TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1. - PREMESSA. Il 1973 fu l’anno della svolta. Finalmente l’oralità entrava a pieno titolo nel rito del lavoro. Dopo la positiva esperienza che - a far tempo dal 1970 - con l’entrata in vigore dello Statuto dei Lavoratori, introduceva di fatto l’oralità nei procedimenti ex art. 700 cod. proc. civ. e 28 St. Lav. che quotidianamente venivano discussi nelle aule giudiziarie, ora l’oralità non era più un mito.
A fine dicembre 1973, migliaia e migliaia di cause intasavano (con il ricordo delle veline, della carta carbone, e del pesante ticchettio delle Olivetti) di comparse, memorie, conclusionali e repliche gli Studi professionali e gli Uffici delle Preture.
Vennero istituite “Sezioni stralcio”: si resettò il passato e si incominciò con il “nuovo”.
A ben vedere, tuttavia, oralità, concentrazione e immediatezza hanno da sempre rappresentato il trinomio caratteristico del processo del lavoro.
L’oralità è una modalità espressiva del discorso umano, ma in quanto tale non viene qui presa in considerazione. Nel processo l’oralità rappresenta la forma degli atti e come tale non può che essere affrontata avendo riguardo al raggiungimento del suo scopo. Ne consegue, dunque, che il giudizio dell’interprete sulla coerenza ed efficacia delle norme di rito in materia di controversie individuali di lavoro non può limitarsi a misurare lo spazio assicurato dal Legislatore alla discussione orale della causa, bensì deve pesare le ripercussioni che la trattazione verbale è idonea a sortire nel processo.
Così, un ampio ricorso alla discussione orale, priva però di qualsiasi preciso scopo processuale, svaluta la medesima da “forma” a mera “formalità”. Diversamente, anche un limitato spazio rituale assegnato all’oralità, ma connotato da ben determinate funzioni deduttive, può assicurare al processo quegli essenziali caratteri di concentrazione e immediatezza voluti dal Legislatore e dalla pratica giudiziaria.
Nei paragrafi che seguono tenterò di saggiare il differente peso assegnato all’oralità nel rito del lavoro prima e successivamente alle innovazioni introdotte dalla Riforma Cartabia, anticipando sin d’ora che – pur rimanendo formalmente eguale spazio per la dimensione orale del rito – la stessa ne ha pericolosamente alleggerito la funzione, rendendola più formalità che forma.
2. – FORMA ORALITÀ E ORATORIA. Va qui ricordato che ogni attività umana contempla scelte espressive cariche di ripercussioni per chi voglia comunicare con il linguaggio, sia esso giuridico o meno. Come insegnano gli studiosi della semiotica, entrambe le dimensioni di significato e significante concorrono a comporre la portata delle parole, laddove il significato appartiene alla dimensione contenutistica e il significante al piano delle modalità di espressione. Tanto, a dimostrazione di quanto già teorizzato da Martin Heidegger, per il quale il linguaggio nel discorso non è rappresentato dal mero significare, ma da un complessivo indicare, far apparire, dischiudere il mondo in ogni sua dimensione, ivi compresa quella del veicolo espressivo .
La dimensione comunicativa del linguaggio processuale non sfugge a dette considerazioni, assumendo nel procedere degli atti di causa, grande influenza non solo l’argomentazione o la deduzione giuridica in sé, bensì anche la forma espositiva che è chiamata a veicolare la prima e che - non a caso – lo stesso art. 121 cod. proc. civ. lega al raggiungimento dello scopo dell’atto processuale.
Nel rito del lavoro la forma di espressione delle deduzioni e argomentazioni delle parti viene identificata per tradizione storica – prim’anche per espressa scelta del legislatore del ’73 – nell’oralità. Oralità che nella Legge processuale assicura un equo contemperamento fra le esigenze di concentrazione del rito e immediatezza della decisione, da un lato, e quelle di equità del processo ed effettività del contraddittorio, dall’altra. Eppure, tale considerazione di comune esperienza fra gli operatori del Diritto del Lavoro omette di precisare l’antecedente fondamentale del principio di oralità nel rito. Ovverosia cosa si debba intendere quando si parla di “oralità” negli atti.
