TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

1. - La risoluzione stragiudiziale nei cinquant’anni di vita del rito lavoristico

Le controversie di lavoro hanno da sempre costituito terreno fertile per l’impiego di forme di risoluzione della lite e carattere autonomo, ovvero fondate su un accordo delle parti che, autonomamente – appunto - scelgono le nuove regole del loro rapporto. E ciò è accaduto nonostante tali liti abbiano ad oggetto diritti derivanti da disposizioni inderogabili di legge; diritti cioè pur sempre disponibili ma rinunciabili solo a determinate condizioni, che garantiscano un controllo sulla libertà della scelta del soggetto più debole del rapporto .
Non è quindi un caso che proprio nel campo della conciliazione e degli arbitrati il legislatore sia intervenuto più volte, nell’arco dei cinquant’anni di vita del processo del lavoro, per modificare i connotati delle procedure stragiudiziali, in particolare alternando la scelta per l’obbligatorietà del tentativo con quella per la facoltatività. Possiamo anzi affermare che è nella materia qui esaminata che si sono registrate le maggiori riforme del rito lavoristico, tenuto conto che, invece, le altre regole processuali sono state solo saltuariamente modificate e, in ogni caso, solo in minima parte.
Anche l’ultima riforma del processo civile ad opera del d. lgs. 149/2022 ha interessato il rito degli artt. 409 ss. c.p.c. sotto limitati aspetti; ciò anche a riprova della bontà del processo introdotto nel 1973 che, evidentemente, non necessita di interventi riformatori radicali.
Il campo nel quale invece l’opera di modifica si è resa necessaria è stato anche questa volta quello della risoluzione stragiudiziale delle controversie, quand’anche il legislatore non abbia agito modificando le regole codicistiche, bensì correggendo e migliorando quelle del d.l. 132/2014 sulla negoziazione assistita.
Ne viene fuori perciò allo stato un quadro nel quale, per l’individuazione delle regole sulle adr laburistiche, occorrerà avere riguardo, da un lato, alla conciliazione codicistica nelle sue differenti forme, e , dall’altro, alla negoziazione del d.l. 132/2014, finalmente estesa anche alle controversie dell’art. 409.
Nelle pagine a seguire si esamineranno entrambi i profili, con particolare riguardo a quelle che sono state le evoluzioni normative dal 1973 ad oggi .

