TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1. Il legislatore del processo del lavoro pose, nella legge n. 533 del 1973, una sola disposizione (art. 19) dedicata al giudizio di legittimità, stabilendo che, presso la Corte di cassazione, dovesse essere istituita una sezione incaricata esclusivamente della trattazione delle controversie di lavoro e di quelle in materia di previdenza e di assistenza.
La disposizione venne collocata tra quelle riguardanti le «strutture giudiziarie», ispirata da un’esigenza organizzativa che imponeva di concentrare nelle mani di giudici esperti della materia un contenzioso altamente specialistico quale quello lavoristico anche innanzi alla Suprema Corte, così come previsto per qualsiasi ufficio territoriale.
Nei successivi cinquanta anni pochi sono stati gli interventi su tale impianto originario, limitati essenzialmente, con il d. lgs. n. 40 del 2006, all’aggiunta, nell’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., dell’inciso che consente di impugnare col ricorso per cassazione la violazione o falsa applicazione dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro, oltre che all’introduzione, ex art. 420 bis c.p.c., dell’accertamento pregiudiziale sull’efficacia, validità ed interpretazione dei medesimi accordi e contratti collettivi.
Ne consegue che ancora oggi, in mancanza di regole specifiche, il giudizio di cassazione per una causa originariamente introdotta con ricorso ex art. 414 e ss. c.p.c. si svolge secondo il rito ordinario e con l’integrale applicazione delle norme contenute negli artt. 360 e ss. c.p.c.
2. Tuttavia, vi è un ambito nel quale la controversia di lavoro assume un connotato di peculiare rilievo nel momento in cui approda in Cassazione, avuto riguardo ai limiti del potere di controllo conferito ai giudici dell’organo di vertice della giurisdizione.
La nostra materia è, infatti, densamente popolata da nozioni a contenuto variabile ovverosia da disposizioni che contengono concetti giuridici indeterminati, tra i quali occupano una posizione preminente quei moduli a struttura aperta ascrivibili alla tipologia delle cd. clausole generali (talvolta definite norme elastiche), in primis le disposizioni che consentono di ritenere giustificato un licenziamento.
E’ nota la tecnica legislativa, in parte necessitata dall’impossibilità di regolare per legge ogni contingenza, utilizzata allo scopo di adeguare la norma all’evolversi della realtà economica e sociale e di adattare rapidamente l’ordinamento alla mutevolezza dei tempi; tecnica che si caratterizza per la costruzione di una norma senza fattispecie, ricorrendo a nozioni aperte e intenzionalmente indeterminate, che positivizzano “concetti di valore” .
Questo spazio indefinito, talvolta vago, fortemente intriso di elementi valoriali, deve essere colmato dall’interpretazione del giudice: in parte specificando il parametro normativo mediante l’individuazione di regole della morale o del costume sociale ovvero di criteri desumibili dall’ordinamento, a cominciare dai princìpi costituzionali; in parte selezionando nell’accadimento reale gli elementi che inducano il suo convincimento circa la riconducibilità o meno di quel fatto concreto alla fattispecie astratta che egli stesso ha contribuito ad integrare.
Ma è proprio questo intervento del giudice, sebbene specificamente delegato dalla legge, a sollevare i problemi consueti del riparto di competenze tra l’attività del legislatore, democraticamente eletto, e la funzione di interpretazione giudiziale, che comunque alla legge è soggetta per vincolo costituzionale e che inevitabilmente contiene margini di discrezionalità.
Al giudice del lavoro è affidato il duro compito di farsi interprete – secondo ricorrenti massime giurisprudenziali – di princìpi espressi dalla coscienza generale ovvero di standards valutativi esistenti nella «civiltà del lavoro», compito tanto più gravoso in un tempo in cui si succedono freneticamente legislazioni animate da opposte visioni culturali ed economiche.
Nessuno, quindi, può negare il rischio che, in questa delicata lettura di contesti, il giudice risolva il caso secondo personali opzioni valoriali, magari diverse da quelle del giudice del grado successivo o da quelle del collega della porta accanto, con prevedibili conseguenze in termini di incalcolabilità delle decisioni giudiziarie, oltre che di disparità di trattamento dei cittadini innanzi alla legge.