Si è già anticipato che un uso a-tecnico del termine “oralità”, come modalità espressiva verbale del discorso umano, non può essere presa in considerazione. Volendo, invece, ricostruire la dimensione tecnico-processuale dell’idioma, ritengo condivisibile la definizione teorizzata da Giuseppe Chiovenda. L’oralità, propriamente intesa nel processo, significa prima di tutto assegnare alle parti la facoltà di proporre oralmente nel corso dell’udienza le proprie eccezioni, conclusioni ed istanze, senza necessità di ricorso a forme scritte. Trattasi, per utilizzare le stesse parole dell’autore, della possibilità di servirsi della forma orale per comunicare al Giudice in udienza, direttamente e per la prima volta le proprie deduzioni anche se non siano state precedentemente esposte nelle scritture, le quali assumono una funzione preparatoria . Dunque, si può parlare di forma orale, solo qualora quella forma sia idonea a raggiungere un autonomo scopo nel susseguirsi delle decadenze e preclusioni proprie dell’economia del processo.
Diversamente, in un rito che dovesse assegnare per la valida deduzione alle parti la sola forma scritta, la discussione orale arretra ad una superflua e pedissequa riproposizione delle difese già depositate in forma scritta, che non può che svalutare la predetta dimensione orale del rito in un esercizio di oratoria dei difensori. Oratoria che in detto panorama diviene pura formalità fine a sé stessa, essendo i giochi ormai già chiusi con lo scambio delle difese scritte.
Si può così concludere, dunque, per la necessità nel rito del lavoro della supremazia della forma orale fintanto che la stessa sia strumento di autonoma e rituale deduzione delle difese di parte, risultando in caso contrario recisamente frustato ogni effetto rispetto alle esigenze di concentrazione ed immediatezza proprie da sempre del processo del lavoro.
3. – L’ORALITÀ NELLA LEGGE 11 AGOSTO 1973, N. 533. Chiarita la nozione e la funzione dell’oralità nel rito del lavoro, si rende ora possibile valutare la portata della riforma di cui alla L. 11 agosto 1973, n. 533.
È utile ricordare che la previsione di una specifica trattazione orale per le cause di lavoro non fu affatto un appannaggio della riforma in parola, trova già le sue radici nel R.D. 26 febbraio 1928, n. 471, in materia di procedimenti per la decisione delle controversie individuali di lavoro. Il processo del lavoro sorgeva, infatti, sin dalla sua genesi con precisi caratteri di immediatezza, concentrazione e oralità, mediante il ricorso a stringenti preclusioni in prima udienza, il divieto di rinvii, la riduzione del ricorso alle difese scritte.
Elementi tutti, questi, che mutatis mutandis possono dirsi ancor oggi i principali elementi identificativi del rito del lavoro, (re)introdotti dalla riforma del ’73.
Trattasi di piena introduzione del principio dell’oralità nel rito del lavoro.
Sin dai copiosi e travagliati lavori preparatori di cui alla seduta delle Commissioni riunite Lavoro e Giustizia dell’8 maggio 1969, erano emerse prioritarie le esigenze di vincolare il giudice alla conclusione del processo in due udienze al massimo, nonché le parti alla immediata precisazione nel ricorso introduttivo e nella memoria difensiva degli esatti termini della controversia, indicando tutti i mezzi istruttori e depositando i documenti .
Conformemente alla ratio indentificata dai lavori della Commissione, la traccia evolutiva segnata dalla L. 11 agosto 1973, n. 533, ha visto l’adozione di uno schema processuale nel quale le rigide preclusioni e decadenze previste dal rito in sede di costituzione delle parti fossero all’opposto contemperate dal ruolo di ricerca attiva della verità dei fatti assegnato del Giudice. Il processo del lavoro così disegnato da un lato rispetta, senza eccezione alcuna, il monopolio delle parti in ordine alla proposizione della domanda ed alla allegazione dei fatti, dall'altro è fondato sulla espansione del principio della razionalità e del controllo sociale sulle decisioni del giudice .
