TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1 - Una “procedura nuova per una nuova «giustizia del lavoro»” .
C’era una volta il nuovo processo del lavoro.
Nato dalla amara, ma non rassegnata, constatazione che “la realtà processuale delle controversie individuali di lavoro o di previdenza e assistenza obbligatoria, diviene ogni giorno di più patologica, e tale da costituire un vero e proprio processo di vanificazione dei diritti dei lavoratori: dalle lungaggini temporali crescenti, all’aumento dei costi, all’inadeguatezza dei giudici e dei mezzi processuali”.
E dall’urgenza di arginare la “fuga dalla giustizia della Repubblica fondata sul lavoro” , dovuta alla “drammaticità della situazione attuale derivante dall'esasperante lentezza dei procedimenti, che si traduce in un danno, il più delle volte irreparabile, per i lavoratori, i quali sfiduciati, stanchi, fiaccati nella loro capacità di resistenza, sono molto spesso costretti a subire ricatti, accettando umilianti transazioni” .
La “fuga dalla giustizia della Repubblica fondata sul lavoro”, era considerata, all’epoca, un male assoluto da combattere.
All’epoca.
Non che, già allora, non si percepisse il rischio di un possibile uso strumentale del processo del lavoro con effetto inflazionistico. “É, purtroppo, nella natura umana, la tendenza a cercare il cavillo o, comunque, il sistema, per dare meno, o per agitare lo spauracchio di lunghe liti per tentare di avere di più. I conflitti di lavoro sono ineliminabili; quello che occorre è di fare in modo che la fase del contrasto, rapidamente e secondo giustizia, possa chiudersi, scoraggiando le opposte speculazioni” .
Ma questa non era certo ragione per non attuare, attraverso il processo, il diritto del lavoro.
E non che, già allora, non si confidasse nella conciliazione come strumento prioritario di soluzione delle liti.
Si era pure discusso sul se mantenere l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione di matrice corporativa. Ma poi, pur se reso facoltativo, lo si è comunque sistemato in prima fila: individuata la competenza per materia, la seconda disposizione della nuova “disciplina delle controversie individuali di lavoro” è dedicata al tentativo di conciliazione (art. 410). E comunque, se non si concilia stragiudizialmente, alla prima udienza, come prima cosa, il giudice “interroga liberamente le parti e tenta la conciliazione”.
La conciliazione era un bene anche per il nuovo processo del lavoro; anche se comporta la rinuncia del lavoratore a diritti derivanti da norme inderogabili.
L’importante è che la conciliazione non sia una via di fuga dal processo e dalla giustizia del lavoro.
E che sia incentivata dall’efficienza del processo del lavoro, non dalla sua inefficienza. Non dall’essere la macchina processuale in panne. O dall’essere il giudice refrattario a farla partire e portarla rapidamente al traguardo.
Si concilia perché c’è una giustizia del lavoro, un giudice del lavoro, non perché non c’è.
Si concilia benché si abbia fiducia nella giustizia del lavoro, non perché non se nutre alcuna e si teme che il giudice del lavoro rincari la dose.
E comunque, alle origini del nuovo processo del lavoro, la prevista conciliazione era l’alternativa ad un processo del lavoro immediato ed efficiente, la cui durata, comunque, non giovava più al datore di lavoro: colpito dalla “ordinanza di pagamento di somme”, costituente titolo esecutivo (art. 423); dal dispositivo immediatamente esecutivo letto in udienza (art. 429, primo comma); dalla rivalutazione automatica dei crediti di lavoro in aggiunta agli interessi nella misura legale (art. 429, n. 3; un tasso fisso del 10% era previsto nel progetto originario); dal regime differenziato della “esecutorietà della sentenza” che pronuncia condanna a favore del lavoratore per crediti di lavoro che può essere sospesa solo “quando dalla stessa possa derivare all’altra parte gravissimo danno” (art. 431); dalla (pur assai controversa) stabilizzazione degli effetti della sentenza di primo grado fino al passaggio in giudicato della sentenza di riforma in appello (art. 337 nel testo originario).
Nelle parole di chi le ha illustrate “le nuove norme si propongono soltanto di rendere semplici le forme del procedimento, di evitare le manovre dilatorie, di non premiare queste ultime attraverso il lucro sulle somme dovute e non versate a tempo debito di superare i cavilli ed i trabocchetti processuali al fine di una rapida conclusione del processo, di scoraggiare, infine, il ricorso alle sedi giudiziari, venendo a mancare il tornaconto e non essendo concesso più un premio alla litigiosità programmata” .
Ed ora? A distanza di mezzo secolo?
Chi ha paura del processo del lavoro?
Quale minaccia è più convincente: ti faccio causa? Oppure il “famme causa” del Marchese del Grillo all’ebanista che gli presenta il conticino?
2 – Ma una “procedura nuova” non basta senza un “nuovo” giudice del lavoro
Non era però solo questione di procedura. Ma di inadeguatezza del giudice. Il “grande malato”, si diceva .
La macchina processuale, per essere veloce ed efficiente, doveva essere una monoposto. Con un uomo solo al comando. Non un dispersivo equipaggio di cariatidi, ma un single pilot giovane e motivato, con un ruolo vergine, “proteso verso il futuro piuttosto che schiavo del passato” , che “acquisti una sempre più concreta specializzazione e, anche se togato, diventi sempre più sensibile ai problemi che interessano il mondo del lavoro” . Consapevole che “con la nuova normativa sono stati offerti al lavoratore strumenti processuali celeri per ottenere il soddisfacimento dei suoi diritti, privilegiando così la posizione di una delle parti delle controversie di lavoro – il lavoratore – rispetto all’altra parte – il datore di lavoro –” .
Che non significa affatto parteggiare per i lavoratori, ma attuare nel processo le tutele per loro previste.
Un giudice neutrale. Ma chiamato ad amministrare una “tutela processuale differenziata” modellata sulla particolare natura dei diritti del lavoratore oggetto del giudizio.
La riforma, si era giustamente detto, “ha cercato, molto lodevolmente, di conciliare due tendenze apparentemente contrastanti: la prima, di trasferire, in certo qual modo, il principio di «favor» dal piano sostanziale al piano processuale, la seconda, di non discostarsi dai principi, costituzionalmente garantiti, della parità di posizioni delle parti nel processo e del diritto di difesa” .
Chiovenda, nume tutelare dei principi di oralità, immediatezza e concentrazione, lo aveva detto nel 1918: “la necessità di dettare norme particolari per giudizi che interessano persone umili e normalmente incolte (operai, contadini) in lotta contro avversari potenti (datori di lavoro, istituti d'assicurazione), per la definizione di questioni richiedenti una pronta liquidazione, doveva naturalmente esser sentita in un paese come il nostro, in cui il processo ordinario è cosi inadeguato a questo genere di conflitti. Le particolarità riguardano specialmente la conformazione del giudice, l'ordinamento della difesa e il procedimento” .
