TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

L’introduzione del processo del lavoro fu certamente il frutto di una stagione di conquiste di diritti che aveva visto il Sindacato protagonista di battaglie storiche per la tutela e il progresso delle lavoratrici e dei lavoratori. Erano gli anni successivi sia agli “autunni caldi” del 1968 e del 1969 sia alla promulgazione dello Statuto dei lavoratori del 1970, una legge riformista, quest’ultima, fortemente voluta da due storici rappresentanti del mondo laico e socialista, Giacomo Brodolini e Gino Giugni. Dal punto di vista istituzionale, il processo del lavoro fu il naturale corollario di quel percorso e si inserì proprio in quel contesto, come un’innovazione radicale destinata a far discutere.
Quella fase determinò un cambiamento profondo dei rapporti di forza tra la classe imprenditoriale e il mondo del lavoro. C’era la diffusa consapevolezza che per rendere duraturo il percorso di sviluppo e di crescita generatosi negli anni Sessanta fosse indispensabile determinare, nei luoghi di lavoro, una redistribuzione economica, ma anche di “poteri”, per il tramite di una politica contrattuale “aggressiva”. Fu certamente una stagione conflittuale e il processo del lavoro, in qualche misura, contribuì a ridurre gli enormi squilibri tra le parti in causa.
Tuttavia, all’epoca, l’introduzione di questa nuova garanzia di tipo giurisdizionale non fu accolta sempre e da tutti con entusiastici consensi. Alcuni ritenevano che, in qualche misura, il ricorso ai mezzi giudiziari potesse porsi in alternativa alla lotta sindacale. La replica a questa impostazione la si può leggere in un libro del 1976, edito dalla Uil, “Lavoratori e sindacati nel processo”, a firma di Paride Bertozzi e Piero Sambucini, due studiosi riformisti ed esperti della materia: “….nutrire eccessiva diffidenza verso la tutela giurisdizionale…può, in certa misura, addirittura diventare passiva rinuncia all’utilizzo degli strumenti normativi che le lotte sindacali hanno consentito di conquistare a garanzia di diritti ed interessi essenziali del mondo del lavoro”. Ci si trovava, dunque, di fronte ad una realtà che non poteva essere sottovalutata né tantomeno ignorata, soprattutto in quei casi in cui il rispetto della legge da parte dei datori di lavoro era una condizione per assicurare la piena soddisfazione di quegli stessi diritti. In certi casi, lo strumento processuale si configurava, soprattutto in quel contesto, come il mezzo più semplice “per obbligare le controparti - così si esprimevano i due autori - ad adeguarsi ai comportamenti loro imposti dalle norme, anche considerando che la mobilitazione e la lotta dei lavoratori non può essere inflazionata ricorrendo a scioperi ogni volta che venga violato un diritto di un lavoratore in un luogo di lavoro”.
La reintegrazione giudiziale dei diritti divenne una realtà importante a supporto di tante norme varate in quel periodo a tutela della classe lavoratrice, a cominciare dal famoso articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Articolo, peraltro, avversato nei recenti anni col pretesto che una più marcata liberalizzazione avrebbe aperto la porta a tanti imprenditori, pronti a generare occupazione se fosse stata rimossa quella disciplina. Ma così, come purtroppo era prevedibile, non è stato.
Tornando agli anni Settanta e, quindi, alla fase immediatamente successiva all’entrata in vigore della legge sulla riforma del processo del lavoro, a sottolineare l’importanza che l’allora Federazione Cgil, Cisl, Uil diede al provvedimento, fu deciso di dare vita a una serie di iniziative per la formazione giuridica dei quadri sindacali. L’obiettivo era quello di creare dei veri e propri tecnici del diritto che fossero in grado di affiancarsi ai rappresentanti della scienza giuridica ufficiale. Gli uffici vertenze, da un lato, e l’implementazione dell’attività di tutela legale esercitata dal Patronato, dall’altro, sono la testimonianza di questo impegno che, oggi, si concretizza anche nella creazione di vere e proprie Consulte legali.
Il ricorso al processo del lavoro, però, resta l’ultima spiaggia alla quale approdare per ottenere la difesa o l’applicazione di un diritto, in special modo di carattere individuale. Le tutele e i diritti collettivi, infatti, vanno esercitati, nell’ottica sindacale, secondo logiche rivendicative che hanno come strumenti privilegiati, la contrattazione e la mobilitazione delle lavoratrici e dei lavoratori. Questo rende l’azione sindacale imprescindibile, in un contesto in cui la contrapposizione degli interessi tra il mondo dell’economia finanziaria e del liberismo senza regole, da un lato, e il mondo del lavoro, dall’altra, si è fatta sempre più marcata. L’idea del profitto a tutti i costi ha generato storture, ingiustizie, diseguaglianze a cui solo la forza e la determinazione dell’unità del Sindacato e dei lavoratori possono porre rimedio.
In certi ambiti, invece, per la difesa e l’affermazione dei diritti soggettivi, la tutela giurisdizionale, anche al di là dello specifico processo del lavoro, può acquisire un importante valore aggiunto. È il caso delle vertenze in materia di salute e sicurezza sul lavoro. La Uil ha espresso da tempo la necessità di inasprire le pene per coloro che, contravvenendo alle norme in materia, causano infortuni mortali, ma ha anche sottolineato l’opportunità di definire la fattispecie di “omicidio da lavoro”. Ad oggi, di ciò non c’è traccia. Anzi, la riforma Cartabia ha peggiorato la situazione perché, prevedendo la dilazione dei tempi per l’appello, di fatto finisce per favorire la prescrizione di questo specifico reato.
Lo strumento giurisdizionale, insomma, a qualunque livello esso venga agito, può essere di supporto all’attività esercitata dal Sindacato, che deve perciò rivendicarne anche il miglioramento della sua efficacia. Questo, peraltro, vale pure per gestire la contrapposizione che, talvolta, sembra emergere tra legislazione e contrattazione, nella consapevolezza che, in determinate circostanze, la prima può essere a sostegno, ma non in sostituzione della seconda. È il caso, ad esempio, del salario minimo: una legge su questo tema sarebbe efficace solo se un tale istituto venisse a corrispondere con i minimi contrattuali dei contratti sottoscritti delle Organizzazioni sindacali più rappresentative. Analogo ragionamento vale per la rappresentanza e rappresentatività: un’eventuale legge dovrebbe solo recepire accordi sottoscritti dalle parti sociali.
L’autonomia del Sindacato, nell’accezione più ampia del termine, è un valore oggettivo e una garanzia di democrazia. Alcune delle sue conquiste possono essere valorizzate dalla legislazione corrente, altre possono essere consolidate dalla tutela giurisdizionale. È con questo spirito che i 50 anni del processo del lavoro possono essere celebrati confermando un giudizio sostanzialmente positivo su questa esperienza che ha visto il Sindacato, come sempre, protagonista nella conquista e nella difesa dei diritti e delle tutela, nella lotta alle diseguaglianze, oltreché nelle proposte di crescita e sviluppo del Paese.

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