testo integrale con note e bibliografia
1. Genesi dei principi di chiarezza e sinteticità e brevi osservazioni preliminari.
I principi di sinteticità e chiarezza di tutti gli atti processuali, enunciati in rubrica e codificati nell’ultima parte del novellato (ad opera del D. Lgs. 149/22) art. 121 c.p.c. , coinvolgono sia i magistrati (per i quali, tuttavia, non è prevista alcuna conseguenza in caso di loro violazione), sia – soprattutto – gli avvocati .
Da tempo tali principi hanno interessato la dottrina e gli operatori giuridici , dopo essere stati introdotti nel codice del processo amministrativo (c.p.a.) con il D. Lgs 104/2010, ed essere stati richiamati dalla giurisprudenza di legittimità, citando l’art. 3, co.2, c.p.a. il quale, ponendo la sinteticità e chiarezza degli atti processuali amministrativi quali principi generali di tale processo, avrebbe espresso “un principio generale del diritto processuale, destinato ad operare anche nel processo civile, in quanto funzionale a garantire, per un verso, il principio di ragionevole durata del processo, costituzionalizzato con la modifica dell’art. 111 Cost. e, per altro verso, il principio di leale collaborazione tra le parti processuali e tra queste ed il giudice” .
Riguardo l’art. 121 c.p.c. novellato, si può rilevare, preliminarmente e brevemente, che:
- costituisce una ragionevole aspirazione di tutti gli operatori del diritto quella di scrivere, e leggere, atti processuali chiari e sintetici, anche perché “nello scrivere, come nel parlare, (è: n.d.e.) meglio essere sintetici e chiari piuttosto che essere prolissi e oscuri” ;
- la lettura di atti processuali oscuri e/o prolissi rimane tuttavia un’esperienza comune, poiché scrivere in modo sintetico richiede più tempo, come già ricordava Voltaire, quando così si rivolgeva al destinatario di una sua missiva: “Vi scrivo una lettera lunga perché non ho il tempo di scriverne una breve”;
- del resto, non è semplice codificare questa aspirazione in una regula iuris, data l’insopprimibile vaghezza dei concetti di chiarezza e sinteticità;
- peraltro, l’esigenza per i difensori di redigere atti chiari e sintetici risulta per così dire immanente allo scopo principale di tali atti: quello di persuadere il giudice (e, perché no, la controparte) della fondatezza delle tesi ivi sostenute;
- se così è, sarà primario interesse dell’autore redigere un atto chiaro e sintetico, per evitare che la sua oscurità ne diminuisca la persuasività e che la sua prolissità, affaticando il giudice-lettore (che, peraltro, legge per dovere professionale e non per interesse personale) e distogliendone l’attenzione, incida a sua volta sulla persuasività;
- l’art. 121 c.p.c. risulta dunque apprezzabile laddove sottolinea l’importanza dei suddetti principi ma, al contempo, potenzialmente lesivo del diritto di difesa, ove l’improprio richiamo a tali principi venisse utilizzato per sanzionarne la violazione con riflessi sulle spese, oppure addirittura ritenendo l’atto viziato processualmente.
2. Il contenuto dell’art. 121 c.p.c. e la difficoltà di definire i concetti di chiarezza e sinteticità.
Esaminando tale norma più da vicino, e raffrontandola con altre del codice di rito, si rileva
- quanto al criterio della chiarezza, un richiamo sintonico con quanto previsto per l’atto di citazione (art. 163, co.3, n. 4), la comparsa di risposta (art. 167), gli atti introduttivi del procedimento semplificato (art. 281 undecies) e del procedimento in materia di persone, minorenni e famiglie (artt. 473 bis nn. 12 e 17), l’atto d’appello (artt. 342 e 434), il ricorso per Cassazione (art. 366, co.1, nn. 3 e 4), mentre
- in relazione al criterio della sinteticità, un non sempre agevole coordinamento con il criterio della specificità, espressamente menzionato per la comparsa di risposta (art. 167), la memoria difensiva (art. 416), gli atti introduttivi del procedimento semplificato (art. 281 undecies) e del procedimento in materia di persone, minorenni e famiglie (artt. 473 bis nn. 12 e 17), i motivi d’appello (artt. 342 e 434), i motivi di cassazione (art. 366, co.1, nn. 4 e 6), le memorie di parte nel giudizio di cassazione (art. 378).
Questa prima osservazione consente di precisare che malgrado si sia talora parlato di principio di chiarezza e sinteticità in accezione unitaria , sembra preferibile considerare separatamente i due concetti, ovvio essendo che un atto potrebbe essere sintetico ma non chiaro, oppure prolisso ma chiaro.
Nonostante che per opinione comune i concetti di “chiarezza” e “sinteticità” siano caratterizzati da “un grado elevatissimo di vaghezza” , non sono mancati i tentativi di definirli.
A mero titolo esemplificativo, la relazione allo schema 24 maggio 2023 di D.M. Ministero della Giustizia sui limiti dimensionali degli atti processuali, così definisce tali concetti: “un testo è chiaro quando è univocamente intellegibile, mentre è sintetico quando, pur essendo completo dei requisiti essenziali ed esaustivo in relazione al suo scopo, è scevro di ripetizioni e verbosità”.