2. La conciliazione dell’art. 410 dopo le riforme del 1998 e l’abbandono della facoltatività prevista nel 1973.

L’art. 410 c.p.c., così come modificato dalle novelle del 1998, ha reintrodotto nel codice di rito il tentativo obbligatorio di conciliazione per le controversie indicate dall’art. 409 c.p.c .
Esso ha rappresentato un “ritorno al passato” dal momento che nel codice del 1940, all’art. 430, era contemplato un meccanismo obbligatorio di denuncia della lite all’associazione sindacale di appartenenza, la quale era tenuta, unitamente all’associazione sindacale della controparte, a tentare la composizione della controversia. Invece del tentativo di conciliazione obbligatorio era quindi prevista una denuncia obbligatoria il cui scopo era comunque – come per la conciliazione – quello di evitare, attraverso la composizione extragiudiziale della lite, che la controversia fosse proposta innanzi all’autorità giudiziaria statale .
Con la soppressione dell’ordinamento corporativo la previsione cessò di avere efficacia e il tentativo di conciliazione tornò ad essere facoltativo. Tale facoltatività fu poi confermata espressamente dal legislatore del 1973 il quale compì una chiara scelta verso la conciliazione opzionale nell’art. 410 c.p.c che disciplinava, appunto, il tentativo facoltativo di conciliazione.
Con gli artt. 36 -39 del d.lgs. n. 80/1998, il tentativo di conciliazione è tornato ad essere obbligatorio, ponendosi come filtro per l’accesso alla giustizia (per il pubblico impiego la disciplina corrispondente è regolata dagli artt. 65 e 66 del TU sul p.i., D. Lgs. 165/2001, oggi abrogati) .
Si tratta di filtro apparso necessario per arginare il passaggio della materia del pubblico impiego alla giurisdizione ordinaria, realizzatosi proprio attraverso i dd. lgs. 80 e 387 del 1998, passaggio con il quale il carico di contenzioso dei giudici del lavoro è aumentato sensibilmente.
Per evitare che tale aumento diventasse insostenibile, il legislatore ha cercato di porre degli argini introducendo forme alternative alla giurisdizione quali la conciliazione stragiudiziale e l’arbitrato. Ha così reso, con gli artt. 410 c.p.c. e 412 bis, il tentativo di conciliazione condizione di procedibilità della domanda giudiziale. In altre parole, il legislatore del 1998 ha introdotto un presupposto processuale sanabile con efficacia ex tunc (senza pregiudizi per il processo viziato, potendosi il vizio emendare con efficacia retroattiva, e la relativa domanda giudiziale produrre i suoi effetti sin dalla data di proposizione della prima domanda) il cui rispetto è condizione per la decisione nel merito della domanda .
In ragione di tale condizionamento dell’esercizio del diritto di azione, vi è chi ha sospettato che il tentativo obbligatorio di conciliazione potesse rappresentare una compressione irragionevole del diritto costituzionalmente garantito dall’art. 24 Cost., da determinare una eventuale illegittimità della norma che lo ha previsto .
La questione di legittimità è tuttavia stata dichiarata infondata da Corte cost., n. 276/2000 . La Consulta ha affermato che “l’art. 24 della Costituzione, laddove tutela il diritto di azione, non comporta l’assoluta immediatezza del suo esperimento, ben potendo la legge imporre oneri finalizzati a salvaguardare “interessi generali”, con le dilazioni conseguenti” ed inoltre che “la normativa denunciata è (…) modulata secondo linee che rendono intrinsecamente ragionevole il limite all’immediatezza della tutela giurisdizionale”.

 

3. La conciliazione stragiudiziale nel codice di procedura civile dopo il collegato lavoro.
La l. n. 183/2010, meglio nota come collegato lavoro, è intervenuta sui sistemi di risoluzione alternativa delle liti lavoristiche, tanto con riferimento all’arbitrato quanto alla conciliazione.
In particolare, per quest’ultima, la più rilevante novità consiste nel ritorno alla facoltatività del tentativo di conciliazione che così cessa di essere una condizione di procedibilità della domanda giudiziale . Si tratta di una modifica accolta con favore, atteso che l’obbligatorietà originariamente prevista aveva prodotto esiti fallimentari .
Ad oggi, la domanda facoltativa di conciliazione relativa ad una delle controversie dell’art. 409 c.p.c. si propone dinanzi alla commissione di conciliazione individuata secondo le regole di competenza previste per l’individuazione dell’organo giudiziario territorialmente competente, ossia quella che ha sede nel luogo ove è sorto il rapporto, ovvero dove si trova l’azienda o una sua dipendenza alla quale è addetto il lavoratore. L’eventuale incompetenza dell’organismo conciliativo può essere rilevata dalle parti e dalla stessa commissione durante lo svolgimento della procedura, non essendo previsto alcun termine preclusivo per la relativa eccezione. Resta fermo però che, una volta raggiunto l’accordo, il vizio di competenza si considera sanato e non potrà eventualmente essere fatto valere come motivo di invalidità della conciliazione, prevalendo in tal caso la volontà conciliativa sulle regole “di rito” della procedura stragiudiziale.
La nuova disciplina del tentativo di conciliazione si caratterizza per essere notevolmente più dettagliata rispetto a quella precedentemente vigente nel codice di rito e ricalca sotto certi aspetti quella già prevista per le controversie nel pubblico impiego dall’abrogato art. 66 d. lgs. 165/2001.
La richiesta di conciliazione deve contenere l’indicazione delle generalità delle parti, del luogo ove è sorto il rapporto o dove si trova l’azienda (ai fini dell’individuazione della commissione di conciliazione competente), del luogo ove eseguire le comunicazioni inerenti la procedura nonché l’esposizione dei fatti e delle ragioni posti a fondamento della pretesa (art. 410 c.p.c.). Deve poi essere sottoscritta dall’istante e deve essere consegnata o spedita - tramite raccomandata con ricevuta di ritorno - alla commissione competente e, in copia, alla controparte.
Quanto agli effetti attribuiti alla domanda di conciliazione, l’art. 410 c.p.c. prevede che la comunicazione della richiesta interrompa la prescrizione e sospenda per la durata del tentativo di conciliazione, e per i venti giorni successivi alla sua conclusione, il decorso di ogni termine di decadenza .
Una volta inoltrata la domanda di conciliazione, occorre verificare se vi sia adesione della controparte al tentativo. All’uopo la legge stabilisce che “se la controparte intende accettare la procedura di conciliazione, deposita presso la commissione di conciliazione, entro venti giorni dal ricevimento della copia della richiesta, una memoria contenente le difese e le eccezioni in fatto e in diritto, nonché le eventuali domande in via riconvenzionale”. Nei dieci giorni successivi al deposito della memoria, la commissione fissa la comparizione delle parti per l’espletamento del tentativo, comparizione che deve avvenire entro i successivi trenta giorni .
Qualora invece la parte non accetti l’invito alla procedura, non sarà tenuta a depositare alcunché, spiegando da solo il suo atteggiamento inattivo il significato di non adesione alla conciliazione. In questo caso, decorsi inutilmente venti giorni dal ricevimento della copia della richiesta di tentativo, ciascuna delle parti avrà facoltà di adire l’autorità giudiziaria .

