TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1. Il contesto normativo, giurisprudenziale e dottrinale (derivante, in particolare, da una ripresa, nella metà degli anni ’60, degli studi sull’opera del Chiovenda), nel quale la L.533/1973 ha affondato le proprie radici ed è maturata
Un’analisi critica di quali siano stati i principali istituti che hanno caratterizzato il rito del lavoro, di come abbiano trovato applicazione nella prassi giudiziaria, di quanto possano considerarsi ancora oggi vitali ed eventualmente se, quanto e come possano essere reinterpretati, integrati, modificati, non può prescindere, a mio giudizio, dal ricordo di quale fosse, negli anni precedenti la riforma del 1973, ed anzi ancor prima dell’entrata in vigore della L.300/1970, la situazione della giustizia del lavoro in Italia.
1.1. La L.604/1966 e la sua forza espansiva quale strumento per ottenere l’accertamento, incidenter tantum, da parte del Pretore, di qualunque situazione/rapporto giuridico costituente il presupposto necessario per la configurabilità di un licenziamento
Ho fatto riferimento agli anni precedenti al 1973/1970, in quanto, a mio giudizio, è già con la L.604/1966 sui licenziamenti individuali che prende in qualche modo avvio quella che sarà poi la riforma del processo del lavoro, e ciò per due ragioni: una, di diritto sostanziale, l’altra, di ordine processuale.
1.1.1. Quanto alla prima ragione, è di assoluta evidenza che, in un regime di libera recedibilità e, quindi, in assenza di qualunque tutela avverso il licenziamento, che può avvenire senza la necessità che esista/venga indicata una ragione che lo giustifichi, non è pensabile che il lavoratore, in costanza del rapporto di lavoro, possa rivolgersi al giudice per chiedere la tutela di propri diritti dei quali sostiene la lesione.
E’, quindi, solo con la legge sulla giusta causa – soprattutto dopo l’introduzione dell’art.18 L.300/1970 - che sono divenuti giustiziabili diritti che, in precedenza, in costanza di rapporto di lavoro, di fatto non lo erano.
1.1.2. Per quanto riguarda la ragione processuale, la stessa è ravvisabile nel fatto che l’attribuzione al Pretore della cognizione a conoscere la materia dei licenziamenti si è rivelata, senza che nemmeno lo stesso legislatore ne fosse consapevole, un vero e proprio cavallo di Troia, che ha consentito - anticipando, così, in parte la riforma del 1973 - di portare alla cognizione di questo magistrato, secondo la semplice procedura prevista dalle norme all’epoca vigenti per il procedimento davanti al Pretore (artt.311-318 c.p.c.), non solo detta materia, ma anche tutte le questioni pregiudiziali, quali quelle relative alla natura del rapporto, se autonomo o subordinato; alla validità o meno del termine apposto al contratto; alla configurabilità di un appalto quale appalto di mera manodopera e, conseguentemente, alla eventuale titolarità del rapporto di lavoro in capo al committente, etc.
Chi non ha vissuto quegli anni, non può comprendere a pieno la portata veramente rivoluzionaria, sotto questo profilo, di questa legge, soprattutto dopo, come già detto, l’introduzione dell’art.18 L.300/1970.
Per scendere nel concreto, voglio ricordare, solo come esempio, quella che fu, nel 1971, una grande vertenza che, grazie alla L.604/1966, il Sindacato fu in grado di aprire con la Rai sui contratti a termine, e che portò alla stabilizzazione del rapporto di lavoro di centinaia e centinaia di lavoratori.
All’epoca, per quanto riguarda i contratti a termine, era in vigore la L.230/1962, che prevedeva una disciplina molto rigida in ordine alle causali che potevano giustificare l’apposizione del termine. La Rai, però – al pari di molte altre aziende - aggirava detta normativa con un articolato e programmato sistema di assunzioni a rotazione dei lavoratori da un apposito bacino, con contratti a termine, che, quantunque singolarmente considerati apparissero pienamente legittimi, in effetti erano rivolti a coprire stabili posizioni di lavoro, e, quindi, erano in frode alla legge.