Messi in mano ad un giudice monocratico quei principi funzionavano al meglio. E, del resto, il pretore era stato già chiamato a conoscere delle controversie derivanti dall’applicazione delle norme sui licenziamenti individuali (art. 6, comma 3, l. n. 604 del 1966) e, dopo quattro anni, e senza ulteriore avviso, delle ben più rilevanti controversie aventi ad oggetto l'impugnativa dei licenziamenti nelle ipotesi regolate dall’art. 18, l. n. 300 del 1970, anche quando dovessero essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro (per mutuare l’espressione che, quarant’anni dopo, sarebbe stata usata dell’art. 1, comma 47, l. n. 92 del 2012); nonché delle domande di cui all’art. 28 e 16, comma 2, l. n. 300 del 1970.
Il “nuovo giudice” era stato scelto prima della “procedura nuova”, poi modellata su di lui.
Ma allora è da quel giudice, immedesimato organicamente nel suo processo, che ne dipende il funzionamento; da quel giudice che in quella pretura e, poi, in quel tribunale, impersona la giustizia del lavoro. Tutto dipende dalla sua preparazione, dalla sua capacità organizzativa, dalle sue motivazioni, dalla sua sensibilità giuslavoristica, dalla sua tensione ideale.
E, se si tratta di più giudici del lavoro assegnati alla sezione, andarne a leggere il nome nel decreto di fissazione dell’udienza è la prima cosa che viene in mente, un riflesso incondizionato, per capire cosa c’è da aspettarsi e come andrà a finire.
3 – I poteri istruttori del giudice
Già il vecchio art. 439 riconosceva i “poteri istruttori del giudice” che “può disporre d'ufficio tutti i mezzi di prova che ritiene opportuni” e “disporre la prova testimoniale anche fuori dei limiti stabiliti dal codice civile”.
Ma la potenza è nulla senza controllo.
Ed il controllo è dato dalla conoscenza dei fatti controversi e delle linee difensive, dalla padronanza della materia e del mezzo processuale, dalla consapevolezza della propria “funzione di giudice del lavoro”.
Secondo i padri costituenti del nuovo processo del lavoro, alla prima udienza - non a caso “di discussione” e non “di prima comparizione” (che potrebbe essere anche l’ultima ) - il giudice non deve annaspare spaesato, in balia delle parti, davanti ad un (impersonale ed ostile) fascicolo da smaltire, con in testa un solo impulso: quello di liberarsene con un mero rinvio travestito in vario modo. Ma deve essere lui a condurre il gioco, pronto a decidere.
E per poter decidere (anche di istruire) deve aver già potuto-dovuto studiare la causa prima, ed in vista, della prima udienza “nella quale il giudice, sul presupposto di una effettiva conoscenza dei termini della lite – che s’impone per gli adempimenti cui è tenuto e per le decisioni che deve adottare – deve prendere il timone dell’andamento della causa senza prestarsi a sotterfugi di qualsiasi genere” .
Di qui la forma del ricorso da notificarsi a cura della parte; il termine di costituzione del convenuto dieci giorni prima dell’udienza; il “potenziamento della fase preparatoria della prima udienza di trattazione attraverso l'obbligo imposto alle parti — a pena di decadenza — di «calare le carte», «scoprire le batterie», «vuotare il sacco», sin dagli atti introduttivi del giudizio” .
E come l'attore, “senza riserva alcuna, deve fin dall'atto introduttivo dire tutto ciò che ritiene utile alla sua difesa, fornire tutto il materiale sul quale basa la sua pretesa, in modo che il convenuto ed il giudice possano avere un quadro
esatto dell'oggetto della lite, delle ragioni poste a fondamento della stessa e delle prove che sostengono la pretesa” così il convenuto “fin dalla prima difesa deve vuotare completamente il sacco, deve dire tutto ciò che ritiene utile per contrastare la domanda, deve fornire tutto il materiale probatorio. Non si può mantenere, in sostanza, in una posizione equivoca e di attesa”.
Ma tutto ciò serve soltanto “a mettere il giudice nella condizione di conoscere prima dell'udienza di discussione gli esatti termini della lite, rilevare eventuali lacune, farsi un'idea precisa della materia del contendere, prendere parte attiva nello svolgimento del processo” .
Non, al contrario, per consentirgli di decidere, per così dire, allo stato degli atti, approfittando di errori, lacune, infortuni, per liberarsi sbrigativamente della causa, previo formalistico rilievo processuale di una decadenza e rifiuto di doverosi approfondimenti su circostanze comunque allegate.
Proprio “al fine di impedire che la rigidità del sistema possa risolversi in danno dell’accertamento della verità, vengono ampliati i poteri istruttori del giudice” . Ecco perché, bandendo ogni formalismo, “indica alle parti in ogni momento le irregolarità degli atti e dei documenti che possono essere sanate, assegnando un termine per provvedervi” (art. 421, comma 1) e “può altresì disporre d'ufficio in qualsiasi momento l'ammissione di ogni mezzo di prova” (comma 2).
Senza che la norma consideri eccezionale l’esercizio di un siffatto potere o pretenda che sia la parte interessata a sollecitarne l’esercizio. Lo pretende, però, oggi, la Suprema Corte, perché sia censurabile in sede di legittimità l’omesso esercizio dei poteri istruttori del giudice.
I limiti derivano, naturalmente, dal principio dispositivo: le parti non sono esonerate dall’onere di allegazione; non sono esonerate dall’onere della prova; i poteri istruttori possono (debbono) esercitarsi in favore di entrambe le parti (la verità è di tutti); il giudice non può fare ricorso alla propria scienza privata.
Ma entro tali limiti, “La particolare esigenza di perseguire la verità materiale — derivante dalla particolare rilevanza delle situazioni soggetti ve implicate nel rapporto di lavoro — impone l'attribuzione al giudice di poteri istruttori d'ufficio, poteri che non rappresentano, pertanto, solo una valvola di sfogo del sistema anticipato di preclusioni in punto di prova, ma anche strumento indispensabile di giustizia sostanziale”
Il processo del lavoro assume così “in via primaria la funzione di strumento tendenzialmente volto alla ricerca della verità e all'attuazione della giustizia, più che alla mera realizzazione della pace giuridica” .
Gli stessi giudici erano consapevoli di essere “chiamati ad amministrare, non una giustizia formale, e tradizionale, ma un nuovo tipo di giustizia in senso sostanziale”.
Eccolo spiegato da loro stessi: “Noi, giudici civili, siamo abituati ad un processo di tipo dispositivo che spesso ci fa comprendere, o, almeno, intuire, che la nostra sentenza solo formalmente è conforme alla legge e al vero. Troppo spesso dobbiamo constatare, senza, però, potervi porre riparo, che se una parte avesse tempestivamente proposta una qualche eccezione (non rilevabile di ufficio), o avesse chiesto di provare un qualche fatto che pure aveva allegato, la nostra sentenza, molto probabilmente, sarebbe stata diversa e avrebbe rispecchiata, non una verità solo formale, ma la verità e la giustizia sostanziale”.