4. Gli esiti della procedura di conciliazione.
La procedura conciliativa può dare esito positivo ovvero può concludersi senza raggiungimento dell’accordo tra le parti.
In questa seconda ipotesi, l’art. 411 c.p.c. attribuisce alla commissione di conciliazione il potere di formulare una proposta conciliativa allo scopo di consentire comunque il raggiungimento di un accordo tra i litiganti. A sua volta, la proposta può essere accolta o non accettata. Nel primo caso, le parti si concilieranno consacrando nell’accordo il contenuto della proposta della commissione. L’accordo così conseguito avrà efficacia analoga a quella che le parti possono raggiungere senza intercessione dell’organismo conciliativo.
Qualora invece la proposta non sia accolta dai litiganti, i termini della stessa saranno riportati nel verbale negativo di conciliazione, con l’indicazione delle valutazioni espresse dalle parti; nel successivo processo l’assenza di una adeguata motivazione al rifiuto della proposta sarà tenuta in conto dal giudice .
In particolare, si ritiene che la parte che abbia ingiustificatamente rifiutato una proposta conciliativa, quando poi la sentenza abbia deciso in conformità a tale proposta, potrà essere considerata colei che ha dato causa al processo, sicché il giudice dovrà tenerne conto ai fini della condanna alle spese.
A tale scopo, quando il tentativo di conciliazione è stato richiesto dalle parti, l’art. 411 c.p.c. stabilisce che al successivo processo instaurato dopo il fallimento della procedura stragiudiziale dovranno essere allegati i verbali e le memorie depositate nel corso della conciliazione. Solo così infatti il giudice potrà conoscere modalità e termini dello svolgimento della conciliazione ai fini della decisione sulle spese.
Qualora invece a seguito della procedura dell’art. 410 c.p.c. le parti raggiungano un accordo, anche limitatamente ad una parte della domanda, viene redatto processo verbale sottoscritto dalle parti e dai componenti della commissione di conciliazione. Il verbale di avvenuta conciliazione è poi depositato presso la Direzione provinciale del lavoro a cura di una delle parti o per il tramite di un’associazione sindacale. Tale deposito ha lo scopo di consentire al direttore dell’ufficio di accertare l’autenticità delle sottoscrizioni e il successivo passaggio all’omologa.
Per ottenere l’esecutività il legislatore ha previsto un apposito procedimento di omologa ad opera del tribunale che si attiva dietro istanza della parte interessata (art. 411, comma 1, c.p.c.).
Una volta depositato il verbale presso la Direzione provinciale del lavoro, si è detto che quest’ultima provvede a certificare l’autenticità delle sottoscrizioni. Successivamente, il direttore provvede a depositarlo nella cancelleria del tribunale nella cui circoscrizione è stato redatto, ai fini dell’omologa.
Il giudice, su istanza della parte interessata, accertata la regolarità formale del verbale di conciliazione, lo dichiara esecutivo con decreto.
Si tratta di un controllo sull’osservanza dei termini di composizione della controversia, nonché sull’accertamento che si tratti di una controversia di lavoro dell’art. 409 c.p.c. .