Ciononostante, nessun lavoratore agiva in giudizio per fare accertare la nullità del termine, in quanto si sarebbe trattato di causa di valore indeterminabile , come tale, di competenza del Tribunale, e, quindi, costosa e di durata estremamente lunga (anni). La sentenza, inoltre, non sarebbe stata ex lege munita di efficacia esecutiva ma si sarebbe dovuto attendere il passaggio in giudicato della stessa. Nel frattempo, il datore di lavoro non avrebbe più stipulato alcun contratto di lavoro con lo stesso lavoratore, etc..
In che modo la L.604/1966 consentì, invece, di agire in giudizio dinanzi al Pretore per far accertare la nullità del termine ed ottenere la condanna del datore di lavoro a ripristinare la funzionalità del rapporto e al risarcimento dei danni?
Ovviamente, non si poteva sostenere l’equiparabilità della scadenza del termine al licenziamento, ma la nullità del termine sì. E soprattutto il fatto che la nullità opera di diritto e che, di conseguenza, la sentenza del giudice che la accerta è meramente dichiarativa di una situazione che, nel mondo del diritto, preesiste alla decisione del giudice.
Muovendo da questo rilievo, demmo ai lavoratori l’indicazione di presentarsi in azienda il giorno successivo alla scadenza del termine, e di dire all’(allibito) addetto alla portineria, leggendogli un testo che avevamo predisposto, che il termine era nullo e che, pertanto, intendevano proseguire nel rapporto di lavoro.
Naturalmente, l’addetto alla portineria, chieste indicazioni all’Ufficio del Personale, vietava l’accesso ai lavoratori, dicendo loro che l’azienda gli aveva riferito che il rapporto di lavoro era cessato definitivamente.
A questo punto, i lavoratori impugnavano il rifiuto dell’azienda di riammetterli in servizio, deducendo che lo stesso configurava un vero e proprio licenziamento che non solo era privo di giusta causa/giustificato motivo, ma che doveva considerarsi ancor prima inefficace perché verbale.
La gran parte dei Pretori della Pretura di Roma – le cui sentenze sono state poi quasi tutte confermate nei gradi successivi - accolse le domande dei lavoratori, dichiarando l’inefficacia del licenziamento e disponendo la reintegra nel posto di lavoro con le conseguenze di cui all’art.18 L.300/1970.
Solo due pretori, accogliendo le difese della Rai, si dichiararono incompetenti.
La Cassazione, però, adita da noi con istanza di regolamento di competenza, dette ragione ai lavoratori.
Ricordo le sentenze n.2777/1972 e n.38/1973, ed in particolare la seconda, in quanto quella fu la prima causa che feci in cassazione (per tale procedimento non era necessario essere iscritti all’albo speciale). Io ero molto emozionato perché la Rai era difesa da Salvatore Satta, che era stato, solo pochi anni prima, il mio professore di procedura civile all’Università.
1.2. L’art.28 L.300/1970 quale strumento generale di tutela, sempre di fronte al Pretore, di qualunque diritto del lavoratore nel caso di comportamenti antisindacali plurioffensivi
Un’altra norma di fondamentale importanza, che ha anticipato la riforma del 1973, è costituita dall’art.28 L.300/1970, a norma del quale “Qualora il datore di lavoro ponga in essere comportamenti diretti ad impedire o limitare l'esercizio della libertà e della attività sindacale nonché del diritto di sciopero, su ricorso degli organismi locali delle associazioni sindacali nazionali …, il pretore … convocate le parti ed assunte sommarie informazioni, qualora ritenga sussistente la violazione …, ordina al datore di lavoro, con decreto motivato ed immediatamente esecutivo, la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti”.
Con questo speciale procedimento divenne, pertanto, possibile tutelare, di fronte al Pretore, qualunque diritto/situazione giuridica soggettiva attiva del lavoratore che fosse stata lesa dal datore di lavoro per ragioni antisindacali.
