova, anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile pone questioni quali la superabilità delle decadenze maturatesi (in tal senso la relazione di maggioranza al Senato) e la necessità o meno che le prove siano tipiche, problema che si collega a quello delle nuove tecnologie.
La delimitazione del perimetro di utilizzo di tali poteri, lungi dall’indicare solo il limite al loro esercizio, serve anche a delineare anche quando ricorra l’obbligo del loro utilizzo, al fine di accordare, nei limiti del possibile, una tutela effettiva al contraente debole.
La tutela differenziata (rispetto al rito civile ordinario) impone regole che posso garantire alla parte debole del rapporto superare la disuguaglianza fattuale rispetto alla controparte. Ovviamente, tale finalità non può sostanziarsi nell’esercizio in concreto dei poteri affidati al giudice in favore solo del lavoratore, ovvero sovvertendo le regole sull’onere probatorio: di contro avviene esercitando il potere al fine di ricostruire la verità storica, operazione solitamente più difficile per il lavoratore. Dunque il favor per il lavoratore è nella ratio della norma e non nel nei principi che governano il loro esercizio.
Le pronunce della Corte di cassazione che fanno riferimento alla vicinanza della prova integrano, in qualche modo, i poteri officiosi del giudice. In alcune pronunce si è fatto ricorso alla ripartizione dell’onere della prova tenendo conto, in concreto, della possibilità per l'uno o per l'altro soggetto di provare fatti e circostanze che ricadono nelle rispettive sfere di azione , fino a giungersi ad affermare che la ripartizione dell'onere della prova tra lavoratore, titolare del credito, e datore di lavoro, deve tenere conto, oltre che della partizione della fattispecie sostanziale tra fatti costitutivi e fatti estintivi od impeditivi del diritto, anche del principio - riconducibile all'art. 24 Cost. e al divieto di interpretare la legge in modo da rendere impossibile o troppo difficile l'esercizio dell'azione in giudizio - della riferibilità o vicinanza o disponibilità dei mezzi di prova; conseguentemente ove i fatti possano essere noti solo all'imprenditore e non anche al lavoratore, incombe sul primo l'onere della prova negativa. È stato opportunamente precisato che detto criterio non può operare ove l’interessato abbia comunque a disposizione mezzi probatori utili a dimostrare il fatto controverso, anche se la prova risulti più agevole per la controparte . Tra i mezzi probatori utili vi sono anche i poteri officiosi del giudice, che la parte può e deve sollecitare. Infatti i poteri del giudice in materia di prova soffrono, per come si dirà in seguito, di minori limiti rispetto alle prove di cui dispongono le parti, risultando perciò maggiormente idonei a provare il fatto e così limitare l’utilizzo del principio di vicinanza o disponibilità della prova.
L’ammissione di ogni mezzo di prova, anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile, è facoltà del giudice che non rappresenta solo un potere, ma un potere/dovere, il cui mancato esercizio è ricorribile per cassazione.
Il Giudice delle Leggi ha avuto un iniziale atteggiamento di rifiuto della giustiziabilità del mancato esercizio ne ha progressivamente sottolineato la obbligatorietà in specie successivamente alla costituzionalizzazione del principio del giusto processo (legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2), al quale ha collegato anche la disciplina dell'esercizio dei poteri d'ufficio del giudice di cui agli artt. 421 e 437 cod. proc. civ.. Il Giudice ha dunque l'obbligo, ex art. 134 cod. proc. civ., ed artt. 24 e 111 Cost. sul "giusto processo regolato dalla legge", di esplicitare le ragioni per le quali reputi di far ricorso all'uso dei poteri istruttori o, nonostante, la specifica richiesta di una delle parti, ritenga, invece, di non farvi ricorso .