Un’abitudine che il nuovo processo del lavoro avrebbe dovuto correggere: “noi giudici potremo assolvere al nuovo ruolo e alla nuova funzione - che sarei tentato di definire sociale - che l'emananda legge di riforma del processo del lavoro ci assegna, solo se saremo particolarmente sensibili ai nuovi fermenti, ai nuovi fenomeni e ai nuovi rapporti sociali in continua evoluzione, e se riusciremo, così come lo impone la nuova procedura, a prendere in mano il timone del processo fin dalla prima udienza di discussione, se non anche prima, al momento della lettura del ricorso e della fissazione dell'udienza di discussione.
All'effettiva direzione del processo si dovrà accompagnare una concreta, costante, partecipazione allo stesso da parte nostra, specie attraverso il corretto uso degli ampi poteri istruttori conferitici, e che sono destinati a realizzare quel nuovo tipo di giustizia di cui innanzi si è parlato” .
Il giudice: l’uomo vitruviano del processo del lavoro. Che non deve avere paura del giudizio.
E “qui tocchiamo il formalismo nella sua vera e ultima radice, che è l’uomo”.
Se “in sostanza, il formalismo non è altro che una manifestazione di paura: paura del giudizio, della grande opzione tra i due interessi in contrasto”, all’uomo, giudice del lavoro, si chiedeva di non “evadere” nel formalismo, di non “risolvere il giudizio in termini di processo” .
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Sui poteri istruttori del giudice del lavoro avrebbe poi inciso (nel senso di renderne meno necessario, o precluderne l’esercizio) il principio di non contestazione, perché i fatti non contestati “restano estranei alla materia del contendere ed al conseguente potere di accertamento del giudicante” (Cass. S.U. 23 gennaio 2002, n. 761), purché si tratti di fatti costitutivi e non di fatti che servono a provarli o implicanti attività di giudizio. Ma deve contestare non solo il datore di lavoro, nella memoria, i fatti costitutivi della domanda, ma anche il lavoratore, alla prima udienza, i fatti estintivi dedotti nella memoria dal datore di lavoro. La tentazione, per il giudice, potrebbe essere quella di approfittarne per fermarsi lì, senza esercitare i propri poteri istruttori.
Sui poteri istruttori del giudice avrebbe inciso pure il principio della vicinanza ai fatti da provare e della disponibilità dei mezzi di prova, applicato al numero dei dipendenti, ritenuto “fatto impeditivo” del diritto alla tutela reale così da addossarne sul datore l’onere probatorio (Cass. S.U. 10 gennaio 2006, n. 141): a maggior ragione quel principio avrebbe dovuto attecchire in complesse, oscure ed intricate vicende aziendali a rischio di aggiramento delle tutele, quali l’unicità del soggetto imprenditoriale che si assuma fraudolentemente articolato in più soggetti; la genuinità degli appalti; la sussistenza dei presupposti per l’applicazione dell’art. 2112 c.c. se invocato dai lavoratori rimasti dov’erano (mentre è il datore di lavoro a doverli provare nei confronti dei lavoratori mandati dove non volevano andare). Ed allora, in questi casi, potrebbero, ed anzi dovrebbero, riespandersi i poteri istruttori del giudice.
Ma bisogna volerlo.
E complessità, incertezza, confusione, elusione sono parole che fanno rima con conciliazione, più che con trattazione ed istruzione.
4 – Contenzioso seriale e crisi del processo del lavoro
4.1 – L’assalto dei dipendenti degli enti privatizzati (ferrovieri, postali & C.)
Dicevamo di atteggiamento, di motivazioni, di mentalità, di sensibilità, di tensione ideale, di protagonismo del giudice del lavoro. Di habitus, di forma mentis.
Ma in cinquant’anni tutto è cambiato. E già da molto tempo.
Per quanto poco, o per nulla, sia cambiato il processo del lavoro; le norme che lo regolano.
È il giudice del lavoro ad essere cambiato, ad essere stato indotto a cambiare. E senza un giudice del lavoro, così come se lo immaginavano i visionari riformisti del 1973, il processo del lavoro non può funzionare.
Ma quando e perché tutto è cambiato. Non tanto nel processo, quanto nella mente e nello spirito del giudice del lavoro?
Già molto era cambiato durante l’adolescenza del diritto del lavoro, al compimento della maggiore età del processo del lavoro.
La prima ondata di contenzioso, dovuta alla privatizzazione dell’Azienda autonoma ferrovie dello stato nel 1985, aveva già messo in crisi il processo del lavoro. Ma (almeno così si pensava, o si sperava) era stata soltanto l’alluvione vertenziale a provocare l’aumento della durata dei processi. Non “un calo di tensione ideale” del giudice del lavoro .
Altre privatizzazioni di soggetti pubblici sarebbero seguite: quella dell’Amministrazione delle poste e delle telecomunicazioni e dell’Azienda nazionale autonoma delle strade, trasformate in enti pubblici economici nel 1993 e nel 1994.
Ma non era solo un problema quantitativo.
La serialità spersonalizza il contenzioso, vi si smarrisce e dissolve la persona del lavoratore implicata nel rapporto di lavoro; e, magari, ad apparire debole e meritevole di tutela, è piuttosto chi subisce l’attacco seriale; che non è solo il datore di lavoro, ma anche il giudice. Solidali nel subirlo. E nel difendersene. Se non altro per istinto di sopravvivenza.
4.2– Il temuto assalto dei dipendenti pubblici privatizzati e la linea Maginot
Ma c’è un’altra fatidica data da ricordare: quella del 30 giugno 1998. A quasi 27 anni dalla nascita del nuovo processo del lavoro.
Se tanto mi dà tanto, fatte le dovute proporzioni, ci si interrogava sgomenti, quanto inciderà sulla durata dei processi, e sull’efficienza della giustizia del lavoro, la devoluzione al giudice del lavoro delle controversie di lavoro dei dipendenti da pubbliche amministrazioni?
Delegato a “prevedere misure organizzative e processuali anche di carattere generale atte a prevenire disfunzioni dovute al sovraccarico del contenzioso”, nonché “procedure stragiudiziali di conciliazione e arbitrato” il governo aveva reso obbligatorio il tentativo di conciliazione , e previsto una serie di misure intimamente connesse per fronteggiare l’imponente contenzioso seriale provocato dalla controversa interpretazione di norme di contratto collettivo: il ricorso in cassazione per violazione e falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi nazionali ; l’accordo di “interpretazione autentica del contratto collettivo” con effetto sulle controversie individuali in corso senza il consenso delle parti interessate ; “l’accertamento pregiudiziale sull’efficacia, validità ed interpretazione del contratto collettivo” ; la pubblicazione dei contratti collettivi e accordi nazionali nella Gazzetta ufficiale .
I focolai dovevano essere spenti prima che divampassero: o mediante interpretazione autentica provocata dal giudice, o, in difetto (ed in subordine), mediante un intervento nomofilattico accelerato e potenziato della Suprema Corte, esteso, per la prima volta, alle norme di contratto collettivo. E, dopo qualche anno, esteso ai contratti collettivi del settore privato .
