TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1. Il problema della pluralità delle fonti
La circostanza che la nostra legislazione antidiscriminatoria sconti un quadro normativo caratterizzato da una decisa pluralità di fonti ha costretto gli operatori del diritto a confrontarsi con un sistema definito, non a torto, poco razionale.
Come si vedrà ampiamente oltre, sono peraltro andate disattese molte delle aspettative di riordino legate alla recente riforma della procedura civile.
Nel tempo sin qui trascorso si è assistito in Italia ad una cross fertilization fra l'ordinamento nazionale e quello sovranazionale; a tale fenomeno hanno partecipato in egual misura le giurisdizioni nazionali e sovranazionali.
Una qualche “incertezza” processuale deriva comunque dal fatto che nel nostro diritto del lavoro il divieto di atti discriminatori è nato ancor prima del processo del lavoro; quindi, lo scorrere del tempo, gli interventi legislativi, la mutata coscienza sociale ed il conseguente adeguamento normativo nonché le varie riforme procedurali degli ultimi cinquanta anni hanno provocato una stratificazione di interventi, con tempi diversi, da fonti diverse e verso direzioni diverse.
È possibile tuttavia individuare un tratto che accomuna questa variegata legislazione: in generale, una discriminazione comporta la radicale nullità dell'atto o del comportamento discriminatorio; da tale nullità e dalla conseguente inefficacia, il legislatore – ove non abbiano sortito effetto le misure di coercizione indiretta, anch'esse variamente predisposte -, fa discendere ulteriori conseguenze: la rimozione degli effetti già compiuti, un risarcimento in favore della vittima, un pagamento di somme di danaro. Fa da sfondo, anch'essa quale caratteristica generale, una agevolazione della vittima sul piano probatorio.
In passato il legislatore, evidentemente conscio di tale frastagliato quadro normativo, ha cercato di intervenire, tentando di ricondurre le procedure antidiscriminatorie ad un unico procedimento. Tuttavia, tale intento non ha avuto esito definitivo, residuando nel nostro sistema forme diverse di interventi processuali, in ragione delle differenti tipologie processuali antidiscriminatorie.
Sempre in generale, inoltre, non sfuggirà che alla base di tutte queste difficoltà vi è innanzitutto un problema definitorio. Pur dovendoci limitare in questa sede alle questioni processuali, non può non essere evidenziato che dal punto di vista sostanziale (e quindi logico, semantico diremmo) le caratteristiche principali necessarie a definire la discriminazione quale atteggiamento nei confronti di un/una lavoratore/trice o di un gruppo di lavoratori restano essenzialmente due: un trattamento particolare, diverso rispetto agli altri lavoratori o gruppi di lavoratori, un'assenza di giustificazione per questo differente trattamento, in caso di discriminazione indiretta.
In altri termini, inquadrare correttamente una tipologia di discriminazione può incidere sullo strumento processuale da adottare: è infatti la forma della discriminazione che assurge a criterio determinante.
2. L'evoluzione normativa:
2.1. L'azione di nullità
La pietra miliare della nostra legislazione antidiscriminatoria è rappresentata dall'art. 15 dello Statuto dei Lavoratori, significativamente contenuto nel titolo II dedicato alla libertà sindacale, il quale disciplina in generale l'azione di nullità “di qualsiasi atto o patto” diretto a “discriminare un lavoratore”. In merito alle caratteristiche di tale discriminazione, si osserva che nel corso del tempo la norma ha subito varie integrazioni e\o modifiche (dapprima con la legge 903/77, poi con il d lgs. 216/2003).
Resta fermo però il valore anche storico di tale previsione normativa, che ha avuto il pregio di codificare il principio di non discriminazione all'interno del rapporto di lavoro e, sotto il profilo collettivo, delle relazioni industriali. Il principio di non discriminazione, dunque, si differenzia dal principio di eguaglianza, in quanto mira a reprimere ipotesi di disparità legate a specifici motivi vietati, e non, invece, a favorire l’applicazione di trattamenti uguali tra i lavoratori.
Sullo sfondo riecheggiano dunque le parole della giurisprudenza: la discriminazione - diversamente dal motivo illecito - opera obiettivamente in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al/alla lavoratore/trice quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro.