5. La conciliazione sindacale.
Oltre alla conciliazione amministrativa, il codice di procedura civile contempla un’altra forma di risoluzione autonoma della lite ovvero la conciliazione sindacale, espressamente sottratta alla disciplina dell’art. 410 c.p.c. (in tal senso, l’art. 411 c.p.c. stabilisce che “Se il tentativo di conciliazione si è svolto in sede sindacale, ad esso non si applicano le disposizioni di cui all’articolo 410”), originariamente prevista dall’art. 411 c.p.c. e oggi disciplinata dall’art. 412 ter c.p.c., a seguito della riforma realizzata con il c.d. collegato lavoro.
Si tratta di una forma di conciliazione molto meno formalizzata rispetto a quella dinanzi alla Direzione territoriale del lavoro, poiché non è previsto in alcuna parte della norma un contenuto minimo dell’istanza (diversamente dall’art. 410 c.p.c.). Mancano altresì regole di concreto svolgimento della procedura o indicazioni sul compito del sindacato nel corso delle trattative.
Si prevede solo che la conciliazione si possa svolgere presso le sedi e con le modalità stabilite dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni maggiormente rappresentative, rinviandosi quindi alle regole pattizie per l’individuazione della disciplina dell’accordo stipulato innanzi ai sindacati.
L’art. 411 c.p.c. individua però il regime del processo verbale di conciliazione ai fini dell’ottenimento dell’efficacia esecutiva, stabilendo, come per l’accordo raggiunto in sede amministrativa, che il verbale possa divenire titolo ai sensi dell’art. 474 c.p.c. quando, previa autenticazione del verbale da parte del direttore della Direzione provinciale del lavoro, dinanzi alla quale il verbale è stato depositato dal sindacato o dalla parte interessata, sia disposto l’exequatur dal tribunale nella cui circoscrizione il verbale è stato redatto.
Anche quanto al regime di impugnazione dell’accordo, conciliazione sindacale e conciliazione amministrativa soggiacciono alle medesime regole, essendo considerate l’una e l’altra sedi protette nelle quali è possibile che il lavoratore disponga dei propri diritti, ancorché questi siano regolati da disposizioni inderogabili di legge. A tal fine, l’ultimo comma dell’art. 2113 c.c. stabilisce che siano sottratte alla generale impugnabilità, stabilita dal primo comma della norma, le rinunce e transazioni che abbiano avuto luogo ai sensi degli artt. 410, 411, 412 ter e 412 quater, ferma tuttavia restando la possibilità di impugnare l’accordo per vizio del consenso, come un comune contratto di diritto privato .