Si volevano così neutralizzare “due conosciuti fattori di contenzioso seriale e di alterazione degli equilibri dei contratti collettivi: l’interpretazione giudiziale delle disposizioni contrattuali oscure e la sostituzione automatica delle disposizioni contrattuali in contrasto con norme imperative di legge” . E ciò per non compromettere il fine dichiarato della privatizzazione, accrescere l’efficienza della pubblica amministrazione e contenere la spesa personale, e per non infliggere, col trapasso di giurisdizione un colpo mortale all’efficienza di una pubblica amministrazione in particolare: quella giudiziaria.
L’idea di saltare qualche passaggio con un “rinvio pregiudiziale” alla Suprema Corte ha fatto breccia al di fuori del processo del lavoro.
Ed ecco, ora, l’art. 363-bis c.p.c. introdotto dall’art. 3, comma 27 D.lgs. n. 149 del 2022, indurre in tentazione il giudice di merito, che può sottrarsi al “dramma del giudizio”, come lo chiamava Satta, qualora avesse la sfortuna di imbattersi in una questione di puro diritto, nuova, rilevante per il giudizio, complessa ed idonea a generare un contenzioso seriale.
Ma, stavolta, il giudice non deve, assumendosi le proprie responsabilità, decidere con sentenza parziale “impugnabile soltanto con ricorso immediato per cassazione da proporsi entro sessanta giorni” (art. 64 comma 3, D.lgs. n. 165 del 2001 e 420-bis c.p.c.), ma solo individuare con ordinanza motivata la questione, recante “specifica indicazione delle diverse interpretazioni possibili” (quelle contrapposte delle parti) che sarà poi la cassazione a decidere, rompendo il ghiaccio.
4.3 - La crisi di identità del giudice del lavoro: gli interessi altri da tutelare
Ma non è stato soltanto il timor panico del contenzioso seriale a mettere il giudice sulla difensiva.
Se si pensa alle finalità pubblicistiche della cosiddetta privatizzazione. Alla sua ratio.
Un diritto del lavoro nell’interesse della pubblica amministrazione. Anzi, nemmeno diritto del lavoro, ma un diritto dell’organizzazione del lavoro nella pubblica amministrazione.
Non è, ancora una volta, solo una questione quantitativa: è “la pubblica amministrazione datrice di lavoro […] il vero soggetto debole che la privatizzazione mira a tutelare, cosicché è parso persino “inopportuno che le controversie promosse contro di essa venissero affidate ad un giudice ritenuto tradizionalmente orientato in favore del lavoratore” .
A meno di non ritenere che “la presenza dinanzi allo stesso giudice della P.A. dalla stessa parte degli altri datori di lavoro rafforzerà la posizione di questi ultimi e metterà in crisi l’ideologia della «giustizia del lavoro», che non si troverà più a dover scegliere tra due interessi, quello dell’operatore economico (nella logica del profitto) e quello del lavoratore (nella logica promozionale di classe), dei quali, quest’ultimo ha una valenza costituzionale superiore, ma a dover fare i conti con l’interesse pubblico, comunque sotteso a quello dell’Amministratore in giudizio” .
Se si considera la ratio dell’estensione del diritto del lavoro (efficienza, contenimento della spesa, flessibilità, intangibilità dell’organizzazione pubblica) il giudice, nel dubbio, deciderà in base al criterio del favor per la pubblica amministrazione.
E del resto non sono state estese ai pubblici dipendenti le tutele più contensiogene, ed in particolare la tutela reale per l’abuso delle “forme contrattuali flessibili di assunzione e di impiego del personale” e per il mansionismo. Ciò che ha reso assai meno devastante del previsto l’impatto del contenzioso. Una certa predisposizione al rigetto dei ricorsi di lavoro pubblico a scopo antinflazionistico ha fatto il resto.
Anche con riferimento al personale delle società a controllo pubblico (che pubbliche amministrazioni non sono), focolai di contenzioso da abuso clientelare di forme flessibili di utilizzo del personale sono stati spenti dalla tendenza espansiva del regime pubblicistico anticonversione (benché non imposto dall’art. 97 Cost.), cui non sembra affatto estranea una preoccupazione deflativa del contenzioso.
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Ma anche nel settore privato da tempo non si sa più bene cosa sia meglio per i lavoratori: se le tutele degli insider (attuate nel processo del lavoro) non finiscano per danneggiare gli outsider. I giuslavoristi più illuminati, aperti alle ragioni dell’economia, non hanno avuto dubbi. Ed hanno fatto proseliti.
È da tempo in discussione proprio il modello di tutela che il giudice del lavoro attua nel processo: basato su diritti indisponibili derivanti dalle norme inderogabili che regolano il rapporto di lavoro. Il ricatto occupazionale in un’economia globalizzata non ha argine nel diritto del lavoro nazionale. É piuttosto nel mercato che il lavoratore deve essere tutelato, “rendendo più efficiente, coerente ed equo l’assetto degli ammortizzatori sociali e delle politiche attive in una prospettiva di universalizzazione e di rafforzamento dell'occupabilità delle persone”.
Troppe tutele sul (e del) posto di lavoro, a partire da quella reintegratoria (madre di tutte le tutele) impediscono al mercato del lavoro di funzionare. Ed il “governo ritiene che alla nozione di sicurezza data dall’inamovibilità del singolo rispetto al proprio posto di lavoro occorra sostituire un concetto di sicurezza conferito dalla possibilità di scelta effettiva nel mercato del lavoro” . Non solo quel governo. Tutti i governi succedutisi, chi più chi meno. Anzi, più il governo è pro labour più passa liscia la riforma che fa crescere il mercato.
Ed i giudici non potevano restare insensibili allo spirito del tempo.
5 – Crisi di identità del diritto del lavoro e processo del lavoro: la torbida stagione del diritto del lavoro dei consulenti del lavoro e dei giuslavoristi di prossimità
5.1 – Le norme inderogabili sempre meno inderogabili
Già in occasione della maggiore età del processo del lavoro si era dovuto constatare essere “vero, infatti, che l'evoluzione del contenuto del contenzioso del lavoro ha di certo subito le conseguenze del mutarsi del contenuto della legislazione sostanziale (e della perdita di centralità della norma inderogabile) e del suo spostarsi «in una direzione che non è precisamente quella dei grandi obiettivi di emancipazione indicati dal capoverso dell'art. 3 Cost.”.
Ed eravamo appena agli inizi.
Il rapporto sinergico tra statuto dei lavoratori (art. 18) e nuovo processo del lavoro era sotto gli occhi di tutti: “Una interessante indagine (Treu ed altri) ha dimostrato che lo Statuto dei lavoratori si è rivelato come una legge ad altro grado di effettività…l’introduzione del nuovo processo del lavoro, pur con tutti i suoi limiti di efficienza, ha aperto la strada ad un contenzioso di dimensioni e qualità nuovi…” .
E poi “Non sono necessarie indagini sociologiche approfondite per ricordare che la dimensione di tutela dei diritti, mediante l’intervento del giudice, si sia affermata a seguito dell’introduzione della legge sui licenziamenti”.
Prima, invece, si era constatato che una “proporzione elevatissima delle altre controversie (particolarmente quelle sulle retribuzioni e sulla qualifica) risulta spostata, artificiosamente, al momento successivo alla cessazione del rapporto. Ciò significa che, perdurando il rapporto stesso, e per cause facilmente intuibili (timore di licenziamento o di nocumento di carriera, soggezione rivereziale) vi è, di fatto, una sospensione delle garanzie legali offerte al lavoratore” .