Strana la storia di questo articolo. Inizialmente, fu visto con estrema diffidenza dal Partito Comunista, che, temendo che si potesse sostenere che, laddove era possibile chiedere la tutela ex art.28 cit., non potevano essere esercitate forme di autotutela sindacale (ed in particolare il diritto di sciopero), ne chiese lo stralcio. Tale richiesta venne ritirata solo a seguito delle assicurazioni date dal Governo in ordine al fatto che non era in discussione la coesistenza dei due strumenti di etero e autotutela.
Una volta promulgata la legge, le diffidenze sorsero, invece, in seno alla Confindustria, la quale sostenne, con i giuristi a lei vicini - ricordo, a tale proposito, un parere pro veritate della Prof.ssa Maria Luisa Sanseverino (componente del Comitato di Direzione del Massimario di Giurisprudenza del Lavoro, rivista della Confindustria) – che il ricorso ex art.28 L.300/1970 doveva ritenersi proponibile solo per tutelare diritti propri ed esclusivi del Sindacato e non anche del singolo lavoratore.
Era, però, una valutazione prima ancora che errata sul piano giuridico, controproducente su quello economico, posto che è di assoluta evidenza che il danno provocato all’azienda da uno sciopero, in genere, è certamente maggiore di quello che può derivare da un provvedimento del Giudice che annulla un provvedimento disciplinare, un trasferimento, etc.
In un primo momento, l’interpretazione dell’art.28 cit. sostenuta dalla Confindustria fu condivisa da molti Tribunali, tra i quali quello di Roma; la gran parte dei Pretori, invece, era orientata nel senso di ritenere ammissibile l’esperimento di tale azione anche nel caso di comportamenti plurioffensivi.
A tale proposito, ricordo con piacere come la Fiom riuscì ad ottenere il cambiamento della giurisprudenza del Tribunale di Roma.
La Fatme, un’importante azienda romana che occupava, se ben ricordo, più di 1.000 dipendenti, aveva irrogato una sanzione disciplinare conservativa (mi sembra, una multa) a quattro lavoratori attivisti sindacali. A giudizio della Fiom, i provvedimenti disciplinari erano illegittimi in quanto irrogati per ritorsione sindacale. Ritenemmo, però, che non fosse il caso di reagire in autotutela ma di chiedere al Giudice, con un ricorso ex art.28 cit., la rimozione dei provvedimenti.
Il Pretore (il Dott. F. Miani Canevari, che divenne, poi, in Cassazione, Presidente titolare della Sezione Lavoro) accolse il ricorso e annullò i provvedimenti disciplinari. Il suo decreto venne, però, opposto dinanzi al Tribunale dalla Fatme che ribadì, in sede di opposizione, l’improponibilità della domanda.
Il Tribunale di Roma, appena una settimana prima (Presidente era il Dott. Blotta), aveva accolto un’analoga opposizione proposta da un’altra azienda.
La Fiom, che io difendevo, non riteneva proprio giusto perdere la causa sotto questo profilo. Si trattava di trovare il modo e gli argomenti giusti per convincere il Tribunale che non doveva negarci il diritto di azione.
Concordai con Bruno Trentin la discussione che avrei dovuto fare di fronte al Collegio che si articolò essenzialmente, da un lato, nel difendere, a fondo, il diritto di sciopero, dall’altro, nell’illustrare i danni che il suo esercizio poteva provocare alle aziende e all’economia in generale.
A tale proposito, ricordai che l’accordo interconfederale sui licenziamenti individuali - che rimetteva ad uno speciale collegio di conciliazione e arbitrato la valutazione della giustificatezza degli stessi - all’art.1 sottolineava che lo stesso era stato stipulato “nel concorde intento di prevenire i licenziamenti individuali ingiustificati e possibilità di turbamenti in occasione” degli stessi.
Conclusi la discussione dicendo che la Fiom era convinta di avere diritto di agire giudizialmente. Aggiunsi che rimaneva fermo, però, che ove il Tribunale avesse statuito che il Sindacato aveva, invece, solo la possibilità di agire in autotutela, il giorno in cui fosse stata pubblicata la sentenza, gli oltre 1.000 lavoratori della Fatme avrebbero fatto due ore di sciopero. Precisai che detta proclamazione di sciopero veniva fatta in udienza non già per esercitare una indebita pressione sul Tribunale, ma per avere, nei componenti del collegio, dei testimoni qualificati per attestare che lo sciopero era stato proclamato con congruo anticipo.