Come Portalis, tra i giuristi incaricati di redigere il Code Napoleon, sentiva “la terrible tâche de ne rien abandonner à la dècision du juge”, così il legislatore del Collegato Lavoro, con l’art. 30, comma 1, l. n. 183 del 2010, ebbe a stabilire che, in tutti i casi nei quali le disposizioni in tema di lavoro pubblico e di controversie di lavoro «contengano clausole generali», ivi comprese le norme in tema di recesso, il controllo giudiziale deve essere limitato esclusivamente all'accertamento del presupposto di legittimità e non può essere esteso al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro, successivamente aggiungendo, con lo sguardo rivolto al giudizio di legittimità, che «l'inosservanza […] in materia di limiti al sindacato di merito sulle valutazioni tecniche, organizzative e produttive che competono al datore di lavoro, costituisce motivo di impugnazione per violazione di norme di diritto» . Un tentativo, dai più giudicato maldestro, di arginare il diritto giurisprudenziale nell’eterno conflitto con il diritto scritto, ma con ben scarsi esiti, vista la parsimonia con cui dette norme sono state evocate dai giudici di ogni ordine e grado , in ciò assistiti dal consenso della pressochè unanime dottrina.
Non qui la sede per affrontare i molti problemi posti dall’«eccedenza di contenuto assiologico», caratteristica delle clausole generali, affidata alle precomprensioni dei singoli giudicanti, ma si può schematicamente delineare, in brevi cenni, il percorso seguito dai giudici supremi nell’esaminare la questione dei confini del sindacato di legittimità sulle sentenze rese in giudizi ove si controverta di giusta causa o di giustificato motivo soggettivo di licenziamento .
Anticipando sin d’ora la personale conclusione, già pubblicamente espressa , che tale percorso appare ancora lontano dal giungere a mete appaganti e generalmente condivise, tanto da lasciare, in qualche sospettoso lettore della giurisprudenza della Corte sul tema, il dubbio che, oltre le ribadite affermazioni di principio, il confine del sindacato di legittimità sia mobile nell’applicazione operata nelle controversie che giungono all’attenzione dei vari collegi, decisamente influenzato, volta per volta, dalle suggestioni del fatto che interpella le coscienze dei consiglieri e il loro sentimento di giustizia del caso concreto.
A lungo si è ritenuto che i giudizi formulati in applicazione di una clausola generale, in mancanza nella norma di una descrizione del fatto e dovendosi fare necessariamente riferimento agli elementi della fattispecie concreta, fossero sindacabili da parte del giudice di legittimità solo per vizi di motivazione ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., sulla scorta dell’insegnamento secondo cui il giudizio sulla gravità dell'inadempimento è riservato al giudice del merito .
Sul finire degli anni ’90, con due sentenze redatte dal medesimo estensore , chiaramente influenzate dalla più accreditata dottrina della materia, peraltro interna alla stessa Corte , si afferma invece il principio che il giudizio di merito applicativo di norme elastiche è soggetto al controllo di legittimità ai sensi del n. 3 dell’art. 360 c.p.c.
Si tratta di due decisioni fondamentali per tutta l’evoluzione successiva che scandiscono la loro motivazione in tre passaggi essenziali: a) nell’applicare clausole generali «il giudice di merito compie un’attività di integrazione giuridica – e non meramente fattuale – della norma stessa […] in quanto dà concretezza a quella parte mobile (elastica) della stessa che il legislatore ha voluto tale per adeguarla ad un determinato contesto storico-sociale […]»; b) «il giudizio valutativo – e quindi di integrazione giuridica – del giudice di merito deve però conformarsi oltre che ai principi dell’ordinamento, individuati dal giudice di legittimità, anche ad una serie di standards valutativi esistenti nella realtà sociale che assieme ai predetti principi compongono il diritto vivente, ed in materia di diritto del lavoro la c.d. civiltà del lavoro […]»; c) «la valutazione di conformità – agli standards di tollerabilità dei comportamenti lesivi posti in essere dal lavoratore – dei giudizi di valore espressi dal giudice di merito per la funzione integrativa che essi hanno delle regole giuridiche spetta al giudice di legittimità nell’ambito della funzione nomofilattica che l’ordinamento ad esso affida».
Tali arresti non risultano mai apertamente sconfessati dalla giurisprudenza successiva che ad essi spesso si richiama . Tuttavia si procede a successive precisazioni che, in certo modo, sembrano limitare il vigore originario del principio.
A partire dalla considerazione che è solo l’integrazione a livello generale e astratto della clausola generale a collocarsi sul piano normativo e consentire una censura per violazione di legge; mentre l’applicazione in concreto del più specifico canone integrativo così ricostruito, rientra nella valutazione di fatto devoluta al giudice del merito, «ossia il fattuale riconoscimento della riconducibilità del caso concreto nella fattispecie generale e astratta» . Si aggiunge che «spettano inevitabilmente al giudice di merito le connotazioni valutative dei fatti accertati nella loro materialità, nella misura necessaria ai fini della loro riconducibilità – in termini positivi o negativi – all’ipotesi normativa» .