L’art. 18 in particolare è stato il più formidabile strumento inflativo del contenzioso. Un fomentatore di cause. Anche in costanza di rapporto.
Ma evidentemente era troppo.
E persino il padre putativo sembrava avesse rinnegato la propria creatura: “lo statuto dei lavoratori presenta molti lati di ambiguità, perché nel momento in cui volle opporre al potere dell’imprenditore un contropotere in realtà di contropoteri ne mise in atto due: uno fu quello del sindacato, l’altro quello del giudice” .
Proprio il contropotere giudiziario sarebbe presto finito sul banco degli imputati per l’incauto maneggio di norme inderogabili a precetto generico: “sono proprio le norme a precetto generico a veicolare quella esiziale incertezza inevitabilmente derivante dall’apprezzamento discrezionale del singolo magistrato” .
Ed invitato a darsi una calmata. La massima sui “limiti al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro”, che i giudici da sempre ripetevano nelle sentenze, è diventata massima legale nel famigerato “collegato lavoro” del 2010, quasi li si volesse offensivamente sollecitare a passare dalle parole ai fatti: “in tutti i casi” di norme inderogabili che “contengano clausole generali, ivi comprese le norme in tema di instaurazione di un rapporto di lavoro, esercizio dei poteri datoriali, trasferimento di azienda e recesso il controllo giudiziale è limitato esclusivamente, in conformità ai principi generali dell'ordinamento, all'accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro o al committente” (art. 30, comma 1, l. n. 183 del 2010). Ma non lo sapevano già? L’invito (a limitare il controllo su qualificazioni e valutazioni datoriali) è ripetuto nei due commi successivi con riferimento all’indagine sulla natura del rapporto e sui motivi del licenziamento.
La stagione del diritto del lavoro dell’emergenza, del garantismo flessibile (delle deroghe autorizzate alle tutele legali ed alla contrattazione nazionale) già da tempo aveva messo in crisi l’idea monistica della norma inderogabile. Ed il contropotere sindacale si era sovente stemperato in una sorta di collaborazionismo per la gestione concertata della crisi d’impresa in deroga alle tutele, al punto da far percepire ai lavoratori il peso soverchiante, in azienda, di due contropoteri al posto di uno: datoriale e sindacale uniti nella lotta. Ed a far sembrare il contropotere giudiziario l’ultima spiaggia. Ed il giudice del lavoro l’unico baluardo.
Nell’estate del 2011 ai contratti di prossimità era stata delegata la riforma del mercato del lavoro e la deroga con effetto erga omnes alla legge ed al contratto collettivo in una serie di “materie inerenti l’organizzazione del lavoro e della produzione”.
Su quelle stesse materie (impianti audiovisivi, mansioni, contratti a termine, appalti, collaborazioni, effetto del licenziamento), sarebbe poi intervenuta direttamente la legge in deroga a se stessa. E così il contratto di prossimità, sostituito dalla legge nello smantellamento delle tutele, è oggi come un cecchino rintanato tra le macerie del diritto del lavoro pronto a sparare alle tutele superstiti.
Il Jobs Act ha poi consentito nel 2015, in coincidenza con l’abrogazione della disciplina del lavoro a progetto (non la deroga a singole tutele, ma) l’integrale bonifica di interi “settori” dal rischio di attecchimento del diritto del lavoro con riferimento a collaborazioni eterorganizzate (indistinguibili da quelle che in sede contenziosa i giudici qualificherebbero come a subordinazione attenuata): basta che, “in ragione delle particolari esigenze produttive ed organizzative” di detti settori “gli accordi collettivi stipulati da associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale prevedono discipline specifiche riguardanti il trattamento economico e normativo” e l’estensione della disciplina del lavoro subordinato è scongiurata.
Si è forse con ciò consentito di disporre del tipo lavoro subordinato (che ha sempre compreso la subordinazione attenuata)?
Quel che è certo è che l’incertezza qualificatoria (anche nelle cause di licenziamento nelle quali devono essere risolte questioni di qualificazione del rapporto) si traduce in incertezza sull’esito del contenzioso. E concorre a sollecitarne la chiusura conciliativa.
5.1 - I diritti indisponibili sempre meno indisponibili
Ma anche i diritti che derivano dalle norme (sempre meno) inderogabili sono (sempre meno) indisponibili. La conciliazione, giudiziale o, meglio, stragiudiziale, è il mantra del legislatore della degiurisdizionalizzazione e della deflazione del contenzioso. Un bene in sé. Per un interesse proprio dell’amministrazione dello Stato e della Giustizia. Al di sopra di quello delle stesse parti. Il giudice è indotto a tifare per la conciliazione (salvo che non gli appaia ancor più immediato ed a portata di mano il rigetto, ad esempio per una eccepita decadenza), ciò che finisce per favorire la parte a maggiore rischio di soccombenza (più interessata a conciliare).
Il “collegato lavoro” del 2010 sembra considerare il giudice del lavoro come la persona meno adatta a decidere una vertenza di lavoro. E se proprio qualcuna dovesse ancora capitargli, gli rifila prima di tutto il compito di “formulare alle parti una proposta transattiva” il cui “rifiuto senza giustificato motivo” costituisce “comportamento valutabile dal giudice ai fini del giudizio” (art. 31, comma 4, l. n. 183 del 2010), immaginando che il giudice traduca la norma in un avvertimento alle parti.
Il processo civile si sarebbe presto adeguato col prevedere “la proposta conciliativa del giudice” .
Ma comunque l’auspicio è che al giudice non ci si arrivi proprio.
E quanto, malauguratamente, ci si arrivi, la prima cosa che il giudice chiede alle parti è: vi siete sentiti?
Vigeva un tempo “un antico canone di deontologia, non solo forense, che vuole «dimenticato» (o, addirittura, mai scritto nella memoria) quel che si è udito nel corso di trattative di conciliazione non andate in porto” . Anche per questo era stato espunto dal testo definitivo dell’art. 412 quanto previsto in quello approvato dalla camera, e cioè che nel verbale di mancata conciliazione fossero indicati gli elementi di fatto emersi nella discussione e le ragioni della mancata conciliazione.
Ora, invece, il legislatore sembra voler additare al giudice un colpevole della mancata conciliazione. Anche “la commissione di conciliazione deve formulare una proposta per la bonaria definizione della controversia” se non è raggiunto un accordo. E “delle risultanze della proposta formulata dalla commissione e non accettata senza adeguata motivazione il giudice tiene conto in sede di giudizio” (art. 31, comma 3, l. n. 183 del 2010, nel riscrivere l’art. 411).
Ciò che alimenta talora non commendevoli balletti tra avvocati davanti al giudice sul chi si sia sforzato di più o di meno nel provarci; o induce gli avvocati a forzare il giudice a fare la proposta transattiva, sperando sia meno conveniente di quella anticipata al collega fuori dalla porta, ma non svelata al giudice.