Come noto, la fattispecie degli atti oggetto di divieto di discriminazione contenuta nell’art. 15 è strutturata in modo aperto. La disposizione include infatti nel divieto, non solo gli atti specificamente indicati, ossia diretti a subordinare l’assunzione di un/una lavoratore/trice alla sua adesione o mancata adesione a una associazione sindacale, a licenziare o discriminare nell’assegnazione di qualifiche, mansioni, trasferimenti o provvedimenti disciplinari per le stesse ragioni, ma altresì ogni atto o patto in grado di recare comunque pregiudizio ai lavoratori per gli stessi motivi. Tale formula copre dunque qualsiasi atto (anche omissivo, si badi) o provvedimento lesivo degli interessi del/della lavoratore/trice.
Nonostante la formulazione onnicomprensiva della norma, il ricorso da parte del lavoratore/trice alla tutela offerta dalla medesima è stato limitato.
dal momento che l’azione idonea alla fattispecie ha natura di mero accertamento e necessita, per di più, di essere proposta. Appare dunque evidente l’inadeguatezza di un’azione individuale nel reprimere comportamenti ben più sistemici come le discriminazioni. Le parti sindacali non hanno dunque perso occasione di ricorrere al ben più incisivo strumento della repressione delle condotte antisindacali (ex art. 28 SL), ogni qual volta il trattamento discriminatorio fosse fondato su ragioni connesse all’esercizio dei diritti sindacali.
In ogni caso, preme evidenziare come tale rimedio, da molti definito - quasi con distacco - “civilistico”, non manchi di sottrarre rilievo giuridico all’atto o al patto discriminatorio, pur non garantendo di per sé l’estensione del beneficio a favore del/della lavoratore/trice discriminato/a e, ulteriormente, ponendo la questione sull’effettività della tutela processuale.
Questione, quest’ultima, che tutt’oggi si pone per i licenziamenti discriminatori, a seguito dell’introduzione dell’art. 441 quater c.p.c., nonché per reintegrazione del lavoratore, con l’introduzione dell’art. 441 bis c.p.c.
2.2. I trattamenti economici collettivi discriminatori
Con tenore letterale alquanto perentorio, l'art. 16 dello Statuto dei Lavoratori prevede che “è vietata la concessione di trattamenti economici di maggior favore aventi carattere discriminatorio a mente dell'articolo 15”.
La – scarna e risalente nel tempo - casistica giurisprudenziale in materia concerne “premi” corrisposti a lavoratori che non abbiano scioperato o la maggiore retribuzione a coloro che non abbiano partecipato ad un’assemblea.
La norma contiene altresì uno specifico strumento processuale, riconoscendo a chi è discriminato (anche per il tramite di una associazione sindacale che agisce quale mandataria) la possibilità di ricorrere al Giudice del Lavoro per la condanna del datore di lavoro ad una ammenda da versarsi al fondo adeguamento pensioni presso l'INPS.
Anche in questo caso, alla declaratoria di nullità non segue la condanna alla cessazione della condotta oppure la rimozione degli effetti. Si tratta, con ogni evidenza, di una sanzione che assume carattere punitivo, forse anche deterrente, ma nulla di più.
2.3. Il (nuovo) art.28 d. lgs. 150/2011
Il legislatore del D.lgs. 1 settembre 2011 n. 150 (“disposizioni complementari al codice di procedura civile in materia di riduzione e semplificazione dei procedimenti civili di cognizione”), finalizzato, come noto, a ridurre il numero dei riti civili, ha ritenuto di modificare la disciplina processuale delle “controversie in materia di discriminazione”, fino a questo momento sparpagliate tra una serie di provvedimenti emanati tra il 1998 ed il 2006 in attuazione di alcune direttive dell’Unione Europea.
In generale, l'articolo 28 del D.lgs. 150/2011 (in vigore dal 6 ottobre 2011), include(va) le “controversie in materia di discriminazione” tra quelle del Capo III, ovvero quelle “regolate dal rito sommario di cognizione”. In particolare, lo stesso articolo 28 prevede(va) alcune disposizioni del tutto peculiari per la tutela antidiscriminatoria, ricalcanti in gran parte le norme dell'articolo 4 del D.lgs. 9 luglio 2003 n. 216, che, ancora oggi, costituisce il principale punto di riferimento normativo in tema di lotta alla discriminazione in materia di condizioni di lavoro.
