TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
Il mio esordio nella professione forense, nella qualità di procuratore legale abilitato, è avvenuto poco prima dell’entrata in vigore della legge 11 agosto 1973, n, 533, recante la disciplina delle controversie individuali di lavoro e delle controversie in materia di previdenza e di assistenza obbligatorie.
Nell’approccio alle radicali innovazioni introdotte nel rito lavoro non mi furono di particolare conforto i miei studi universitari e l’esperienza maturata durante il periodo di pratica forense (all’epoca il rito lavoro presentava poche caratteristiche specifiche che lo differenziassero dal rito civile comune).
Mi trovai, quindi, a dover sviluppare autonomamente le mie capacità cognitive (senza tralasciare, peraltro, la lettura critica dei contributi progressivamente elaborati da eminenti studiosi di diritto processuale) per comprendere il senso e la portata delle radicali innovazioni introdotte.
La prima, di più immediata evidenza, riguardava l’atto introduttivo: non più la citazione, ma il ricorso.
Veniva in qualche nodo ridotta l’autonomia dell’avvocato, che non poteva più stabilire la data della prima udienza (sempre che il giudice designato non dovesse individuarne una diversa, in ragione dell’intasamento del proprio ruolo), ma, in compenso, il giudice adìto poteva fissare con decreto la data dell’udienza senza essere condizionato dall’indicazione contenuta nella citazione.
La novità era finalizzata alla razionalizzazione della programmazione dell’attività del giudice designato e rappresentava il primo presupposto per garantire una maggiore celerità del processo del lavoro.
La novità relativa all’atto introduttivo del giudizio è, però, solo una delle misure che il legislatore adottò allo scopo di ridurre i tempi processuali delle controversie in materia di lavoro: introdusse, infatti, un rito del tutto speciale, caratterizzato da un più rigido sistema di preclusioni e decadenze rispetto a quello civile ordinario..
Anche nel rito civile ordinario sono previste preclusioni e decadenze, ma la definizione del thema decidendum, prima, e del thema probandum, poi, avviene attraverso fasi procedimentali che si succedono progressivamente in molteplici udienze.
Questo sistema consente un ragionevole affidamento sulla possibilità per ciascuna delle parti di articolare compiutamente le deduzioni a sostegno delle proprie ragioni e le successive richieste istruttorie. Presenta, però, un effetto collaterale collegato alla possibilità, per la parte che preveda un esito infausto, di procrastinare i tempi di conclusione del processo frazionando artificiosamente le proprie deduzioni e richieste istruttorie.
Il nuovo rito del lavoro, come già detto, si caratterizzava, invece, per un impiego particolarmente incisivo della tecnica delle preclusioni.
A entrambe la parti del processo, infatti, è fatto obbligo di esporre nel primo scritto di primo grado tutte le rispettive domande, eccezioni, produzioni e richieste di prova.
Con ciò si è voluto non soltanto garantire la concentrazione e immediatezza dell’iter processuale e il suo ordinato svolgimento, ma anche dare effettività al principio di lealtà e probità posto a carico delle parti ed evitare i tatticismi all’epoca possibili nel vigente rito civile ordinario.
Alle stesse finalità è ispirato il principio di non contestazione elaborato dalla dottrina e recepito dalla giurisprudenza.
In forza di tale principio, quando una parte abbia ritualmente allegato un fatto e la controparte non lo abbia contestato con la prima difesa utile tale fatto deve ritenersi pacifico, senza che la parte che lo ha allegato debba assolvere l’onere probatorio.
Questo sistema di preclusioni e decadenza, considerato in maniera avulsa dal complessivo contesto del nuovo rito lavoro, potrebbe suscitare il timore che un fondato diritto sostanziale possa non essere riconosciuto in giudizio perché la parte che ne sarebbe titolare in concreto è incorsa in un difetto procedurale.
Per evitare una tale evenienza o, quanto meno per ridurre il rischio del suo verificarsi, soccorrono diverse disposizioni del codice di procedura civile, in generale, e del nuovo rito lavoro, in particolare.
Il riferimento è, innanzi tutto al libero interrogatorio delle parti di cui all’articolo 117 c.p.c., ai cui sensi Il giudice, in qualunque stato e grado del processo, ha facoltà di ordinare la comparizione personale delle parti in contraddittorio tra loro per interrogarle liberamente sui fatti della causa.