Conseguenza di ciò è ancora una volta l’essenzialità del predetto trinomio dell’oralità, concentrazione e immediatezza della trattazione della causa. Infatti, in assenza dei suddetti principi processuali sarebbe assai più macchinoso ed arduo l’esercizio dei poteri di case management assegnato al Magistrato dalla riforma. Caratteristica, quest’ultima, che porta a riconoscere nella trattazione orale in udienza la struttura portante del rito del lavoro, relegando lo scambio degli atti scritti introduttivi del giudizio a mera funzione preparatoria.
Così, definito il thema decidendum per mezzo delle asserzioni cartolari contenute nel ricorso e nella memoria difensiva, la struttura effettiva e concreta dell’udienza di discussione non sarebbe conforme al modello legale delineato, se non fosse trattata in forma orale con diritto alla formazione del relativo processo verbale di udienza e piena facoltà per le parti (e per ciò di competenza per il Giudice) di intervenire sull’iter processuale ivi ponendo in essere autonome produzioni, eccezioni, deduzioni, istanze e domande. La formazione per così dire “collegiale” del procedere della controversia, assicurata attraverso un contraddittorio orale e contestuale fra le parti, mediato ed integrato anche officiosamente dal Magistrato, si palesa – invero – come unica soluzione idonea a bilanciare le esigenze di concentrazione del rito e immediatezza della decisione con i predetti canoni costituzionali del giusto processo e dell’effettività del contraddittorio.
Trattasi con tutta evidenza di un delicato giuoco di equilibri. Certamente lo scambio di note o memorie scritte potrebbe assicurare la medesima effettività del contraddittorio fra le parti e l’equità delle possibilità difensive e, altrettanto indubbiamente, l’esercizio da parte del Giudice dei propri poteri officiosi al di fuori della contestualità dell’udienza potrebbe consentire un ancor più celere definizione della lite. Eppure, tali soluzioni non colgono nel segno una volta che si accolga quella prospettiva pluralista propria del processo del lavoro che lo fece sin da subito accogliere come la Legge [che] segna la conquista di un diritto inseguito vanamente per tanti anni: quello di una giustizia «vera», rapida ed efficace per tutti i lavoratori. Si tratta di una conquista di civiltà che costituisce anche una dei primi tasselli di quel grande mosaico di riforme «ugualitarie» che debbono tendere ad una radicale trasformazione delle condizioni di vita, di cultura, di potere nella società italiana e alla eliminazione dei privilegi fra tutti i cittadini .
4. – L’ (A)ORALITÀ NELLA “RIFORMA CARTABIA”. A quasi cinquant’anni dall’entrata in vigore del rito del lavoro, è ora intervenuta la recente riforma di cui al D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 149.
Molte le novità introdotte da questo Decreto e altrettante le esigenze sociali e giuridiche che hanno giustificato un intervento tanto trasversale del Legislatore.
Limitando la trattazione, per quanto di ragione, occorre evidenziare che sin dai primi lavori preparatori della riforma, avviati nel 2018 nel corso della XVIII legislatura, fu prioritario ridisegnare la struttura del Codice di rito al fine di assicurare la ragionevole durata del processo di cui all’art. 6 Carta Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), da anni motivo di disagio sociale ed economico per il Paese e di condanna da parte della Corte EDU.
Il fine non può essere certamente criticato giacché – secondo le stime dell’European Commission for the Efficiency of Justice – in Italia le controversie che arrivino sino alla definizione avanti alla Corte di Cassazione presentano una durata media di 8 anni circa . Tale dato si discosta drammaticamente dai tempi processuali dei restanti paesi dell’Europa occidentale, ove la durata delle medesime controversie si attesta intorno a 3 anni e 4 mesi in Francia, 2 anni e 8 mesi in Spagna e 2 anni e 2 mesi in Germania . A tale primo dato si accompagna il rilevante numero di cause civili pendenti sul territorio nazionali, che, a fine 2018, si attestava a 3.300.000 circa con un incremento annuale in primo grado pari a 2,57 ogni 100.000 abitanti. Quest’ultimo valore è, in termini relativi e secondo le stime CEPEJ, superiore del 71% al dato francese, del 157% a quello spagnolo e del 406% a quello tedesco .