1.3. La rilettura dell’art.700 c.p.c. quale strumento di tutela di urgenza anche nel caso di inadempimenti contrattuali da parte del datore di lavoro lesivi di diritti incidenti sulla persona del lavoratore
Un altro importante passo verso l’affermazione di quei principi che furono poi consacrati nella riforma del 1973, è ravvisabile nell’elaborazione giurisprudenziale, che si sviluppò, in quegli anni, in ordine alla possibilità di ravvisare un pregiudizio imminente ed irreparabile anche nel caso di inadempimento, da parte del datore di lavoro, di obbligazioni nascenti dal contratto - quali quelle alla giusta retribuzione, allo svolgimento di mansioni corrispondenti all’inquadramento, alla tutela delle condizioni e sicurezza dell’ambiente di lavoro, al non essere trasferiti se non in presenza di giustificate ragioni, etc. - e, conseguentemente, alla possibilità di tutelare con il ricorso d’urgenza ex art.700 c.p.c. i relativi diritti/situazioni giuridiche soggettive attive.
L’orientamento in precedenza prevalente era, invece, nel senso che, salve le ipotesi specificamente previste dal legislatore, l’art.700 c.p.c. era utilizzabile solo nel caso di lesione di diritti assoluti. Nel caso, invece, di lesione di diritti di obbligazione, la tutela prevista era unicamente quella risarcitoria.
La nuova interpretazione dell’art.700 c.p.c. prese le sue mosse dall’insegnamento di Chiovenda. Nel 1965, infatti, vi era stata la ristampa, con la prefazione di Virgilio Andrioli, dei suoi “Principi di diritto processuale civile”, sicché nel dibattito sia tra gli operatori del diritto che in dottrina ripresero forza, tra i capisaldi fondamentali della sua dottrina, i seguenti due principi:
- “il processo deve dare, per quanto è possibile, praticamente a chi ha un diritto tutto quello e proprio quello che egli ha diritto di conseguire” e “ogni modo d’attuazione della legge (ed ogni mezzo esecutivo) che sia praticamente possibile e non sia contrario ad una norma generale o speciale di diritto deve ritenersi ammissibile”;
- la durata del processo non deve andare a danno dell’attore che ha ragione.
In applicazione di questi principi, il ricorso all’art.700 c.p.c. trovò, così, la strada aperta, anzi un’autostrada, ed i Pretori la percorsero.
2. I punti più qualificanti della legge n.533/1973; le concorrenti trasformazioni intervenute nelle politiche del Sindacato e nelle sue strutture in ordine alla contrattazione collettiva ed al contenzioso del lavoro; la monumentale ricerca sistematica diretta da Domenico Napoletano su “Il diritto del lavoro nell’elaborazione giurisprudenziale”; le criticità della legge emerse in sede applicativa
2.1. Alla luce del contesto sopra descritto, appare evidente che la riforma del 1973 ha costituito il naturale e, per così dire, obbligato completamento delle precedenti riforme, attraverso l’introduzione generalizzata, e cioè per qualunque tipologia di controversia di lavoro, di un modello di processo capace di realizzare una giustizia rapida ed efficace, sulla base dei principi di oralità, concentrazione e immediatezza.
Sui profili più importanti di questa riforma, credo che, nei 50 anni che sono trascorsi dalla sua entrata in vigore, tutto ciò che si poteva dire sia già stato detto, per cui non posso aggiungere nulla.
2.2. Ritengo, invece, utile evidenziare che il grande sviluppo che ha avuto il contenzioso del lavoro negli anni successivi all’entrata in vigore della L.533/1973, oltre che alla riforma, sia riconducibile anche alle profonde modifiche che il Sindacato ha apportato alle sue strutture sia per quanto riguarda la contrattazione collettiva che la gestione del contenzioso del lavoro, nonché al rapporto stretto che lo stesso è riuscito a stabilire con molti dei più autorevoli professori di diritto del lavoro delle Università italiane.