Nel rito lavoro il libero interrogatorio è utilizzato dal giudice in particolare per richiedere alle parti, tra l’altro, la precisazione di circostanze dedotte in maniera non sufficientemente chiara.
In tal modo il giudice, fermo rimanendo l’onere di allegazione in capo alle parti, può dare un costruttivo apporto alla precisa definizione del thema decidendum ed evitare alle parti gli effetti pregiudizievoli dell’allegazione di un fatto imprecisa, ma non mancante.
Il secondo riferimento è all’articolo 421 c.p.c., che attribuisce al giudice del lavoro poteri istruttori officiosi ben più ampi di quelli riconosciuti al giudice civile.
Ai sensi dell’articolo 421, infatti, Il giudice indica alle parti in ogni momento le irregolarità degli atti e dei documenti che possono essere sanate assegnando un termine per provvedervi, salvo gli eventuali diritti quesiti.
Il giudice, inoltre, può disporre d'ufficio in qualsiasi momento l'ammissione di ogni mezzo di prova, anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile, ad eccezione del giuramento decisorio, nonché richiedere informazioni e osservazioni alle associazioni sindacali indicate dalle parti.
I poteri istruttori del giudice del lavoro, peraltro, non hanno pieno carattere inquisitorio poiché sono circoscritti entro limiti predeterminati, primo fra tutti il rispetto dell’onere di allegazione che incombe sulle parti.
L’iniziativa istruttoria d’ufficio è, pertanto, contemperata con l’onere di allegazione grazie al divieto per il giudice di utilizzare i propri poteri per introdurre in giudizio fatti diversi rispetto a quelli dedotti dalle parti.
L’esercizio dei predetti poteri istruttori non costituisce un obbligo per il giudice, come è reso evidente dalla formulazione dell’articolo 421 c.p.c., che reca il termine “può” e non il termine “deve”.
La scelta di utilizzare, o meno, i poteri istruttori è rimessa, pertanto, alla valutazione del giudice ma non è una scelta caratterizzata da discrezionalità assoluta, poiché dell’esercizio o mancato esercizio di tali poteri il giudice è tenuto a dar conto.
Sul punto dell’equilibrato rapporto che deve sussistere tra gli oneri di allegazione incombenti sulle parti e l’esercizio dei poteri officiosi del giudice, di cui all’articolo 421 c.p.c., mi sembra emblematica la sentenza della Corte di Cassazione, a Sezioni Unite, dek 13 gennaio 1997, n. 262. Con la suddetta sentenza fu affermato che “Nel rito del lavoro, qualora la parte abbia, con l’atto introduttivo del giudizio, proposto capitoli di prova testimoniali, specificamente indicando di volersi avvalere del relativo mezzo in ordine alle circostanze di fatto ivi allegate, ma omettendo l’enunciazione delle generalità delle persone da interrogare, tale omissione non determina decadenza dalla relativa istanza istruttoria, ma concreta una mera irregolarità, che abilita il giudice all’esercizio del potere – dovere di cui all’art. 421, co. 1 c.p.c.; con la conseguenza che, in sede di pronuncia dei provvedimenti istruttori di cui all’art. 420 stesso codice, il pretore, ove ritenga l’espletamento del detto mezzo pertinente e rilevante ai fini del decidere, deve indicare alla parte istante la riscontrata irregolarità, che allo stato non consente l’ammissione della prova, assegnandole un termine per porvi rimedio ed applicando a tal fine la particolare disciplina prevista dal comma 5 della norma da ultimo citata, col corollario della decadenza nella sola ipotesi di mancata ottemperanza allo spirare di questo termine espressamente dichiarato perentorio dal medesimo comma”.
Concludendo la mia sommaria esposizione delle caratteristiche principali del rito lavoro, per come percepite sul piano empirico nell’esercizio della professione forense, posso affermare che, a mio avviso, con la legge 11 agosto 1973, n, 533, è stato strutturato un iter processuale ordinato, rapido ed efficace, ma anche orientato alla ricerca della verità materiale. Ricerca che nelle controversie individuali di lavoro e in materia di previdenza e assistenza obbligatorie non può essere rimessa esclusivamente alla libera iniziativa delle parti, ma richiede anche un ruolo del giudice più attivo e pregnante di quello previsto dal rito civile ordinario in considerazione della rilevanza costituzionale dei diritti oggetto della materia del contendere e dell’interesse pubblico alla corretta attuazione dei precetti dettati dalla Costituzione.