In altre sentenze la Cassazione ha posti ulteriori limiti al potere officioso del giudice affermando, tra l’altro, che il corretto esercizio dello stesso, in tema di ricerca di prove suppletive od integrative a supporto della domanda, postula… la impossibilità, soggettiva od oggettiva, di reperire o dedurre la prova carente o di integrare, ad opera della parte, quella lacunosa o polivalente, pur nella sua acclarata esistenza idonea a sorreggere le ragioni dedotte; non vi deve poi essere inerzia probatoria, ovvero la eventuale rinuncia, esplicita o per facta concludentia, della parte, cui il giudice non può avviare con il suo potere di imperio in senso contrario, collidendo altrimenti con il menzionato potere dispositivo, pur sempre vigente, anche se attenuato, nel rito delle cause di lavoro. Invero detta giurisprudenza appare criticabile nella misura in cui non tiene conto che il principio dispositivo, nel suo nucleo essenziale, è ben più limitato e ben può ritenersi soddisfatto già con la necessità delle allegazioni, che delimitano il thema probandum e decidendum, e con la possibilità di non proseguire il giudizio . La stessa finisce poi con l’impedire l’esercizio del potere dispositivo a fronte della decadenza dalla prova, posto che la stessa ben può ritenersi rinuncia “per facta concludentia” e che la impossibilità, soggettiva od oggettiva, di reperire o dedurre la prova carente, ovvero di integrare, ad opera della parte, quella lacunosa o polivalente costituisce sempre una ipotesi di decadenza.
Oggi può ritenersi maggioritario un orientamento più ampio, che ritiene obbligatorio l’esercizio dei poteri officiosi in presenza di una pista probatoria atta ad integrare le risultanze procedimentali non certe, in modo che la regola di giudizio di cui all’art. 2697 c.c. si ponga quale residuale. Tale applicazione può avvenire anche a fronte delle decadenze maturatesi a carico delle parti, allo scopo non di supplire alla loro inerzia, ma di ricercare la verità materiale. Deve esserci sempre la specifica motivazione dell'attivazione dei poteri istruttori d'ufficio ex art. 421 cod. proc. civ., di contro il mancato esercizio di questi va motivato soltanto in presenza di circostanze specifiche che rendono necessaria l'integrazione probatoria .
La giurisprudenza consente il ricorso per cassazione in relazione al mancato esercizio di tali poteri da parte del giudice, purché emerga l'esistenza di una "pista probatoria" qualificata, ossia l'esistenza di fatti o mezzi di prova, idonei a sorreggere le sue ragioni con carattere di decisività, rispetto ai quali avrebbe potuto e dovuto esplicarsi l'officiosa attività di integrazione istruttoria demandata al giudice di merito, ed allegare, altresì, di avere espressamente e specificamente richiesto tale intervento nel predetto giudizio. Il relativo sindacato, nell'ambito del contemperamento del principio dispositivo con quello della ricerca della verità, involge un giudizio di opportunità rimesso ad un apprezzamento meramente discrezionale, che può essere sottoposto al sindacato di legittimità soltanto come vizio di motivazione, ai sensi dell'art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., qualora la sentenza di merito non adduca un'adeguata spiegazione per disattendere la richiesta di mezzi istruttori relativi ad un punto della controversia che, se esaurientemente istruito, avrebbe potuto condurre ad una diversa decisione .
La giurisprudenza ha altresì confermato il particolare legame tra rilievo del diritto sostanziale ed esercizio del potere processuale. Affermando che deve essere attribuita adeguata rilevanza — al fine dell'utilizzazione dei suddetti poteri officiosi — al tipo di diritto posto a base della domanda (nel caso di specie il paventato danno da emotrasfusioni).

3. I limiti.
Si è affermato che il potere giudiziale non consente di superare i limiti intrinseci dei singoli mezzi di prova, al di fuori degli schemi e delle previsioni normative espresse, perché in tal caso non si verterebbe in tema di prova atipica ma illegittima.
A riprova la medesima disposizione consente di interrogare liberamente sui fatti della causa le persone che siano incapaci di testimoniare a norma dell'art. 246 c.p.c. o a cui sia vietato a norma dell'art. 247 c.p.c.: dunque i limiti della prova testimoniale restano insuperabili ma la dichiarazione assume la valenza di interrogatorio libero.