Più in particolare, per quanto riguarda la contrattazione collettiva, tra il 1970 e il 1973, la Fiom – e, subito dopo, non appena costituita, la FLM (e, cioè, il Sindacato unitario dei Metalmeccanici Fim-Fiom-Uilm) - è stata la prima organizzazione sindacale in Italia a dotare il proprio Ufficio Sindacale Nazionale (e, cioè, la struttura deputata alla contrattazione collettiva) della componente legale, di un ufficio, cioè, che assisteva il Sindacato nella contrattazione collettiva, affiancandolo nelle trattative e nella stesura del contratto.
Si è trattato di una componente che ho avuto il privilegio di coordinare, della quale facevano parte alcuni dei più prestigiosi professori ed esperti di diritto del lavoro, quali Gino Giugni, Federico Mancini, Tiziano Treu, Luciano Ventura, Antonio Fontana; gli stessi sono stati anche firmatari del Contratto Collettivo dei Metalmeccanici del 1973. Oltre a loro, collaboravano in modo stretto con la FLM molti altri illustri giuristi, tra i quali, Andrea Proto Pisani, Giorgio Ghezzi e Francesco Galgano.
L’inserimento della componente legale in seno all’Ufficio Sindacale Nazionale della FLM ha, altresì, comportato che, una volta stipulato il contratto, venivano date indicazioni a tutte le strutture territoriali in ordine alla sua interpretazione.
In relazione a quanto sopra, vennero costituite anche delle strutture legali territoriali della FLM, attraverso le quali venivano promosse e gestite iniziative legali su tutto il territorio per ottenere l’applicazione del contratto secondo l’interpretazione da noi sostenuta.
Anche questa si rivelò una vera e propria rivoluzione per quanto riguardava il contenzioso del lavoro.
2.3. Per completezza, ritengo giusto ricordare che al formarsi di una giurisprudenza del lavoro sempre più preparata e di altissimo livello, contribuirono non poco l’iniziativa ed il lavoro di molti magistrati che, sempre in quegli anni, fecero un lavoro immenso di ricerca e raccolta sistematica della giurisprudenza del lavoro, dando vita ad un’imponente opera (di ben 23 volumi), pubblicata dalla casa editrice PEM, sotto il titolo “Il diritto del lavoro nell’elaborazione giurisprudenziale”, che ha costituito il punto di riferimento per tutti gli studiosi ed operatori di diritto del lavoro.
La ricerca era diretta da Domenico Napoletano ed alla realizzazione dell’opera contribuirono, tra gli altri, magistrati quali (solo per elencare alcuni di quelli che ho conosciuto personalmente) Sergio Mattone, Giuseppe Ianniruberto, Giacomo De Tommaso, Alessandro Criscuolo, nonché docenti universitari, tra i quali Raffaele De Luca Tamajo e Vincenzo Balletti.
2.4. In linea generale, a ben vedere, sia l’impianto della L.533/1973 che le singole disposizioni in essa contenute non hanno presentato effettive criticità.
Quelle che sono emerse nell’esperienza pratica sono, perlopiù, riconducibili ad una (a mio giudizio errata) interpretazione che della legge hanno dato e continuano a dare alcuni giudici.
In primo luogo, problemi spesso si pongono per il ricorrente alla prima udienza laddove lo stesso è tenuto, in adempimento dell’onere di contestazione di cui all’art.115, comma 1 c.p.c., a prendere posizione, in modo puntuale e specifico, rispetto alle deduzioni in fatto di controparte.
Frequentemente, infatti, si crea un vero e proprio contrasto tra il difensore del ricorrente ed il Giudice, che mal sopporta di dover verbalizzare (in molti casi) pagine e pagine di contestazioni e vorrebbe sintetizzarle con espressioni generiche, che, come tali, rischiano di pregiudicare l’esito della causa nei gradi successivi.
Certo, sarebbe stato molto meglio se la legge avesse previsto espressamente la possibilità per il ricorrente di depositare alla prima udienza una breve memoria o delle deduzioni da considerarsi parte integrante del verbale di udienza, contenenti le sole contestazioni in fatto.