Come pure si evidenzia che l'attività di integrazione del precetto normativo di cui all'art. 2119 c.c. compiuta dal giudice di merito è sindacabile in cassazione a condizione, però, che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori dell'ordinamento, esistenti nella realtà sociale .
3. In taluni recenti approdi , con la dichiarata consapevolezza che anche per le clausole generali la verifica dell’errore di sussunzione del fatto nell’ipotesi normativa è pienamente ascrivibile al vizio di cui al n. 3 dell’art. 360, comma 1, c.p.c. , la Corte ha provato a meglio delineare i rapporti, in questo ambito, tra quaestio iuris e quaestio facti.
Secondo questo orientamento è indispensabile, innanzitutto, così come in ogni altro caso di dedotta falsa applicazione di legge, che chi ricorre parta dalla ricostruzione della fattispecie concreta come compiuta dai giudici di merito; altrimenti si trasmoderebbe nella revisione dell'accertamento di fatto di competenza di detti giudici. Poiché, poi, gli elementi da valutare ai fini dell'integrazione della giusta causa di recesso sono, per consolidata giurisprudenza, molteplici (gravità dei fatti addebitati, portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, circostanze in cui sono stati commessi, intensità dell’elemento intenzionale, etc.) occorre guardare, nel sindacato di legittimità, alla rilevanza dei singoli parametri ed al peso specifico attribuito a ciascuno di essi dal giudice del merito, onde verificarne il giudizio complessivo che ne è scaturito dalla loro combinazione e saggiarne la coerenza e la ragionevolezza della sussunzione nell'ambito della clausola generale. Trattandosi di una decisione che è il frutto di selezione e valutazione di una pluralità di elementi la parte ricorrente, per ottenere la cassazione della sentenza impugnata sotto il profilo del vizio di sussunzione, non può limitarsi ad invocare una diversa combinazione dei parametri ovvero un diverso peso specifico di ciascuno di essi, ma deve piuttosto denunciare che la combinazione e il peso dei dati fattuali, così come definito dal giudice del merito, non consente comunque la riconduzione alla nozione legale di giusta causa di licenziamento. Altrimenti occorrerà dedurre che è stato omesso l'esame di un parametro tra quelli individuati dalla giurisprudenza ai fini dell'integrazione della giusta causa avente valore decisivo, nel senso che l'elemento trascurato avrebbe condotto ad un diverso esito della controversia con certezza e non con grado di mera probabilità; ma in tal caso il vizio è attratto nella sfera di applicabilità dell'art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., con tutti i limiti posti dalla novella della l. n. 134 del 2012, e solo successivamente potrà essere eventualmente argomentato che l'errata ricostruzione in fatto della fattispecie concreta, determinata dall'omesso esame di un parametro decisivo, ha cagionato altresì un errore di sussunzione rilevante a mente dell'art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c. per falsa applicazione di legge.
In secondo luogo, tale indirizzo prende ad esempio le pronunce delle Sezioni unite formatesi nel campo limitrofo del sindacato di legittimità nell’individuazione di condotte costituenti illecito disciplinare di esercenti talune professioni - illecito definito mediante clausole generali o, comunque, concetti giuridici indeterminati - secondo cui «il compito del controllo di legittimità può essere soltanto quello di verificare la ragionevolezza della sussunzione del fatto» , con l’ulteriore effetto che il sindacato di legittimità «sull’applicazione di un concetto giuridico indeterminato deve essere rispettoso dei limiti che il legislatore gli ha posto, utilizzando una simile tecnica di formulazione normativa, che attribuisce al giudice del merito uno spazio di libera valutazione e apprezzamento»; la Corte non può, pertanto, «sostituirsi al giudice del merito nell’attività di riempimento dei concetti giuridici indeterminati […] se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza»; «il sindacato sulla ragionevolezza è quindi non relativo alla motivazione del fatto storico, ma alla sussunzione dell’ipotesi specifica nella norma generale, quale sua concretizzazione» .
Il quadro complessivo che emerge dalle numerose pronunce di legittimità in materia restituisce l’impressione che, pur ribadendosi l’assunto che il giudizio applicativo di clausole generali rappresenta una quaestio iuris, si tende a preservare una sfera di intangibilità riservata al giudizio di merito.
Si opina che siffatto self restraint non dovrebbe sorprendere perché, allorquando il diritto oggettivo, comprensivo delle norme extralegali, non indichi il valore alla cui stregua risolvere la questione di qualificazione giuridica del fatto concreto, la Corte di cassazione sarebbe aliena dall’imporre scelte di valore proprie e, con la formula della non censurabilità, si limiti ad affermare la compatibilità della scelta effettuata dal giudice di merito col sistema del diritto oggettivo.