In senso opposto depone l’art. 2 del d.lgs. n. 150/11: nelle controversie disciplinate dal Capo II… salvo che sia diversamente disposto, i poteri istruttori previsti dall'articolo 421, secondo comma, del codice di procedura civile non vengono esercitati al di fuori dei limiti previsti dal codice civile. Dunque la disposizione prevede che per le controversie cui si applica il rito del lavoro, diverse dalle controversie di lavoro, i poteri istruttori, previsti dall'art. 421, comma 2, del c.p.c., non possono essere esercitati al di fuori dei limiti previsti dal codice civile: a contrario ne deriverebbe che nelle controversie di lavoro i poteri istruttori previsti dall'art. 421, possono essere esercitati al di fuori dei limiti previsti dal codice civile (ammissibilità e formazione), salvo le disposizioni del c.p.c. che espressamente li limitano . Vi è da domandarsi se il legislatore abbia voluto solo escludere la insuperabilità del limite di cui all’art. 2722 c.c., posto che, nella pratica, per i processi civili ordinari, si superano sia gli inadeguati limiti di cui all’art. 2721, che quelli di cui all’art. 2723 c.c., ovvero se dalla previsione possano trarsi elementi per confutare l’orientamento della Cassazione che ritiene insuperabili, nel processo del lavoro, i limiti derivati dalla forma scritta "ad probationem".
Il potere officioso del giudice è strettamente concatenato al regime delle preclusioni istruttorie.
In preclusioni e decadenze, ponendo limiti alle possibilità allegatorie e probatorie, allontanano la verità processuale dalla materiale, impedendo di far accedere al processo fatti o mezzi di prova nuovi, in relazione ai quali sia decaduti. Tale meccanismo, nel rito del lavoro, pone in una situazione di svantaggio il ricorrente che non può conoscere le difese della controparte ed approfittare di una eventuale debolezza delle stesse. Con il sistema delle preclusioni, chi commette un errore nelle proprie difese è destinato a pagarne il prezzo, se del caso per effetto della applicazione della regola di giudizio di cui all’art. 2697 c.c.: il ricorrente, incorrendo nelle decadenze prima che il contraddittorio si sia formato, rischia più facilmente di incorrere in difetti di difesa.
Il potere officioso del giudice, pur non potendo superare ex abrupto il regime delle decadenze, ha anche la funzione di compensare la predetta posizione di oggettivo svantaggio processuale.
Tale potere è generalmente indicato quale suppletivo per cui se ne fa derivare che lo stesso sia esercitabile solo successivamente all’espletamento della prova richiesta dalle parti ed in relazione a prove che non possono da esse essere richieste: pertanto tale potere non trova il limite nelle decadenze maturate in capo alle stesse. Argomentare in senso opposto sembra svuotare di significato tale potere e sottoporlo alla medesima decadenza prevista per le parti.
In funzione di riequilibrio del potere officioso e di salvaguardia del principio del contraddittorio, la norma rinvia al sesto comma dell'art. 420, che impone al giudice di assegnare alle parti un termine per il deposito di note difensive, nonché (opinione prevalente) al settimo comma, che consente alle parti di dedurre quei mezzi di prova che si rendono necessari in relazione a quelli ammessi ex officio. Qui si condivide l’opinione prevalente in relazione alla applicabilità del 7° comma, perché si tratta pur sempre di ammissione di nuovi mezzi di prova alla quale il comma 7 ricollega la possibilità per le parti di dedurre i mezzi di prova che si rendano necessari in relazione a quelli ammessi.
Si afferma ancora che la spendita della funzione officiosa può avvenire solo all’esito della raccolta le prove ritualmente indicate dalle parti ed ammesse, ma comunque residuino dubbi sulla ricostruzione dei fatti. La ipotizzata collocazione temporale dell’esercizio del potere del giudice lo collega solo ad evitare l’applicazione dell’art. 2697 c.c.; tale ricostruzione sarebbe supportata da indici sistematici e tra essi si fa riferimento all’art. 420 co. 4, c.p.c. che consente al giudice di ritenere la causa matura per la decisione senza la completa assunzione di tutti i mezzi di prova: in tal caso e non sarebbe possibile ammettere mezzi di prova d’ufficio proprio perché la causa è stata ritenuta matura per la decisione il cui presupposto è la sufficienza dell’istruttoria. Dunque ove il fatto sia ricostruibile in base al materiale probatorio raccolto su istanza di parte, qualsiasi altro potere istruttorio, di parte o d’ufficio, sarebbe precluso.