Il tentativo di conciliazione ritorna tra un’udienza istruttoria e l’altra, ritorna all’udienza finale, ritorna in appello. Talora i termini della mancata conciliazione riaffiorano in una decisione di compromesso. Ed il giudice, indotto a farlo, sembra accanirsi su chi ritenga responsabile della fallita conciliazione, mettendoci del suo.
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Ma l’auspicio è che quella proposta transattiva il giudice non debba farla perché le parti hanno già conciliato.
Nel 2010 è stato edificato tutto un micidiale sistema a ciò preordinato.
Il collegato lavoro ha saldato l’effetto abdicativo della conciliazione con quello dissuasivo della certificazione, anche postuma (art. 31, commi 13 e 17, L. n. 183 del 2010), perché è più facile che concili un lavoratore dissuaso che non uno fomentato.
A differenza della conciliazione, la certificazione dissuasiva è sempre in costanza di rapporto, non solo al momento dell’assunzione (“nel quale massima è la condizione di debolezza della parte che offre la prestazione di lavoro” ), ma anche “in caso di contratti in corso di esecuzione”, con effetto “dal momento di inizio del contratto, ove la commissione abbia appurato che l’attuazione del medesimo è stata, anche nel periodo precedente alla propria attività istruttoria, coerente con quanto appurato in tale sede” (art. 31, comma 17).
E perché, allora, non conciliare davanti a chi ha certificato la corretta esecuzione del contratto, una volta che davanti ai certificatori si può anche conciliare (art. 31, comma 12)? Se poi non si concilia, chi “presenti ricorso giurisdizionale contro la certificazione” dovrà comunque tornare davanti a quello stesso certificatore per l’unico tentativo di conciliazione rimasto obbligatorio (art. 31 comma 2). E quella commissione non sarà del tutto neutrale nel condurre il tentativo di conciliazione promosso da quel lavoratore che abbia osato contestarne l’operato.
Nessuno pare essersi scandalizzato quando, con un comma infilato nella finanziaria per il 2006 , si è consentito di istituire commissioni di certificazione persino “presso gli ordini provinciali dei consulenti del lavoro di cui alla legge 11 gennaio 1979, n. 12”, cioè, presso coloro che curano “tutti gli adempimenti in materia di lavoro, previdenza ed assistenza sociale dei lavoratori dipendenti, quando non sono curati dal datore di lavoro, direttamente od a mezzo di propri dipendenti” (art. 1 della legge citata). E sono ora investiti della funzione di certificare, ad esempio, la genuinità di un contratto non subordinato, o di un appalto, magari redatti proprio da un collega consulente del lavoro per un’azienda cliente. Canis canem non est.
E nessuno si è scandalizzato quando, dal 2010, si è previsto che “presso le sedi di certificazione”, anche se formate solo da consulenti del lavoro, “può, altresì, essere esperito il tentativo di conciliazione di cui all'articolo 410 del codice di procedura civile” .
Finché si trattava di certificazione, mezza pena. Una cosa è la certificazione; altra cosa è la conciliazione. Consentire ai consulenti del lavoro anche di conciliare è davvero un segno dei tempi.
Se, infatti, “rimedi” sono previsti contro l’effetto dissuasivo della certificazione, nessun rimedio è previsto per annullare l’effetto abdicativo della conciliazione sottoscritta davanti a quegli stessi certificatori. Se non il vizio del consenso. Che in tal caso è in re ipsa se non fosse che il dolo qui è del legislatore.
Non mi sembra che, pur con le migliori intenzioni, consulenti aziendali che si autodefiniscono “«giuslavoristi di prossimità» con specializzazioni amministrative e sociali che esplicano le proprie funzioni favorendo lo sviluppo dei processi economici aziendali e la gestione delle risorse umane” possano assumere quel ruolo di conciliatori terzi ed imparziali davanti ai quali i lavoratori possano serenamente rinunciare ai loro diritti indisponibili derivanti da norme inderogabili di legge.
Ad ogni modo, l’idea del legislatore (tradotta poi in una prassi diffusa) è che i lavoratori debbano essere accompagnati, dalla culla alla tomba del rapporto di lavoro, in un percorso a tappe scandito da certificazioni/conciliazioni (e magari anche novazioni), periodiche e seriali, fino all’atto conciliativo finale (tombale, appunto), specie se utilizzati con contratti non subordinati a rischio qualificazione (da eliminare con rinunce ai diritti derivanti da una diversa qualificazione).
E non ci si può invece più scandalizzare (ed anzi era ora) che la valida rinuncia ai diritti indisponibili, già consentita in discutibili sedi conciliative protette (per chi?), sia stata ora consentita anche in sede di “negoziazione assistita tra avvocati”, pur se con un passaggio obbligato presso le commissioni di certificazione cui pagare un obolo (e che magari protocollano passivamente allo stesso prezzo al quale concilierebbero attivamente). Ma, anche qui, con i consulenti del lavoro a fare capolino per rivendicare inutilmente il loro ruolo di assistenza alle parti (art. 2-ter introdotto da art. 9 D.lgs. n. 149 del 2022) . Un primo passo. In attesa che siano maturi i tempi per la negoziazione assistita tra consulenti del lavoro.
5.3 – Indennizzazione delle tutele da licenziamento illegittimo e conciliazione
L’indennizzazione delle tutele favorisce la conciliazione delle cause di licenziamento. Per questo nel 1990 era stata prevista l’obbligatorietà del tentativo di conciliazione per la domanda ex art. 8, l. n. 604 del 1966 (art. 5, l. n. 108 del 1990). Per questo, nel 2012, resa (apparentemente) residuale la tutela reintegratoria per il licenziamento per giustificato motivo oggettivo era stato reso obbligatorio il tentativo di conciliazione sull’intenzione di un licenziamento ora procedimentalizzato. Se fosse fallito il giudice avrebbe punito il responsabile giocando con la misura dell’indennizzo (art. 7, comma 8, l. n. 604 del 1966).
Nel 2015 l’assoluto disinteresse del legislatore per una conciliazione giusta e commisurata al caso concreto, e per le motivazioni di principio (o di qualsiasi altra natura) sottese al suo rifiuto, si è manifestato con il dare dignità giuridica, al detto pochi, maledetti, detassati e subito. Senza dover pagare avvocati e contributi unificati. Senza dover affrontare l’alea di un giudizio sempre più aleatorio, nel quale pur sempre di un quantum fisso si discuterebbe.
Per pochi il legislatore intendeva lo sconto del 50% sul costo fisso del licenziamento ingiustificato che i datori potevano offrire ai nati orfani dell’art. 18 (art. 8, D.lgs. n. 23 del 2015). Davanti al giudice ci si poteva vantava dell’offerta conciliativa, ed esporre a biasimo chi l’avesse rifiutata. Del resto, fifty fifty è un criterio giusto per definizione.
La Corte costituzionale, nel liberalizzare le tariffe del licenziamento ingiustificato, avrebbe poi smantellato la logica dell’offerta conciliativa dimezzata.