Non rientravano dunque nel novero di tali procedure quelle di cui al Capo II del Codice delle Pari Opportunità D.lgs. 198/2006, cioè quelle scaturenti da violazioni dei divieti di discriminazione nell'accesso al lavoro, alla formazione, alla promozione professionali e nelle condizioni di lavoro. Per questi procedimenti, assoggettati al rito ordinario di lavoro, erano e sono infatti legittimate in via individuale le vittime della discriminazione ed in via collettiva le Consigliere ed i Consiglieri di parità. In caso di discriminazione individuale si precisa che, su delega delle vittime, sono legittimate anche le Organizzazioni sindacali e le Consigliere o i Consiglieri di parità.
A seguito della entrata in vigore della cd. riforma Cartabia (D.lgs. 10 ottobre 2022, n. 149, come modificato dalla L. 29 dicembre 2022, n.197), oggi le suddette procedure (e cioè quelle di cui all'articolo 44 del decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 - per motivi razziali, etnici, linguistici, nazionali, di provenienza geografica o religiosi -, quelle di cui all'articolo 4 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 215 - razza o origine etnica -, quelle di cui all'articolo 4 del decreto legislativo 9 luglio 2003, n. 216 - religione, convinzioni personali, handicap, età, nazionalità, orientamento sessuale -, quelle di cui all'articolo 3 della legge 1° marzo 2006, n. 67 - persone con disabilità -, e quelle di cui all'articolo 55-quinquies del decreto legislativo 11 aprile 2006, n.198 - discriminazione diretta e indiretta fondata sul sesso nell'accesso a beni e servizi e loro fornitura -) “sono regolate dal rito semplificato di cognizione, ove non diversamente disposto dal presente articolo”.
Tali diverse disposizioni riguardano la competenza per territorio, determinata in relazione al luogo ove il/la ricorrente ha il proprio domicilio (la giurisprudenza ha chiarito la natura funzionale, esclusiva ed inderogabile di tale foro) nonché lo strumento dell’autodifesa, non essendo necessaria l'assistenza di un/una legale almeno per il primo grado.
Ulteriormente, il legislatore prevede che nei giudizi antidiscriminatori i criteri di riparto dell'onere probatorio non seguano i canoni ordinari di cui all'art. 2729 c.c., bensì quelli speciali di cui all'art. 28 D.lgs. 150/2011 che non stabilisce un'inversione dell'onere probatorio, bensì un'agevolazione del regime probatorio, del/della ricorrente. Si legge infatti nella norma che “quando il ricorrente fornisce elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico, dai quali si può presumere l’esistenza di atti, patti o comportamenti discriminatori, spetta al convenuto l’onere di provare l’insussistenza della discriminazione”.
In altri termini il/la lavoratore/trice è tenuto a provare il fattore di rischio, il trattamento che assume come meno favorevole rispetto a quello riservato a soggetti in condizioni analoghe e non portatori del fattore di rischio. Spetta specularmente al datore di lavoro fornire la prova delle circostanze inequivoche che escludano la natura discriminatoria della condotta e che siano idonee a provare che la scelta sarebbe stata operata con i medesimi parametri nei confronti di qualsiasi lavoratore/trice privo del fattore di rischio, che si fosse trovato nella stessa posizione.
3. Le discriminazioni di genere
3.1. Principi generali e norme positive
Un’analisi specifica merita il procedimento per reprimere la discriminazione di genere. Ai procedimenti conseguenti una violazione del Codice delle Pari Opportunità (d. lgs. 11 aprile 2006 n.198) non si applica infatti il rito semplificato di cognizione.
Tale peculiarità deve intendersi, a parere di chi scrive, direttamente ricollegata alla circostanza che la parità di genere ha una diretta e invalicabile copertura costituzionale (si pensi al generale principio di eguaglianza “senza distinzione di sesso”, proclamato dall’art. 3, primo comma, Cost., ovvero al principio di eguaglianza nel lavoro di cui all’art. 37, primo comma, Cost., il quale proclama che “la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore”).
Sul punto, si osserva che il Codice delle Pari Opportunità sancisce chiaramente che il datore di lavoro ha l’obbligo di rispettare il principio generale di uguaglianza fra i sessi nella costituzione, nello svolgimento e nella cessazione del rapporto di lavoro, con il conseguente divieto di ogni forma di discriminazione, sia diretta che indiretta.