Orbene, ferma restando la possibilità di attivare il potere officioso col solo limite della necessità di una pista probatoria che emerga dagli atti, vi è da interrogarsi se lo stesso sia spendibile anche prima, in ipotesi in limine litis, dopo l’interrogatorio libero delle parti da cui emerga la sussistenza di una prova decisiva, non richiesta dalle stesse: si pensi ad un licenziamento disciplinare dove l’unica persona presente al fatto disciplinarmente rilevante non sia stata indicata quale teste.
L’art. 1, comma 49, della L: n. 92/12 (c.d. rito Fornero), consente al giudice della prima fase, per i recessi impugnati con ricorso depositato entro il 28.2.23, anche solo di sentire le parti e procedere agli atti di istruzione che ritiene indispensabili anche solo disposti d’ufficio, ai sensi dell'articolo 421 del codice di procedura civile, nonostante istanze istruttorie delle parti. È ben vero che nella eventuale fase di opposizione il giudice, sentite le parti…procede…agli atti di istruzione ammissibili e rilevanti richiesti dalle parti nonché disposti d'ufficio, ai sensi dall'articolo 421 del codice di procedura civile, per cui il giudice deve procedere ad assumere la prova rilevante richiesta dalle parti, ma in ipotesi in cui assuma d’ufficio una prova decisiva potrebbe ben ritenere quella richiesta dalle parti superflua e quindi inammissibile, ex art. 420, comma 4, c.p.c.. Appare altresì chiaro che la pista probatoria può emergere anche dal solo interrogatorio libero ed in tal caso non espletate ancora le prove, non è ipotizzabile una “semiplena probatio”.
I principi di ragionevole durata del processo inducono a ritenere che l’obbligo del giudice ex art. 421 c.p.c. sorga anche a fronte di chance probatorie che potrebbero essere soddisfatte, con maggiore immediatezza, da mezzi istruttori non richiesti dalle parti ma individuabili d’ufficio in sede di libero interrogatorio.
Depongono sistematicamente in questo senso il predetto comma 49 che qualifica i poteri officiosi così esercitati come disposti…ai sensi dall'articolo 421 del codice di procedura civile e l’art. 46 delle disp. att. c.p.c. come modificato dalla riforma c.d. Cartabia che vuole la previsione di limiti agli atti processuali, tenendo conto della tipologia, del valore, della complessità della controversia, del numero delle parti e della natura degli interessi coinvolti: anche domanda ed allegazione, massima espressione del principio dispositivo, subiscono limiti tesi ad indirizzare le energie della giurisdizione nel modo più proficuo possibile.
In questa ottica, analogamente, l’obbligo di sollecita definizione dei procedimenti, tenuto conto dell’ulteriore interesse pubblico ad indirizzare le energie della giurisdizione nel modo più proficuo possibile, in attuazione dell’art. 6 C.e.d.u. e degli artt. 24 e 111 della Costituzione, ben può giustificare l’attivazione dei poteri officiosi in un momento anticipato, ferma restando la possibilità per le parti di controdedurre alla prova così ammessa, in ossequio al principio del contraddittorio; anche la Corte costituzionale ha avuto modo di affermare che il ritardo della risposta di giustizia comporta un pregiudizio particolarmente grave, atteso che le controversie regolate dagli artt. 409 cod. proc. civ. e seguenti hanno spesso ad oggetto situazioni sostanziali di rilievo costituzionale in quanto attinenti alla dignità del lavoro.
Anche la Corte di cassazione a sovente sottolineato lo strettissimo collegamento tra poteri officiosi del giudice e la necessità di assicurare un'effettiva tutela del diritto di difesa di cui all'art. 24 Cost., nell'ambito del rispetto dei principi del giusto processo di cui all'art. 111, secondo comma, Cost. e in coerenza con l'art. 6 CEDU.
4. La prova illegittima.
Venendo ai limiti connessi alla eventuale illiceità della prova, gli stessi non hanno specifica rilevanza perché se prova c.d. illecita, ad esempio perché si tratta di documenti acquisiti dalla parte in violazione di norma di legge, o non è mai acquisibile o lo è sempre per cui il problema non muta in relazione ai poteri officiosi del giudice.