Resta il concetto: la conciliazione, la pacificazione, è un bene in sé. Non importa se sia giusta. Purché eviti il processo. O che se ne riduca la durata del 40%. Costi quel che costi: costerebbe di più perdere i fondi del PNRR.
5.4 – Un nuovo movimento giuslavoristico: il decadentismo
Sull’atteggiamento del giudice rispetto all’esercizio dei propri poteri istruttori (anche nel superare decadenze processuali in cui sia incappato il lavoratore) ha inciso anche quello assunto dal legislatore del 2010 nell’esporre a rischio decadenza i diritti più rilevanti del lavoratore, che sono anche i più contensiogeni.
Il nuovo art. 2113 c.c., nato con il nuovo processo del lavoro, sul modello dell’art. 6, l. n. 604 del 1966, aveva introdotto la novità dell’impugnazione (non con la proposizione dell’azione, ma) “con qualsiasi atto scritto, anche stragiudiziale, del lavoratore idoneo a renderne nota la volontà”. Impugnazione giudiziale e stragiudiziale erano in alternativa.
Il timore, allora, era che il lavoratore potesse decadere.
Il timore del 1973 è diventato speranza o auspicio nel 2010.
Sempre il collegato lavoro del 2010, ha lastricato di decadenze/trabocchetto la strada, sempre più impervia, che conduce al giudice del lavoro, nell’auspicio che il lavoratore vi inciampi rovinosamente, perdendo i diritti derivanti dalle vituperate norme inderogabili; ed ha cumulato in rapida successione, per far valere lo stesso diritto, decadenza stragiudiziale e decadenza giudiziale. Doveva però essere salvaguardato il tentativo di conciliazione, la cui richiesta impedisce la seconda decadenza, ma ne fa scattare una terza.
Decadenze, che talora decorrono in costanza di rapporto (trasferimento, trasferimento di ramo d’azienda, pseudo-appalto).
Se abbiamo ben contato i termini di decadenza dell’art. 32 sono ventisette se il lavoratore tenta la conciliazione: diciotto, se non la tenta. Le azioni giudiziarie sottoposte a decadenza sono nove.
E così il lavoratore è, in assoluto, il contraente sul quale grava il maggior numero di oneri decadenziali (ma non era il contraente debole?). E, per converso, il datore di lavoro il contraente in assoluto più protetto dall’esercizio dei diritti che la legge riconosce alla controparte, grazie alla barriera decadenziale eretta dal legislatore.
E così, dal 2010, un’eccezione di decadenza, anche la più strampalata e stravagante, in una causa di lavoro che si rispetti non manca mai; suscita grande interesse nel giudice; e diventa un formidabile coadiuvante della proposta transattiva che deve fare. Ma, soprattutto, è facile venga accolta.
E “Quel che impressiona è che simili decisioni non siano sbrigative, così che sia dato pensare a soluzioni di pigrizia, ma sono anzi elaboratissime, piene di falsi sillogismi, frutto quindi di una improba fatica, assai maggiore di quella che avrebbe richiesto la decisione di merito” .
5.4 – Il processo del lavoro sempre più costoso e rischioso per chi lo azzardi
L’art. 13 l. 604/1966 prevedeva che “tutti gli atti e i documenti relativi ai giudizi o alle procedure di conciliazione previsti dalla presente legge sono esenti da bollo, imposta di registro e da ogni altra tassa o spesa”. L’art. 10, l. n. 533 del 1973 prevedeva la “piena e completa gratuità del giudizio per dare la possibilità a tutti i lavoratori di adire l’autorità giudiziaria” .
Ma nel 2011 è stato introdotto il contributo unificato . E, se si insiste, scatta il raddoppio di cui dover dare atto, a scopo quasi intimidatorio, nel provvedimento di rigetto dell’impugnazione .
Nel progetto originario di nuovo processo del lavoro c’era anche una norma sulle spese, poi espunta: solo in caso di azione “manifestamente infondata e temeraria” il lavoratore poteva essere condannato alle spese. Quella norma non più scritta sarebbe stata poi approvata dalla prassi giudiziaria del periodo adolescenziale del nuovo processo del lavoro.
Costi del processo e spese legali non dovevano scoraggiare il ricorso al giudice. Esoneri da costi e spese realizzavano la parità sostanziale delle parti nel processo “attraverso un meccanismo di neutralizzazione della notoria minor resistenza del lavoratore di fronte al rischio processuale” (Corte cost. n. 23 del 1973 sia pure con riferimento alle controversie previdenziali).
Ma poi il regime delle spese è rimasto affidato alla disciplina generale del processo civile (art. 92, secondo comma, c.p.c.,). E comunque “giusti motivi” per compensare le spese magari se ne potevano trovare nella condizione di debolezza del lavoratore.
Ad un certo punto, però, non sono più bastati “giusti motivi”, dovendo concorrere “gravi ed eccezionali ragioni, esplicitamente indicate nella motivazione” , senza eccezione alcuna se a soccombere è il lavoratore: attore come tutti gli altri. Nessuna tutela processuale differenziata per le spese.
E poi nemmeno gravi ed eccezionali ragioni, bastavano più, essendo la condanna alle spese assurta a misura coatta ed urgente di “degiurisdizionalizzazione” nel 2014 : un’esagerazione incostituzionale (Corte cost. n. 77 del 2018).
La prassi giudiziaria sembra avere assorbito l’ostilità legislativa per il lavoratore soccombente responsabile di un processo che il legislatore scoraggia. Avrebbe dovuto capire che le tutele sono sabbie mobili e che gli conveniva accontentarsi.
E talora la condanna alle spese (anche all’esito della prima fase dell’abrogato rito dell’art.18) sembra assumere connotazioni punitive e dissuasive dell’opposizione o dell’impugnazione e, più in generale, del contenzioso. Quel che è certo è che il rigetto, con (magari esemplare) condanna alle spese, è il più efficace strumento deflativo del contenzioso.
6 – I poteri istruttori del giudice, oggi.
Proviamo a tirare le fila del discorso.
Se, chiovendianamente, il processo deve dare al titolare del diritto tutto quello, e proprio quello, che il diritto sostanziale gli promette, ma, da molto tempo ormai, il diritto sostanziale del lavoro non si sa più bene se e cosa prometta, perché tutto è derogabile, disponile, opinabile, eludibile, aggirabile, incerto, melmoso, allora il nuovo processo del lavoro di mezzo secolo orsono, è una macchina sin troppo efficiente in rapporto alle tutele che dovrebbe attuare: una macchina da lasciare in garage e comunque da guidare con prudenza. Senza sconti, aiutini, indulgenze verso chi abbia avuto l’ardire di salirvi e non abbia assolutamente tutte le carte in regola. Per non incoraggiare le corse. Specie per chi sia più esposto al lavaggio del cervello legislativo della deflazione del contenzioso,
Ed allora è bene che il giudice i propri poteri di impulso il giudice li spenda più per la conciliazione, che per la trattazione e l’istruzione della causa.
Si diceva che le norme sul processo del lavoro, sulla “udienza di discussione della causa” (420) sui “poteri istruttori del giudice” (421), in mezzo secolo, non sono cambiate. Sono però cambiate le “prassi giudiziarie”, variabili da foro a foro, da giudice a giudice.