In merito a quest’ultime si precisa che si è in presenza di discriminazione diretta quando, per ragioni legate al sesso, un lavoratore ovvero una lavoratrice, subisce un pregiudizio o un trattamento meno favorevole rispetto ad un altro lavoratore/lavoratrice che si trovi in una situazione analoga. Quanto alla discriminazione indiretta, quest’ultima è integrata ogni qualvolta sia adottato un comportamento, una prassi o un patto apparentemente neutri che mettono o possono mettere i lavoratori di un determinato sesso in una posizione di particolare svantaggio rispetto ai lavoratori dell’altro sesso, a meno che si tratti di requisiti essenziali allo svolgimento dell’attività lavorativa.
Secondo la giurisprudenza, costituiscono esempi di discriminazioni dirette quei provvedimenti datoriali adottati nei confronti di lavoratrici che si assentano dal lavoro a seguito di una malattia provocata dallo stato di gravidanza, o per sottoporsi alla pratica di inseminazione artificiale, che sfociano nel licenziamento. Parimenti è ritenuta un’ipotesi di discriminazione diretta la mancata assunzione alle dipendenze della pubblica amministrazione di una lavoratrice in gravidanza, nonostante il giudizio di idoneità ottenuto. Nell’alveo di tale forma di discriminazione sono ricondotti altresì i casi trattamenti retributivi differenti, nonostante l’adibizione a medesime mansioni, nonché le molestie sessuali nei luoghi di lavoro.
La discriminazione indiretta, invece, si configura formalmente alla stregua di un comportamento datoriale neutro, ma che di fatto risulta pregiudizievole per le lavoratrici. Ne sono esempi: il regime di lavoro a tempo parziale, i pregiudizi sul part time danneggiano in maniera più rilevante le donne dato che questo istituto risulta statisticamente utilizzato nel nostro Paese dalle lavoratrici per conciliare la vita lavorativa e quella familiare; i casi in cui, ai fini del conseguimento della qualifica superiore di carriera, è richiesto il possesso di un titolo di studio di scuola tecnica superiore che è statisticamente conseguito solo dal personale di sesso maschile e non incide in alcun modo sulle capacità di lavoratrici e lavoratori a svolgere le mansioni superiori richieste.
Va rammentato in proposito che la legge 5 novembre 2021 n.162 ha apportato importanti specificazioni sulla definizione di discriminazione. In particolare, con riferimento alle discriminazioni dirette, tra le fattispecie discriminatorie sono ora espressamente nominate anche le condotte tenute nei confronti delle candidate e dei candidati in fase di selezione del personale, che producano effetti discriminatori in ragione del loro sesso. Quanto alle discriminazioni indirette, si aggiunge il riferimento alle prassi di natura organizzativa o, comunque, incidenti sull’orario di lavoro, apparentemente neutre, che possano porre i lavoratori o i candidati in fase di selezione, di un determinato sesso, in una posizione di particolare svantaggio rispetto a quella dei lavoratori dell’altro sesso.
Ancora, il nuovo testo dell'art. 25 del Codice delle Pari Opportunità continente uno specifico riferimento volto a tutelare lavoratrici e lavoratori dalle possibili discriminazioni legate alla gravidanza ed alla fruizione dei diritti legati alla maternità e paternità.
Tra le forme di discriminazione, l’art. 26 del Codice delle Pari Opportunità individua espressamente le molestie e le molestie sessuali, ossia quei comportamenti indesiderati, posti in essere per ragioni connesse al sesso o a connotazione sessuale, espressi in forma fisica, verbale o non verbale, aventi comunque lo scopo o l’effetto di violare la dignità del lavoratore e di creare un clima intimidatorio, ostile, degradante, umiliante od offensivo.
Il Codice delle Pari Opportunità sancisce il divieto di discriminazione nell’accesso al lavoro, alla formazione e alla promozione professionali e nelle condizioni di lavoro (art. 27); il divieto di discriminazione retributiva (art. 28); il divieto di discriminazione nella prestazione lavorativa e nella progressione di carriera (art. 29), e anche nell’accesso alle prestazioni previdenziali (art. 30).
3.2. La tutela giudiziale
Orbene, il lavoratore (o la lavoratrice), a fronte delle condotte discriminatorie di genere può accedere, oltre che alle procedure di conciliazione disciplinate dai contratti collettivi e al tentativo di conciliazione ex art. 410 c.p.c. o ex art. 66 del D.lgs. n. 165/2001, anche alla specifica tutela giudiziale, sia in forma individuale che collettiva.