L’obiettivo della riduzione della durata del processo ha avuto alterne vicende in questi cinquanta anni, ma ciò è dipeso non già da deficit del rito bensì da fattori socio-lavorativi che hanno prodotto una proliferazione delle controversie.
Il riferimento è al clima di tensione sociale degli anni 70 e 80 e alla successiva emersione di nuove forme di nuove forme del rapporto di lavoro e delle modalità di esecuzione della prestazione, che hanno reso sempre meno netta la linea di demarcazione tra lavoro subordinato e lavoro autonomo e hanno ingenerato incertezze sulla qualificazione del rapporto.
Basti pensare alle fattispecie del distacco, della somministrazione, del lavoro a chiamata (cioè intermittente), del job sharing, del contratto a progetto, del contratto a tempo determinato, della collaborazione coordinata e continuativa (cui si è poi affiancata la collaborazione continuativa etero organizzata), del lavoro su piattaforma, del lavoro agile.
Per il vero il legislatore con la stessa legge n. 533 del 1973, introduttiva del nuovo rito lavoro, aveva anche dettato disposizioni regolanti gli strumenti deflattivi del contenzioso disciplinando sia l’arbitrato rituale che quello irrituale e ridando vigore, con le modifiche apportate all’art. 410 c.p.c., alle procedure di conciliazione previste dai contratti e accordi collettivi e disciplinando il tentativo di conciliazione avanti la commissione di conciliazione costituita presso la direzione provinciale del lavoro.
Con l’art. 80, comma 4 del D.Lgs. 10 settembre 2003, n. 276, il tentativo di conciliazione fu reso obbligatorio e il suo esperimento, ai sensi dell’articolo 412 bis c.p.c., costituiva condizione di procedibilità della domanda giudiziale; è tornato a essere facoltativo nel 2010 a seguito dell’abrogazione, con legge 4 novembre 2010, n. 183, del predetto art. 412 bis.
Le misure deflattive del contenzioso, che certamente sarebbero state utili alla definizione stragiudiziale anche delle controversie riguardanti il pubblico impiego. non hanno potuto trovare applicazione, per alcuni decenni, nella specifica materia essendo la stessa devolute alla giurisdizione amministrativa.
Questa situazione si è protratta, tra alterne vicende, fino alla conclusione del processo di privatizzazione del rapporto di lavoro con la pubblica amministrazione, che ha trovato il suo punto di approdo nel D.lgs. 30 marzo 2001, n. 165.
In particolare, con l’articolo 63, comma 1, del suddetto D.Lgs. è stato disposto che “Sono devolute al giudice ordinario, in funzione di giudice del lavoro, tutte le controversie relative ai rapporti di lavoro alle dipendenze delle pubbliche amministrazioni di cui all'articolo 1, comma 2, ad eccezione di quelle relative ai rapporti di lavoro di cui al comma 4, incluse le controversie concernenti l'assunzione al lavoro, il conferimento e la revoca degli incarichi dirigenziali e la responsabilità dirigenziale, nonché quelle concernenti le indennità di fine rapporto, comunque denominate e corrisposte, ancorché vengano in questione atti amministrativi presupposti. Quando questi ultimi siano rilevanti ai fini della decisione, il giudice li disapplica, se illegittimi. L'impugnazione davanti al giudice amministrativo dell'atto amministrativo rilevante nella controversia non è causa di sospensione del processo.”.
I predetti mezzi deflattivi del contenzioso non hanno mai trovato, e non trovano, applicazione alle controversie in materia di previdenza e assistenza obbligotorie per una ragione strutturale interna al codice di rito.
L’articolo 442 c.p.c. dispone, infatti, che la domanda relativa alle controversie in materia di previdenza e assistenza obbligatorie non è procedibile se non quando siano esauriti i procedimenti prescritti dalle leggi speciali per la composizione in sede amministrativa o siano decorsi i termini ivi fissati per il compimento dei procedimenti stessi o siano, comunque, decorsi 180 giorni dalla data in cui è stato proposto il ricorso amministrativo.