Problemi ancora maggiori si pongono per quanto riguarda l’espletamento della prova testimoniale. Muovendo dall’erroneo presupposto che l’assunzione della prova attraverso la lettura dei capitoli predisposti dalle parti, ai quali il teste deve rispondere, possa avere un effetto suggestivo, inficiando, così, la genuinità e veridicità della deposizione, spesso i Giudici pongono ai testi domande assolutamente generiche. Così, ad esempio, in cause per il riconoscimento di un inquadramento superiore - nell’ambito delle quali, a volte, la formulazione dei capitoli comporta, per l’avvocato, giorni e giorni di lavoro per cogliere, distinguere e precisare gli elementi di fatto che distinguono le mansioni rientrati nell’una ovvero nell’altra qualifica - più volte mi è capitato che il Giudice chiedesse ai testimoni di illustrare quali erano le mansioni svolte dal ricorrente, rifiutandosi, nonostante ogni richiesta, di leggere il capitolo ovvero di formulare con parole sue, ma con riferimento ai fatti specifici indicati nel capitolo stesso, le domande da rivolgere al teste, facendo così dipendere l’esito della causa non già dall’accertamento della veridicità o meno delle circostanze di fatto capitolate, ma dalla maggiore o minore capacità del teste di esprimersi e di essere un “analista di mansioni”.
Ancor peggio, alcuni Giudici, a fronte di testi che riferiscono su circostanze di fatto non dedotte nei capitoli, che possono avere rilievo decisivo ai fini dell’esito della causa, verbalizzano tali deposizioni negando il diritto della parte interessata a far espungere dalla prova tali dichiarazioni o, in alternativa, di avere un termine per articolare prova diretta/contraria. Talora, avendo avanzato una siffatta richiesta, mi hanno guardato come fossi un marziano. Purtroppo, vi sono dei Giudici che non hanno ben chiara la portata e/o il valore del fondamentale principio del contraddittorio.
Sempre per quanto riguarda la tematica della prova, molti Tribunali dimenticano che, già prima della riforma del processo del lavoro, l’art.317 c.p.c. prevedeva, in linea generale, per le cause che si svolgevano davanti al Pretore o al Conciliatore, che il Giudice poteva “disporre d’ufficio la prova testimoniale formulandone i capitoli, quando le parti nella esposizione dei fatti si” erano “riferite a persone che appaiono in grado di conoscere la verità” e che, a sua volta, per quanto riguardava in particolare le “controversie in materia corporativa”, l’art.439 c.p.c. disponeva, con riferimento al procedimento di primo grado, che “il giudice può disporre d’ufficio tutti i mezzi di prova che ritiene opportuni. Può disporre la prova testimoniale anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile”.
Entrata in vigore la L.533/1973, l’art.421 c.p.c., in modo ancora più pregnante, dispone che il Giudice può “disporre d’ufficio in qualsiasi momento l’ammissione di ogni mezzo di prova, anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile, ad eccezione del giuramento decisorio”, superando, così, anche eventuali preclusioni, e ciò al fine di contemperare il principio dispositivo con quello inquisitorio di ricerca della verità materiale, coniugando, così, il Diritto con la Giustizia.
Dal canto loro, le Sezioni Unite hanno ben chiarito, da oltre venti anni, con la sentenza n.761/2002, che “il giudice, ove reputi insufficienti le prove già acquisite, non può limitarsi a fare meccanica applicazione della regola formale di giudizio fondata sull'onere della prova ma ha il potere - dovere di provvedere di ufficio agli atti istruttori sollecitati da tale materiale ed idonei a superare l'incertezza sui fatti costitutivi dei diritti in contestazione, indipendentemente dal verificarsi di preclusioni o decadenze in danno delle parti”.
Ciononostante, ancora oggi, tale disposizione, di frequente, non trova applicazione.
Purtroppo, non trova neppure, di norma, applicazione il disposto di cui all’art.423 c.p.c., secondo il quale “Il giudice, su istanza di parte, in ogni stato del giudizio, dispone con ordinanza il pagamento delle somme non contestate.
Egualmente, in ogni stato del giudizio, il giudice può, su istanza del lavoratore, disporre con ordinanza il pagamento di una somma a titolo provvisorio quando ritenga il diritto accertato e nei limiti della quantità per cui ritiene già raggiunta la prova.