In particolare, secondo quanto disposto dall’art. 38 del D.lgs. 198\2006, qualora vengano poste in essere discriminazioni in violazione dei divieti sopra indicati, il lavoratore (o la lavoratrice) o, per sua delega le OO.SS. o la/il Consigliere di parità, può ricorrere al Giudice del lavoro del luogo dove è avvenuto il fatto, per tutelare i propri diritti ed ottenere un decreto immediatamente esecutivo che intimi all’autore della discriminazione la cessazione del comportamento illegittimo e la rimozione degli effetti da esso derivati.
L’inottemperanza a tale decreto comporta una sanzione penale nei confronti dell’autore della discriminazione.
Naturalmente, la/il lavoratore/trice che agisce in giudizio per accertare una discriminazione per molestia o molestia sessuale non può essere sanzionata/o, demansionata/o, licenziata/o, trasferita/o o sottoposta/o ad altra misura organizzativa avente effetti negativi (diretti o indiretti) sulle condizioni di lavoro, quale conseguenza diretta della denuncia stessa (art. 26, comma 3 bis, D.lgs. 198\2006); sono pertanto nulli il licenziamento ritorsivo o discriminatorio della/del denunciante, il mutamento di mansioni e qualsiasi altra misura ritorsiva o discriminatoria adottata nei confronti della/del denunciante.
Il Codice delle pari opportunità all’art. 41 bis (rubricato “vittimizzazione”) ha anche inteso ampliare l’ambito oggettivo di applicazione della tutela giurisdizionale descritta in materia di discriminazioni, prevedendone l’applicazione “avverso ogni comportamento pregiudizievole” posto in essere dal datore di lavoro come reazione (ostativa o ritorsiva) a qualsiasi attività volta al rispetto della parità di trattamento promossa dalla stessa persona discriminata o da altro soggetto.
Il procedimento ex art. 38 D.lgs. 198/2006 è modulato, sin da epoca risalente (venne introdotto con l’art. 15, legge 9 dicembre 1977, n. 903) sullo schema del ricorso per comportamento antisindacale ex art. 28 dello Statuto dei Lavoratori.
Esso prevede, anche, una diversa disciplina dell’onere della prova rispetto a quanto disciplinato dall’art. 2729 del codice civile: spetta, infatti, all’attore (il lavoratore, la lavoratrice), ovvero a chi ricorre avverso la condotta discriminatoria fornire gli “elementi di fatto, desunti anche da dati di carattere statistico … idonei a fondare, in termini precisi e concordanti, la presunzione dell’esistenza degli atti, patti o comportamenti discriminatori in ragione del sesso” art. 40 D.lgs. 198/2006.
Il ricorrente non deve, quindi, produrre la prova piena dell’illecito, ma è sufficiente che fornisca gli elementi precisi e concordanti, ma non gravi, quindi qualcosa di meno della prova presuntiva. Il convenuto resistente, invece, è tenuto a dover dimostrare “l’insussistenza della discriminazione”. Come ampiamente noto, secondo la giurisprudenza maggioritaria, non si tratta di una vera e propria inversione dell’onere della prova, ma di una mera attenuazione del regime ordinario.
3.3. il nuovo art. 441 quater c.p.c.
Il legislatore della riforma ha introdotto nell’ambito delle norme relative al processo del lavoro un nuovo art. 441 quater c.p.c., rubricato “licenziamento discriminatorio”.
Da un punto di vista sistematico, l’introduzione della norma appare dettata dalla necessità di ribadire la permanenza nel sistema della tutela speciale per i licenziamenti discriminatori, anche a seguito dell’introduzione del nuovo art. 441 bis, applicabile a tutte le controversie nelle quali con l’impugnazione del provvedimento espulsivo sia proposta domanda di reintegrazione, anche quando devono essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto. Conseguentemente è stato disposto che le azioni di nullità dei licenziamenti discriminatori, ove non siano proposte con ricorso ordinario ai sensi dell'articolo 414 c.p.c., possano essere introdotte, “ricorrendone i presupposti, con i riti speciali”.
Il legislatore con ogni evidenza propone una alternatività dei riti: ove la discriminazione si sia concretizzata in un licenziamento, dunque, si potrà scegliere se procedere con rito ordinario, ovvero con i procedimenti descritti in precedenza, e dunque quello di cui all'art. 28 d. lgs. 150\2011 e quello di cui all'art. 36 D.lgs. 198/2006.