Ma, in generale, la presenza delle parti sembra essere richiesta più che per capire la causa, per capire se la si può chiudere. La parti, per il resto, si riportano ai propri scritti. Invitate a farlo. Quasi non ci si fa più caso se siano presenti. Specie se a non comparire è il convenuto. È prassi nominare procuratore speciale l’avvocato dell’impresa che nulla sa di diverso da quello riferitogli per la memoria e, talora, ha bisogno di un rinvio persino per verificare se c’è disponibilità a chiudere dei suoi. Il fattore tempo, che scoraggia l’attore, torna a giocare un ruolo nella conciliazione (), ed è argomento di convincimento non infrequentemente agitato dal giudice.
I poteri istruttori vengono esercitati con estrema parsimonia. Eccezionalmente, e se sollecitati, dice la Suprema Corte. Non sembrava fosse scritto nel 421.
Il processo accelera se sono a disposizione soluzioni sbrigative: se si può decidere in rito; se c’è una decadenza, se c’è stata una conciliazione; se le deduzioni sono generiche, la prova inammissibile, se si può evadere nel formalismo. La durata breve del processo è un valore in sé.
E pazienza se il giudice, qualche volta, “finisce per dovere essere collaboratore involontario di una sostanziale ingiustizia”. Appartiene forse all’archeologia processuale l’idea che “Questo processo rappresenta quindi, anche una rivalutazione sociale, culturale, intellettuale, funzionale del giudice, messo al centro del processo come un protagonista; può ricercare la verità, la prova è anche sua, il processo intiero è anche suo. Sua, conseguentemente, anche una responsabilità più grande di quanto non sia stata la responsabilità del giudice sino ad oggi: fare giustizia dipende veramente da lui” .
Certo, tutto, ancora oggi, dipende dal giudice. Ma tutto è cambiato intorno a lui. È cambiato l’atteggiamento del legiferatore convulso rispetto al processo, da scoraggiare a tutti costi. Senza sconti per il processo del lavoro.
Servono giudici di trincea. Non basta siano estinti quelli d’assalto.
Certo, se le norme processuali sono ancora quelle, ci si può ancora imbattere in chi le applichi esattamente per come erano state concepite dai padri costituenti del processo del lavoro.
E smaltisce rapidamente il suo carico del ruolo perché arriva alla prima udienza preparato più delle parti messe insieme, organizzato, motivato, pronto a decidere o ad istruire come a tentare una conciliazione mirata. Quanto lo incontri gli faresti un monumento. Ma magari qualcuno lo considera un disadattato.
Non si tratta ancora di Hiroo Onoda. Ma rischia sempre più di somigliargli.
Ma la guerra è finita, ed al 50° compleanno del processo del lavoro, un “calo di tensione ideale dei giudice del lavoro”, sollecitato dal sistema e dalla temperie, è innegabile.
La tensione, l’attenzione, è sul fascicolo, sulla pratica. Da smaltire.
Rispetto ad una prima udienza sempre più spersonalizzata, burocratizzata, cartolarizzata, fascicolarizzata, la trattazione scritta pandemica è stata vissuta come un’esperienza di cui fare tesoro ed un’occasione da non perdere. Per fronteggiare la pandemia del contenzioso, più endemica di quella virologica.
La trattazione scritta ha fatto breccia nel cuore di molti giudici. Per quanto, “la sostituzione dell’udienza con la trattazione scritta confligga con quello che è il vero e irriducibile carattere essenziale del rito lavoristico, il principio che informa la disciplina di tale modello processuale in ogni sua parte e che non può essere intaccato in alcuna maniera, pena la perdita dell'identità di quel modello, così come l'abbiamo conosciuto e applicato ormai per quasi mezzo secolo. Vale a dire il principio di concentrazione processuale”.
Ma è il giudice a fare il processo. Ed è “nell’atteggiamento di grande disponibilità a ricorrere a tale forma di trattazione manifestato sinora dai giudici del lavoro, la ragione ultima del suo definitivo e stabile ingresso nel contenzioso in materia che potrebbe realizzarsi nel corrente anno, nel quale ricorre il cinquantesimo anniversario della legge che ha riformato la disciplina processuale delle controversie in oggetto informandola al principio di concentrazione, inconciliabile con la c.d. udienza cartolare” .
È significativo come, dopo cinquant’anni, l’art. 441-bis soltanto “in relazione alle domande di reintegrazione nel posto di lavoro”, da esaminare “prioritariamente”, si preoccupi che il giudice tenga conto delle “esigenze di celerità” del processo, “assicurando in ogni caso la concentrazione della fase istruttoria e di quella decisoria”. Anche “i giudizi di appello e di cassazione sono decisi tenendo conto delle medesime esigenze di celerità e di concentrazione”.
Ma già nell’abrogato rito dell’art. 18 aleggiava il modello del processo del lavoro delle origini e del giudice protagonista che “sentite le parti e omessa ogni formalità non essenziale al contraddittorio, procede nel modo che ritiene più opportuno agli atti di istruzione indispensabili richiesti dalle parti o disposti d'ufficio”, ai sensi dell’articolo 421 del codice di procedura civile, e provvede, con ordinanza immediatamente esecutiva, all’accoglimento o al rigetto della domanda”.
Dal 2012 sembra che il processo debba correre solo se c’è una domanda, ed un rischio, di reintegrazione, a tutela dell’interesse dell’imprenditore a non restare appeso .
E che, non a caso, corre, anche se la legge ha fissato un tetto alle mensilità risarcibili.
Ed anche se il lavoratore nelle more del processo lavori.
Mentre la tutela indennitaria può attendere.
La durata del processo, oggi, non deve andare a danno della parte che, avendo torto, subirebbe la reintegrazione e non sembrano propriamente “attuazione del principio generale secondo cui la durata del processo non deve andare a danno dell'attore che ha ragione” .
“Esigenze di celerità” e “concentrazione della fase istruttoria e di quella decisoria”, una volta, erano nel patrimonio genetico del nuovo processo del lavoro. Per tutte le controversie. Senza nemmeno bisogno, allora, di citare parole come celerità, concentrazione, oralità, immediatezza.
Nel modello del processo del lavoro, tuttora vigente, era il giudice a decidere quali cause meritassero una trattazione prioritaria: a ciò era preordinata la scelta della forma del ricorso quale atto introduttivo.
Sarebbe bastato attuare il processo del lavoro in conformità ai principi ispiratori, senza alcun bisogno di introdurre tutele processuali ulteriormente differenziate o corsie preferenziali al servizio di un solo articolo o, addirittura, di una sola domanda. Quella reintegratoria.
L’unica domanda che sembra oggi, giustificare un processo a parte ed un giudice a parte.
Sarà forse per questo, per un istinto di sopravvivenza, che i giudici del lavoro stanno resistendo strenuamente ai reiterati tentativi legislativi di residualizzazione della tutela reintegratoria?
Ma a parte questo, la “fuga dalla giustizia della Repubblica fondata sul lavoro” è, dopo mezzo secolo, ancora considerata un disvalore?