Per fare fronte a tale situazione, il Legislatore ha speso negli ultimi anni grandi energie per realizzare numerose riforme esplicitamente giustificate dall’esigenza strategica per il Paese di una pronta e stabile riduzione del carico di lavoro degli Uffici Giudiziari. Ciò nonostante, la strategia intrapresa dal Legislatore è stata costantemente costituita da interventi diretti e spicci, rivolti ad assicurare una immediata riduzione delle cause pendenti, senza attenzione alcuna né a meccanismi di deflazione della lite ab origine, né tantomeno a meccanismi indiretti che potessero giovare alla causa. Si tratta di soluzioni indubbiamente seducenti per chi abbia fretta di dare immediato ossigeno alla Magistratura, ma purtroppo altrettanto vane per chi ambisca a risolvere il problema in radice.
Anche il rito del lavoro non è – purtroppo – sfuggito a tale dinamica comune all’intera riforma.
Sotto questo profilo, va posta attenzione sull’introduzione nel Codice di rito nel Libro I, Titolo IV rubricato “Degli atti processuali”, del nuovo art. 127 ter cod. proc. civ.. La norma prevede che l’udienza, anche se precedentemente fissata, possa essere sostituita dal deposito di note scritte, contenenti le sole istanze e conclusioni, se non richiede la presenza di soggetti diversi dai difensori, dalle parti, dal pubblico ministero e dagli ausiliari del giudice. L’udienza potrà avvenire in forma cartolare sia su iniziativa del Magistrato, sia su istanza congiunta di tutte le parti costituite .
Lo strumento non rappresenta certo una novità, essendo stato ampiamente collaudato nella recente prassi processuale contestuale e successiva all’emergenza sanitaria per la pandemia da Covid-19. Rimane, tuttavia, una scelta di politica legislativa tutt’altro che scontata stabilizzare tale strumento emergenziale, inserendo lo stesso fra le modalità di trattazione dell’udienza.
Sono chiare le funzioni di celerità e flessibilità nella calendarizzazione degli incombenti giudiziari che l’art. 127 ter cod. proc. civ. vorrebbe assicurare al processo. Ma così è avvenuto – per la prima volta nel nostro processo del lavoro – un aperto dietrofront normativo a favore dell’approccio cartolare nella disciplina dell’udienza. Il tutto in frontale contrasto con il principio di oralità che, come visto, dovrebbe e deve connotare la trattazione della causa . La disposizione, a differenza di quanto potrebbe opinarsi per il rito civile ordinario, mal si concilia con le peculiarità ed i delicati equilibri che caratterizzano per specialità il processo del lavoro.
Infatti, come è già stato fatto notare, la trattazione scritta della causa da un lato esclude l’oralità, sacrificando l’immediatezza e la concentrazione e, dall’altro consente il libero contraddittorio delle parti in condizioni di parità . È, tuttavia, fondamentale comprendere che queste conclusioni non sono il frutto di una particolare nostalgia dei giuslavoristi per la dimensione orale del processo. Al contrario per tutte le ragioni di stretta tecnica giuridica sopra meglio espresse, la forma orale dell’udienza ha radici di rango costituzionale alla stregua dei principi di cui all’art. 111 Cost.. Per rendersi conto di ciò, basti pensare al ruolo che ha la dimensione contestuale e dialettica della trattazione per lo svolgimento del tentativo obbligatorio di conciliazione, per la discussione sulle istanze istruttorie anche ai sensi dell’art. 421 cod. proc. civ., per la definizione in prima udienza del thema probandum o delle questioni preliminari in rito e così si potrebbe continuare nell’elencazione.
È stato fatto rilevare che la trattazione orale non rappresenta l’unica via per determinare un adeguato contraddittorio fra le parti , ma tale argomentazione non tiene conto del complesso delle esigenze di contestualità, di concentrazione, immediatezza ed effettività del contradditorio che connotano il processo del lavoro. In tale particolare contesto, la modalità cartolare per via della sua inevitabile asincronia nelle modalità di disputa e replica fra le ragioni delle parti non permette un contemporaneo soddisfacimento di entrambe le esigenze di immediatezza e giusto processo, costringendo il legislatore od ancor peggio la discrezionalità degli attori all’incresciosa scelta del “male minore”.