La disposizione risponde a coerenti ragioni sistematiche: i diritti che vengono in rilievo nella materia sono di rilevanza costituzionale e sono gestiti da Enti strumentali dello Stato. Non è, quindi, compatibile con la stessa nessuna forma di negoziazione tra parti private contrapposte e la fase amministrativa è regolata da articolati procedimenti.
Con specifico riferimento alla tutela contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali l’improcedibilità della domanda giudiziale fino alla definizione del procedimentp amministrativo interferisce con il decorso del termine di prescrizione del diritto alle prestazioni.
L’indisponibilità del diritto alle prestazioni, infatti, è relativa, non già assoluta, perché, pur non potendo tale diritto essere oggetto di negozi abdicativi o dispositivi, esso, tuttavia, può estinguersi per inerzia dell’avente diritto.
La Corte costituzionale ha ripetutamente ribadito la legittimità del termine di prescrizione triennale di cui all’articolo 112 del d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, affermando che il diritto alle prestazioni indennitarie erogate dall’INAIL non è assimilabile al diritto alla pensione. La tutela pensionistica si ricollega, infatti, ad eventi certi e sempre suscettibili di riscontro in base a dati che non possono essere revocati in dubbio, come il raggiungimento di una determinata età anagrafica o anzianità contributiva, mentre la tutela infortunistica si ricollega ad eventi incerti, da verificarsi ogni volta con specifica indagine per mezzo di articolati accertamenti in ordine agli elementi costitutivi del diritto, con particolare riferimento alle modalità di accadimento del fatto ed al nesso di causalità con l’attività lavorativa .
E’ stato, pertanto affermato che “l'esistenza di un termine di prescrizione del diritto alla rendita risponde a due innegabili esigenze: l'una, pubblicistica, di pronto accertamento dei fatti (in considerazione anche della necessaria indagine sul nesso eziologico), e l'altra, privatistica, di rapido conseguimento della prestazione da parte dell'avente diritto”, il che è sufficiente giustificazione di un termine di prescrizione triennale (Corte cost., n. 297 del 1999).
Essendo il diritto soggetto a prescrizione, l’articolo 111 del d.P.R. n. 1124 del 1965 dispone che il termine di prescrizione rimane sospeso durante la liquidazione in via amministrativa dell’indennità, che deve essere esaurita nel termine di centocinquanta giorni per gli infortuni sul lavoro e di duecentodieci per le malattie professionali.
La giurisprudenza di legittimità ha fatto registrare contrastanti orientamenti sul punto se la sospensione cessa con lo scadere dei sopra indicati termini o se si protragga fino alla effettiva conclusione del procedimento amministrativo, se successiva allo scadere dei termini stessi.
La vexata quaestio è stata risolta dalla Corte di Cassazione, a SS.UU., con sentenza del 7 maggio 2019 n. 11928, affermando che “il termine di prescrizione delle azioni per conseguire le prestazioni dell’INAIL di cui all’art. 112 del d.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124 è sospeso durante la pendenza del procedimento amministrativo anche ove questo non si concluda nel termine di 150 giorni (210 per lemalattie professionali- n.d.r.) previsto dalla legge”.
In conclusione si ritiene di poter affermare che il nuovo rito del lavoro deve la propria longevità al fatto di essere la migliore soluzione che il legislatore abbia adottato in questo mezzo secolo in materia processuale.
Di tanto è conferma il Decreto Legislativo del 10 ottobre 2022, n. 149, meglio noto come Riforma Cartabia, che, lungi dall’apportare sostanziali modifiche al rito lavoro, ne ha confermato l’impianto strutturale, limitandosi a marginali aggiornamenti, quale la possibilità per il giudice di ordinare che l’udienza si svolga mediante collegamenti audiovisivi a distanza.e ne ha, invece, tratto spunto per alcuni interventi nigliorativi del rito civile ordinario.
L’auspicio finale è che il legislatore, dopo essere intervenuto sul piano processuale, ponga la propria attenzione a una organica riforma strutturale del diritto del lavoro che, portando al superamento dello stato di incertezza attuale, si rivelerebbe il pià efficace fattore di deflazione del contenzioso.