6. La negoziazione assistita.
Dopo la speciale conciliazione dell’art. 6 del d. lgs. n. 23/2015, che ha introdotto una nuova forma di risoluzione fuori dal processo delle controversie in tema di licenziamento, allo scopo di “evitare il giudizio” per i lavoratori assunti con contratto di lavoro subordinato a tutele crescenti a far data dal 7 marzo 2015, la c.d. riforma Cartabia (d. lgs. 149/2022) ha previsto un’altra forma di risoluzione stragiudiziale extracodicistica, attraverso l’estensione dell’ambito applicativo della negoziazione assistita da avvocati alle liti di lavoro.
Cominciamo col dire che il d.l. 132/2014, norma che ha introdotto l’istituto della negoziazione nel nostro ordinamento, prevedeva la possibilità che le liti lavoristiche fossero conciliate grazie all’assistenza degli avvocati, con gli effetti previsti dall’art. 5 d.l. 132/2014, con l’ulteriore precisazione (art. 7 d.l. cit.) che gli accordi fossero poi assoggettati alla disciplina dell’art. 2113 c.c.
Senonché, con la successiva legge di conversione, l’art. 7 è stato soppresso e, per converso, all’art. 2 è stato stabilito che la negoziazione non potesse trovare applicazione nelle controversie relative a diritti indisponibili nonché in quelle di lavoro .
La scelta legislativa destava non poche perplessità atteso che la negoziazione assistita appariva prima facie come uno strumento perfettamente compatibile con le controversie lavoristiche e che avrebbe consentito il raggiungimento più rapido ed efficiente di accordi negoziali. Non può infatti sfuggire che nella prassi gli accordi relativi alle controversie in materia di rapporti di lavoro subordinato vengono quasi sempre conclusi dagli avvocati delle parti, i quali, dialogando con i rispettivi clienti, sono in grado di individuare la migliore soluzione da offrire alla lite. Tuttavia, l’accordo raggiunto privatamente e privo del sigillo del sindacato (art. 412 ter c.p.c.) o della Direzione territoriale del lavoro (art. 410-411 c.p.c.) restava invalido ai sensi dell’art. 2113 c.c.
E’ stato così che, in attuazione della legge delega 206/2021, il d. lgs. 149/2022 ha previsto l’aggiunta dell’art. 2 ter al d.l. 132/2014, stabilendo che per le controversie di cui all’art. 409 c.p.c., e ferma restando la possibilità di fruire della conciliazione sindacale, le parti possono ricorrere alla negoziazione assistita da avvocati in modo facoltativo e volontario.
L’accordo di negoziazione assistita avrà poi stabilità pari a quella degli accordi stipulati innanzi alle Direzioni territoriali del lavoro (art. 411 c.p.c.), a quella delle conciliazioni stipulate dinanzi ai sindacati (412 ter c.p.c.) nonché pari ai lodi irrituali di lavoro degli artt. 412 ss. c.p.c. poiché è stabilito che ad esso si applichi l’art. 2113 c.c. ultimo comma (norma che tuttavia non è stata modificata con l’aggiunta, tra le sedi protette, della negoziazione assistita).
Condizione affinché possa operare il regime di non impugnabilità dell’accordo, ai sensi dell’art. 2113 c.c., è che nella negoziazione ciascuna parte sia assistita da un proprio avvocato. E’ inoltre possibile che le parti siano altresì assistite da un consulente del lavoro.
L’accordo raggiunto deve essere poi trasmesso agli organismi di certificazione, trasmissione che, stando alla norma, non è prevista a condizione di validità o di efficacia della conciliazione.
La negoziazione assistita in materia di lavoro non può mai costituire condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Essa quindi è facoltativa, ovvero rimessa alla libera iniziativa dei litiganti. Tuttavia, quand’anche volontaria e facoltativa, l’istanza di negoziazione assistita genera le conseguenze dell’art. 4 l. 162/2014 poiché, in caso di mancata risposta o di rifiuto all’invito, il giudice potrà valutare il comportamento della parte ai fini delle spese del giudizio e di quanto previsto dagli artt. 96 e 642 c.p.c. .

 

 

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