Le ordinanze di cui ai commi precedenti costituiscono titolo esecutivo”.
Tale disposizione ha avuto diffusa applicazione nei primi anni della riforma, ma poi è stata sostanzialmente disattesa/dimenticata, e ciò non è accettabile in quanto si traduce in un comportamento di denegata giustizia. Peraltro, è anche un vero peccato perché si tratta di uno strumento fondamentale che potrebbe indurre le parti a transigere la controversia.
3. La composizione conciliativa della causa secondo equità da parte del Giudice: una lacuna da colmare quanto prima, o in sede interpretativa o con un intervento legislativo
Una delle poche vere carenze della L.533/1973 è, a mio giudizio, quella di non aver previsto, e regolato, la possibilità di attribuire al giudice il potere di comporre la controversia secondo equità.
Ed infatti, la disciplina attuale (l’art.420 c.p.c.), per quanto riguarda l’intervento del giudice ai fini della conciliazione della causa, prevede solamente che lo stesso, interrogate le parti, debba tentare la conciliazione della lite, formulando una proposta transattiva e che “il rifiuto della proposta … del giudice senza giustificato motivo” costituisce “comportamento valutabile dal giudice ai fini del giudizio”.
E’ di assoluta evidenza, però, che - tranne i casi, non certo frequenti, nei quali la causa possa essere decisa, già alla prima udienza, senza necessità di svolgere attività istruttoria (essendo i fatti posti a fondamento della domanda pacifici o, comunque, documentalmente provati, ovvero perché il ricorso appare inammissibile o palesemente infondato) - la proposta che il Giudice può avanzare, escluso che lo stesso sia dotato di poteri divinatori, non può che tradursi in un “dare i numeri” (e ciò, ovviamente, non per sua colpa, posto che egli è obbligato a osservare la legge, ma per l’insipienza del Legislatore).
Perlomeno, così io e, come me, tanti altri avvocati, abbiamo vissuto, nella situazione sopra indicata, un siffatto tipo di proposte che, lungi dal favorire la composizione della lite, non fanno altro che creare sfiducia e rendere più difficoltosa ogni definizione transattiva.
Né un correttivo alla lacuna di cui si è detto può essere offerto dal disposto di cui all’art.114 c.p.c., a norma del quale “il giudice … decide il merito della causa secondo equità, quando esso riguarda diritti indisponibili delle parti, e queste ne fanno concorde richiesta”.
Il problema, infatti, non riguarda il metro che il Giudice deve utilizzare per decidere la causa, bensì il fatto che, nella gran parte dei casi, la causa, più che decisa, dovrebbe essere conciliata.
Ed infatti, come sanno bene tutti coloro che vivono il contenzioso del lavoro, sia come avvocati che come magistrati, quasi mai la ragione e il torto stanno nettamente l’una da una parte, l’altro dall’altra, ma sono profondamente intrecciati tra di loro e frequentemente la distanza tra l’una e l’altro è davvero minima.
Immaginatevi una causa nella quale si discute se il licenziamento sia o meno giustificato, ovvero se un rapporto sia di lavoro autonomo oppure subordinato, etc. In tutti questi casi, anche se, come già detto, la distanza tra la ragione e il torto è minima, al ricorrente spetterà tutto o niente.
In questa situazione, ragionevolezza vorrebbe che le parti transigano la causa, ma quasi sempre ognuna di loro è convinta di avere ragione e gli avvocati difficilmente riescono a convincerle della bontà di una conciliazione. Se l’avvocato insiste, vi è anche il rischio che il cliente dubiti della sua onestà. Entrambe le parti, però, per fortuna, in genere hanno fiducia nel Giudice. Stando così le cose, perché non interpretare l’art.114 c.p.c. nel senso che le parti possono attribuire al Giudice, oltre al potere di decidere la causa secondo equità, anche quello di comporla sempre secondo equità?
Se tale interpretazione non fosse possibile – ma io credo che alla luce dei già ricordati principi enunciati da Chiovenda lo sia - perché non intervenire con un piccolo ritocco legislativo?