Ma c’è pure chi adombra l’insinuante sospetto secondo il quale la Corte dichiarerebbe il vizio di sussunzione solo laddove il criterio di valore, utilizzato dal giudice di merito nell’apprezzare le circostanze del caso concreto fondanti il licenziamento, non coincida con quello della maggioranza che compone il collegio decidente, animata da pur comprensibili impulsi equitativi.
Allora appare chiaro che per liberare il campo da dubbi leciti, in presenza di sentenze che investano le giustificazioni di un licenziamento occorre porre la questione del serrato controllo dell’argomentazione giuridica che le sorregge, che non può limitarsi alla salvifica invocazione di non meglio precisati dati extra sistemici corrispondenti ad una supposta comune civiltà del lavoro ovvero alla seriale enumerazione di norme costituzionali e sovranazionali che esprimerebbero princìpi asseritamente idonei a regolare il caso di specie.
Dietro simili astratte invocazioni o elencazioni è agevole occultare scelte guidate da persuasioni individuali o da personalistiche gerarchie di valori, mentre l’interpretazione giudiziale è il prodotto di un processo che deve poter essere verificato attraverso l’esame di ogni passaggio della motivazione che riproduce il ragionamento svolto dal decidente. Oggi nessuno può disconoscere che l’ermeneutica non è un’operazione meccanica, bensì un procedimento complesso frutto di una molteplicità di varianti, nel corso del quale l’interprete seleziona diverse opzioni possibili, con un margine di discrezionalità ineluttabile. Si tratta, però, di rendere chiaro, attraverso la motivazione del provvedimento decisorio, ogni scelta di campo, pur dove orientata da un principio che va, però, esplicitato, illustrando da quale tavola di valori di diritto posito si deduce che, nel bilanciamento dei contrapposti interessi, l’un principio debba sicuramente prevalere su di un altro . Anche alla dottrina spetta, poi, sottoporre le motivazioni delle sentenze a severo vaglio critico, scevro dal mero compiacimento per l’affermazione giurisprudenziale di una tesi propugnata, affinché denunci eventuali aporie argomentative e disveli l’utilizzo distorto o improprio delle tecniche dell’esegesi .
In tale prospettiva procedurale, dove il controllo sull’argomentazione traduce la mai sopita istanza etica dei cittadini comuni che aspirano alla certezza del diritto , intesa come prevedibilità delle conseguenze giuridiche delle proprie azioni, sembrano meritevolmente muoversi talune indicazioni metodologiche che giungono dalla giurisprudenza di legittimità circa l’idoneità delle previsioni dei codici disciplinari contenute nei contratti collettivi a costituire parametro integrativo della clausola generale di fonte legale configurata dalla giusta causa o dal giustificato motivo soggettivo di licenziamento.
Infatti, con la predisposizione del codice disciplinare l'autonomia collettiva individua il limite di tollerabilità e la soglia di gravità delle violazioni degli artt. 2104 e 2105 c.c. in quel determinato momento storico ed in quel contesto aziendale. Non a caso il codice disciplinare è stato richiamato dall'art. 7 dello Statuto dei lavoratori in funzione di monito per il lavoratore e di garanzia di prevedibilità della reazione datoriale. Ne consegue che, pur non essendo vincolante la tipizzazione delle fattispecie previste dal contratto collettivo nell'individuazione delle condotte costituenti giusta causa di recesso, la scala valoriale ivi recepita deve costituire uno dei parametri cui occorre fare riferimento per riempire di contenuto la clausola generale dell'art. 2119 c.c. . Si è anche sottolineato che l'obbligo del giudice di valutare la legittimità del licenziamento disciplinare, quanto alla proporzionalità della sanzione, anche attraverso le previsioni contenute nei contratti collettivi, trova un fondamento normativo nella legge n. 183 del 2010, che, all'art. 30, comma 3, ha previsto: «nel valutare le motivazioni poste a base del licenziamento, il giudice tiene conto delle tipizzazioni di giusta causa e di giustificato motivo presenti nei contratti collettivi di lavoro stipulati dai sindacati comparativamente più rappresentativi ovvero nei contratti individuali di lavoro ove stipulati con l'assistenza e la consulenza delle commissioni di certificazione […]» .
Con il riferimento alla disciplina di fonte collettiva si consegna al giudice una indicazione metodologica preziosa per colmare quello spazio semantico volutamente lasciato libero dal legislatore.
In nome di un positivismo moderato che - alieno dalle fascinazioni creative della osannata comunità interpretante - fornisca al giudice strumenti volti a eliminare o, quanto meno, ridurre l’arbitrio soggettivo che attinga a non meglio definite coscienze comuni e rendano controllabile la decisione che sia adeguatamente motivata.