Tuttavia, i primi commentatori hanno sottolineato che il primo dei due procedimenti non possa ancora oggi considerarsi “speciale”, dal momento che esso è stato ricondotto, dal medesimo legislatore della riforma, al rito semplificato di cognizione ex art. 281 decies c.p.c., il quale ha perso la caratteristica della specialità che caratterizzava, invece, il precedente rito sommario di cognizione.
Sul punto si osserva che pare trattarsi solo di una imprecisione lessicale, dovuta alla indubbia passata natura speciale di entrambi i riti, essendo inverosimile che il legislatore abbia voluto assicurare libertà di scelta solo con il secondo dei due procedimenti, di indubbia ed immutata natura speciale.
Nella scelta del rito applicabile giocheranno un ruolo verosimilmente determinante le eventuali altre domande contestualmente prodotte dal ricorrente. Oggi, infatti, abrogato il rito Fornero, sarà possibile affiancare alla domanda di nullità del licenziamento discriminatorio proposta con rito ordinario anche domande inerenti altri aspetti, quali ad esempio il pagamento di spettanze retributive.
Giocheranno altresì un ruolo altrettanto determinante le già descritte regole peculiari di determinazione della competenza per territorio, le quali orienteranno la scelta del rito in funzione del circondario più comodo per il ricorrente.
La nuova norma prosegue chiarendo che la proposizione della domanda relativa alla nullità del licenziamento discriminatorio e alle sue conseguenze, nell'una o nell'altra forma, preclude la possibilità di agire successivamente in giudizio con rito diverso per quella stessa domanda: si tratta quindi dell’enunciazione del principio civilistico del ne bis in idem volto ad evitare una duplicazione dei giudizi.
Molto spesso, nella prassi, la deduzione della discriminatorietà del licenziamento si accompagna a quella di altri vizi dell’atto datoriale.
È dunque facilmente ipotizzabile che il ricorso ex art. 441 bis c.p.c. rimarrà il rito di riferimento. Si pensi infatti alla necessità, per il ricorrente in sede di rito “speciale”, di evitare eccezioni della parte datoriale in ordine alla inammissibilità della proposizione di domande ulteriori rispetto a quelle relative alla discriminatorietà del licenziamento.
Resta non chiarita (ed in ciò pare proprio che il legislatore abbia perso una occasione di riordino della materia processuale antidiscriminatoria) la questione della strana, e da alcuni definita ingiustificabile compresenza, nel nostro ordinamento di due riti diversi, uno per la discriminazione di genere in ambito lavorativo, l’altro per tutte le altre forme di discriminazione, ivi compresa la discriminazione di genere in un altro ambito (l’accesso a beni e servizi).
4. L'evoluzione della giurisprudenza.
La descritta evoluzione normativa è stata accompagnata da una serrata evoluzione giurisprudenziale, che ha potuto seguire più da vicino il mutarsi della coscienza sociale e ha potuto individuare, in concreto, una casistica di atti discriminatori numericamente crescente nel tempo, anche se la casistica che approda al giudizio rimane numericamente modesta. Qui di seguito gli ultimi esempi che si ritengono maggiormente rappresentativi.
4.1. Rilievo di ufficio delle discriminazioni indirette
La Corte di Cassazione ha di recente chiarito (Cass. Civ., Sez. Lav., 18 aprile 2023, n. 10328) che la domanda di nullità di un atto datoriale per discriminazione indiretta si identifica in ragione del petitum, consentendo ed anzi imponendo al giudice di accertarne tutte le sue possibili (ed eventualmente diverse) cause.
La domanda di nullità è pertanto unica rispetto ai diversi, possibili vizi che inficiano l'atto datoriale; al giudice cui sia stata proposta la corrispondente istanza va quindi riconosciuto il potere-dovere di accertare tutte le possibili ragioni di nullità, non soltanto quella indicata dalla parte, anche in ragione della ratio sottesa alla fattispecie invalidante e cioè del divieto di discriminazione indiretta.
In tal modo, non si travalicano i limiti imposti dal principio dispositivo, poiché la domanda di nullità inerisce ad un diritto autodeterminato ed è quindi individuata a prescindere dello specifico vizio dedotto in giudizio.