Inoltre, va soggiunto che l’art. 127-ter cod. proc. civ. ha operato un’ulteriore innovazione, forse di minor clamore, ma di capitale portata. Sino all’entrata in vigore della disposizione di cui trattasi – e, si badi, anche durante il ricorso emergenziale alle note di trattazione scritta – l’atto idoneo per la legge processuale a produrre gli effetti della discussione della causa, ancorché in via cartolare, rimaneva pur sempre il verbale d’udienza. Udienza che non veniva sostituita, bensì solo svolta con l’ausilio di note scritte, mantenendo l’esclusiva idoneità avanti alla legge processuale della forma orale a raggiungere gli scopi processuali perseguiti dalle parti mediante la partecipazione alla verbalizzazione. Ora, invece, a norma dell’art. 127-ter cod. proc. civ. l’udienza non viene più svolta mediante lo scambio di note scritte, bensì sostituita dai predetti atti in forma cartolare. Dunque, diversamente da quanto avvenuto per la disciplina emergenziale, l’atto produttivo degli effetti processuali sarà direttamente la nota scritta e non più la verbalizzazione d’udienza, che non verrà più formata, giungendosi direttamente al provvedimento giudiziale. L’innovazione è di enorme portata, in quanto introduce nel giudizio una nuova forma degli atti cartolare ed alternativa a quella sin ora esistente ed orale per la valida proposizione di autonome produzioni, eccezioni, deduzioni, istanze e domande, senza dover ricorrere alla verbalizzazione.
Ricordando Chiovenda, si deve constatare che la norma sopra richiamata ha trasformato l’oralità da forma a formalità del rito del lavoro. Infatti, in un rito ove la valida deduzione dei fatti/difese viene consentita alle parti per la sola forma scritta, la discussione orale arretra a quel superfluo esercizio di retorica e pedissequa riproposizione delle difese già depositate in via cartolare, essendo i giochi ormai già chiusi con lo scambio delle note. Il Magistrato – nel nuovo panorama disegnato dalla riforma – non potrà che tenere conto per il proprio convincimento delle difese scritte. L’esperienza pratica insegna che le doti assertive dell’uno o dell’altro difensore – ancorché astrattamente suscettibili di avere un peso sulla decisione del Giudicante – resteranno vox clamans ...
Il tutto in spregio allo spirito della riforma del ’73.
5. – “SUGGESTIONI” PER UN DIRITTO VIVENTE GARANTE DELL’ORALITÀ. Concluderei la trattazione dando spazio anche ad un locus construens, così da offrire spunti che possano indirizzare il diritto vivente a soluzioni interpretative che salvino l’oralità nel processo del lavoro anche a fronte di sfortunate scelte di politica legislativa.
A ben vedere, nell’attuale quadro normativo gli strumenti per mantenere una dimensione orale del processo del lavoro già sono presenti laddove lo stesso art. 127-ter cod. proc. civ. prevede per la parte la facoltà di presentare opposizione alla trattazione scritta dell’udienza. Certamente tale facoltà non può essere considerata risolutiva rispetto alle molte e pregnanti criticità sopra evidenziate, ma come l’esperienza insegna la fortuna degli istituti processuali è nelle mani delle Parti e dei Magistrati. Se ben amministrata l’ampia autonomia lasciata alle Parti dalla riforma, potrebbe portare ad un uso oculato e virtuoso della dimensione cartolare del processo.
L’art. 127-ter cod. proc. civ. non può superare la portata dei principi generali dell’ordinamento di cui agli artt. 108, 111 Cost., 101 e 121 cod. proc. civ., rimettendo quindi nelle mani degli operatori del diritto argomentazioni valide a riportare il ricorso alle note di trattazione scritta all’interno dell’originaria cornice applicativa sin ora sperimentata: così interpretandosi la novella legislativa per mezzo delle norme di legge previgenti conformemente al dettato dell’art. 12 Preleggi ed al ruolo che ha l’attività interpretativa dei precedenti giurisprudenziali nella definizione del diritto nazionale. Potrebbe così prendere avvio la silenziosa catena che parte dagli atti degli avvocati, per giungere alle sentenze, sino alle note ed ai commenti della dottrina e, infine, all’eventuale positivo intervento riformatore del Legislatore.