Quanto alla prova acquisita ex art. 421 c.p.c. in violazione delle regole che disciplinano la sua acquisizione (c.d. prove costituende) deve osservarsi che la violazione delle regole sulla capacità a testimoniare è già disciplinata: in tal caso le dichiarazioni delle persone comunque chiamate a deporre valgano come interrogatorio libero; la norma prevede dunque che una prova tipizzata, se assunta in violazione delle regole che la governano, possa assumere un valore diverso: si tratta di una applicazione del principio di conservazione degli atti giuridici, espresso, in subiecta materia, dall’art. 159, comma 3, c.p.c.. Altra estrinsecazione di tale principio è contenuta negli artt. 2733 e 2738 c.c.: confessione e giuramento decisorio, se resi da alcuni soltanto dei litisconsorti, sono liberamente apprezzati dal giudice.
Dunque il superamento dei limiti della prova non ne determina necessariamente la sua invalidità: i principi che governano le nullità consentono, ove possibile, di riconoscere alla stessa il valore legale tipico di altro tipo di prova.
Di contro, ove il mezzo istruttorio non sia legalmente disciplinato, problemi di nullità della acquisizione della prova si correlano solo alla eventuale sussistenza di un obbligo di applicazione analogica della disciplina della prova tipica più simile e comunque di salvaguardia del contraddittorio.
In relazione alla prova testimoniale si è affermato che l'art. 421 cod. proc. civ., quando consente al giudice di ammettere mezzi di prova fuori dei limiti stabiliti dal codice civile, si riferisce ai limiti fissati da detto codice alla prova testimoniale in via generale negli artt. 2721, 2722 e 2723 cod. civ., e non , invece, a quelli stabiliti dall'ordinamento per determinati e specifici atti in ordine alla forma, sia "ad substantiam" che "ad probationem".
Il principio convince in relazione alle ipotesi di forma scritta ad substantiam, perché in sua assenza il negozio è inesistente mancando di un requisito essenziale e dunque i limiti di inammissibilità della prova testimoniale sono dettati da ragioni di ordine pubblico. Per ciò che concerne la forma scritta “ad probationem”, ove il giudice l’ammetta d’ufficio, senza opposizione delle parti, essa è utilizzabile perché si tratta di una ipotesi di nullità relativa ex art. 156 c.p.c., da rilevarsi ad opera della parte e nel rispetto dei termini previsti dall’art. 157 comma 2 c.p.c.: le mancate eccezioni di inammissibilità della prova per testi e di nullità della prova per testi comunque assunta, determinano la sanatoria della nullità non rilevata .

5. Considerazioni.
Alla luce di quanto detto è chiaro che il doveroso esercizio del potere officioso, siccome idoneo a modificare l’equilibrio tra le parti, richiede un giudice preparato, attento conoscitore, sin da subito, della controversia, in specie ove intenda utilizzare detto potere in via anticipata, che tenga conto che il potere trova la sua ratio normativa nella struttura del rito e negli interessi coinvolti ma che deve sempre essere esercitato, alla bisogna, in favore di entrambe le parti, che sappia spiegare le ragioni dell’esercizio ed il momento dell’esercizio e non venga meno a detti obblighi: solo da ciò deriva la autorevolezza nell’esercizio della funzione giurisdizionale che fa sì che le parti si fidino di lui. Quando non vi è fiducia il legislatore trova spazi di intervento con disposizioni che, invero, rischiano di divenire pericolose nella misura in cui prevedono controlli all’esercizio della funzione giurisdizionali ancorate a parametri scarsamente comprensibili: si pensi all’art. 144-quinquies disp. att. c.p.c., rubricato “Controversie in materia di licenziamento”, che: Il presidente di sezione e il dirigente dell'ufficio giudiziario favoriscono e verificano la trattazione prioritaria dei procedimenti di licenziamento mediante estrazioni statistiche trimestrali che consentono di valutare la durata media di tali processi in confronto con la durata degli altri processi in materia di lavoro. Tre mesi sono davvero pochi e in tale spazio temporale ben possono essere decisi in prima udienza processi in materia di lavoro che non richiedono istruttoria.

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