Valgono in materia due specifici precedenti a Sezioni unite in materia di nullità contrattuale (Cass. Civ., SS.UU., 4 settembre 2012 n. 14828; Cass. Civ., SS.UU., 12 dicembre 2014, n.26242), a mente dei quali “il giudice innanzi al quale sia stata proposta domanda di nullità contrattuale deve rilevare di ufficio l’esistenza di una causa di quest’ultima diversa da quella allegata dall’istante”.
La giurisprudenza, dunque, afferma e riconosce che le “nullità di protezione”, che si configurano come species del più ampio genus delle nullità negoziali, sono poste a tutela di interessi e valori fondamentali che trascendono quelli del singolo contraente.
Se così è, tale principio può essere trasportato dalla materia contrattuale a quella degli atti unilaterali, ed in particolare all'interno di un processo del lavoro, ed ancora più in particolare all'interno di un procedimento volto a reprimere una forma di discriminazione; così superando il dubbio che la deduzione e l’allegazione di circostanze di fatto e di diritto, per le peculiarità del rito, dovrebbero entrare a far parte del thema decidendum e del thema probandum sin dal primo atto introduttivo.
Quindi il Giudice del Lavoro ha non solo il potere, ma anche il dovere di accertare tutte le possibili ragioni di nullità di un atto o di un comportamento discriminatorio, laddove la parte ricorrente abbia correttamente allegato i fatti di causa; nella materia delle discriminazioni indirette, infatti, emerge il carattere solo apparentemente neutro del comportamento o atto censurato, nonché l’effetto di particolare svantaggio da esse prodotto, sicché la verifica non va compiuta avendo riguardo al “trattamento”, ma all’”effetto” discriminatorio.
4.2. L'onere della prova e l'attenuazione del regime ordinario
In merito all’onere della prova, la Corte di Cassazione ha chiarito che l'art. 40 del d.lgs. 198\2006, prevede un’attenuazione del regime probatorio ordinario in favore della parte ricorrente, la quale è tenuta solo a dimostrare una ingiustificata differenza di trattamento o anche solo una posizione di particolare svantaggio dovute al fattore di rischio tipizzato dalla legge in termini tali da integrare indizi precisi e concordanti di discriminazione, restando, per il resto, a carico del datore di lavoro l'onere di dimostrare le circostanze inequivoche, idonee a escludere la natura discriminatoria della condotta (ex multis Cass. 5476/2021; Cass. 3361/2023).
In altre parole, i lavoratori discriminati sono onerati della sola prova di essere portatori di un fattore di discriminazione, nonché di avere subito un trattamento svantaggioso in considerazione di detto fattore. Tale connessione può essere ricostruita, sulla base degli elementi offerti, i quali possono consistere anche nel solo dato statistico.
In merito agli elementi di fatto idonei a consentire l’alleggerimento probatorio, merita di essere citata la giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea che, con la sentenza “Chez” , ha illustrato alcuni dei criteri di individuazione della discriminazione, facendo riferimento al dato statistico, alle dichiarazioni rese dal soggetto convenuto, all’eventuale diniego di dati e informazioni potenzialmente utili al ricorrente, nonché al carattere “coatto, generalizzato e duraturo della prassi controversa”. Parimenti, la medesima Corte di Giustizia, con la sentenza Meister , ha ribadito che il diniego di informazioni da parte del convenuto al/alla ricorrente (pure ove non sussista un obbligo di fornirle) può essere considerato elemento utile al fine di presumere la sussistenza del comportamento discriminatorio. Per quanto riguarda il dato statistico, che risulta essere l’elemento di fatto più utilizzato nelle controversie in materia di discriminazione, è bene precisare che secondo la Corte di Giustizia il dato deve essere sufficientemente ampio in termini numerici, deve essere rilevante rispetto alla fattispecie in esame e non deve essere legato a fenomeni casuali o di breve durata.
Sul fronte nazionale la Cassazione ha invece sottolineato l’importanza dell’attendibilità del dato, e dunque della fonte di provenienza dello stesso, il metodo di rilevazione dei fenomeni e la chiarezza nella presentazione delle informazioni. Si potrebbe poi discutere se il dato statistico debba necessariamente provenire dal contesto aziendale oggetto della causa, o se possa essere un dato di rilievo territoriale o per categorie generali; nel caso di discriminazione indiretta l’utilizzo di dati attinenti alla situazione generale del mercato può rivelarsi determinante. Peraltro, l’analisi statistica utile ai fini della prova di una discriminazione è certamente agevolata dall’obbligo previsto all’art. 46 del Codice delle Pari Opportunità, che impone alle aziende con oltre 50 dipendenti di inviare, alle rappresentanze sindacali aziendali e alle consigliere e consiglieri regionali di parità, un rapporto biennale sull’occupazione maschile e femminile in azienda; tale rapporto è certamente utilizzabile estrapolandone dati statici in caso di necessità di prova di una condotta discriminatoria.
Il ragionamento presuntivo idoneo a far "scattare" l'onere probatorio a carico della parte datoriale si connota, pertanto, rispetto a quanto sancito in tema di presunzioni dalla norma codicistica di cui all'articolo 2729 c.c., per il venir meno del requisito della gravità (significativo, come noto, di un elevato livello di inferenza probabilistica del fatto ignoto da trarre dal fatto noto).
Sul punto degno di menzione è quanto affermato recentemente dalla Corte di Cassazione secondo la quale il presupposto logico (prima che giuridico) della disciplina in tema di discriminazione è rappresentato dal fatto che la discriminazione viene realizzata attraverso atti che non sono intrinsecamente e dichiaratamente discriminatori; tali condotte apparentemente neutre devono essere collocate nel più ampio contesto delle circostanze concrete, affinché il Giudice possa verificare se il complesso degli elementi acquisiti risulta idoneo a sorreggere il ragionamento presuntivo sotto il profilo della precisione e concordanza (ma non anche della gravità, come detto) circa la esistenza di un possibile fattore di discriminazione nella scelta datoriale Cass. civ. 5476/2021)
4.3. Disabili e periodo di comporto
Con la sentenza n. 9095/2023, la Corte di Cassazione ha affermato che i contratti collettivi che non prevedono un periodo di comporto più lungo per i lavoratori portatori di handicap rientrano nella ipotesi di discriminazione indiretta prevista dall’art. 2, comma 1, lettera b) del D. Lgs. n. 216/2003.
Di conseguenza, un licenziamento adottato da un datore di lavoro per superamento del periodo di comporto previsto dal CCNL che non tenga conto di tale indirizzo, risulta affetto da nullità.
Si premette (o meglio, la Corte premette) che la tutela contro la discriminazione sulla base della disabilità si fonda anche:
sulla Carta dei Diritti Fondamentali dell'Unione Europea, che include il motivo della disabilità nell'ambito dell'art. 21 (che sancisce il divieto generale di discriminazioni) e contiene anche una disposizione specifica (art. 26) che riconosce il diritto dei disabili di beneficiare di misure intese a garantirne l'autonomia, l'inserimento sociale e professionale e la partecipazione alla vita della comunità (azioni positive);
sulla Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità (CDPD), ratificata dall'Italia con Legge n. 18/2009 e approvata dall'UE con Decisione del Consiglio del 26 novembre 2009 n. 2010/48/CE.
In questa materia vi è una robusta produzione giurisprudenziale ad opera della Corte di Giustizia Europea, cui il giudice di legittimità italiano intende dar dichiaratamente seguito, per chiarire e sottolineare che l'applicazione al lavoratore disabile dell'ordinario periodo di comporto rappresenta una forma di discriminazione indiretta.
Ciò perché, rispetto a un lavoratore non disabile, il lavoratore disabile è esposto al rischio ulteriore di assenze dovute a una malattia collegata alla sua disabilità, e quindi soggetto a un maggiore rischio di accumulare giorni di assenza per malattia e di raggiungere i limiti massimi di cui alla normativa pertinente.
È tale rischio a rendere una normativa che, in vista del recesso datoriale per superamento del periodo di comporto, fissi limiti massimi di malattia identici per lavoratori disabili e non, idonea a svantaggiare i lavoratori disabili e, quindi, a comportare una disparità di trattamento indirettamente basata sulla disabilità.
Anche in questo caso, è degna di menzione la chiosa finale della sentenza della Corte sopra citata che precisa un principio sul quale si fonda il diritto antidiscriminatorio: la discriminazione - diversamente dal motivo illecito - opera obiettivamente, ovvero in ragione del mero rilievo del trattamento deteriore riservato al lavoratore, quale effetto della sua appartenenza alla categoria protetta, ed a prescindere dalla volontà illecita del datore di lavoro.