Quanto alla giurisprudenza amministrativa, ha affermato che la sinteticità è “un concetto di relazione, che esprime una corretta proporzione tra due grandezze, la mole delle questioni da esaminare e la consistenza dell'atto chiamato ad esaminarle” (Cons. Stato n. 7045/2021) e che “l’essenza della sinteticità non risiede nel numero delle pagine o delle righe in ogni pagina, ma nella proporzione tra la molteplicità e la complessità delle questioni dibattute e l'ampiezza dell'atto che le veicola” (Cons. Stato n. 2852/2016).
Con riguardo al giudizio di cassazione, la corte ha tentato di individuare il contenuto del dovere di chiarezza e sinteticità scrivendo che esso impone “di selezionare i profili di fatto e di diritto della vicenda sub judice posti a fondamento delle doglianze proposte, in modo da offrire al giudice di legittimità una concisa rappresentazione dell’intera vicenda giudiziaria e delle questioni giuridiche prospettate e non risolte o risolte in maniera non condivisa, per poi esporre le ragioni delle critiche nell’ambito della tipologia dei vizi elencata dall’art. 360 c.p.c., venendo altrimenti pregiudicata l’intelligibilità delle questioni per essere rimasta oscura l’esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata” .
Considerata l’insopprimibile soggettività insita nella valutazione del criterio della chiarezza, posto che un atto può risultare chiaro ad un soggetto e non ad un altro, se ne può abbandonare una sua definizione in positivo, accontentandosi, in negativo, di ritenere “non chiaro” un atto che sia obiettivamente incomprensibile per tutti.
Quanto alla sinteticità, pare condivisibile l’approccio adottato dal Consiglio di Stato che, rinunciando a circoscrivere quantitativamente i limiti di un atto sintetico, valorizza il rapporto relazionale tra contenuto dell’atto e varietà e complessità delle questioni di fatto e di diritto in esso trattate.
È dunque con la consapevolezza della genericità di tali indicazioni che si evidenzia come, nel rispetto del criterio di sinteticità, andranno evitate inutili ripetizioni (di concetti, fatti, richiami a documenti, principi normativi o giurisprudenziali, ecc.), divagazioni processualmente irrilevanti, insinuazioni malevole o spunti polemici verso la controparte fini a sé stessi, citazioni della giurisprudenza in parti non processualmente rilevanti o riguardo ad orientamenti pacifici.
3. Una difesa analitica non sempre viola il principio di sinteticità.
Sempre riguardo la sinteticità, merita ancora osservare che “il contrario di «sintetico» non è – o non è soltanto – «prolisso», ma è – in logica ma anche in ogni teoria dell’argomentazione - «analitico»” .
Orbene, se così è, mentre è pacifico che non rispetti il criterio di sinteticità un atto processuale prolisso, non può necessariamente dirsi altrettanto per un atto analitico.
Anche perché l’analiticità della difesa è talora “imposta” o, quanto meno, fortemente suggerita
- dalla legge, come, ad esempio,
o allorché si richiede al convenuto di prendere posizione in maniera specifica sui fatti addotti dall’attore a sostegno delle proprie domande, senza limitarsi ad una generica (e, in quanto tale, certamente “sintetica”) contestazione (artt. 167 e 416 c.p.c);
o quando per ciascun motivo d’appello si esige la specifica indicazione del capo di decisione impugnato, delle censure proposte alla ricostruzione dei fatti compiuta dal giudice di primo grado, delle violazioni di legge denunciate e della loro rilevanza ai fini della decisione impugnata (artt. 342 e 434 c.p.c.);
o quando per il ricorso per Cassazione si prevede la “specifica indicazione, per ciascuno dei motivi, degli atti processuali, dei documenti e dei contratti o accordi collettivi sui quali il motivo si fonda e l’illustrazione del contenuto rilevante degli stessi” (art. 366, co.1, n.6, c.p.c.);
- oppure dalla giurisprudenza, laddove, ad esempio,
o onera l’appellante che censuri la sentenza impugnata per un vizio processuale, diverso da quelli che determinano la rimessione al primo giudice ex art. 354 c.p.c., di censurare altresì – a pena di inammissibilità dell’impugnazione – la decisione del merito della controversia, indicando le ragioni per cui avrebbe dovuto essere decisa diversamente ;
o estende l’oggetto del giudizio e del giudicato, inducendo i difensori a prendere posizione cautelarmente su questioni che, in un’accezione più contenuta di quegli istituti, sarebbero state ignorate ;
- oppure ancora dalla struttura del singolo procedimento, come, ad esempio
o in un’azione di responsabilità nei confronti di un numero elevato di convenuti, dove “non è facile coniugare il rispetto della sintesi con la necessità che l’attore rispetti le regole sulla distribuzione degli oneri di allegazione e prova tra le parti del giudizio, e perciò specifichi con puntualità gli addebiti che imputa a ciascuno e li correli con i pregiudizi di cui chiede il risarcimento” ;
- altresì dall’atteggiamento della controparte, ovvio essendo che ad un atto di citazione o ricorso articolati in decine di fatti semplici addotti a sostegno della domanda, difficilmente farà da contraltare una comparsa di risposta o una memoria difensiva “sintetica”.
Peraltro, a prescindere dai casi esemplificativi, in alcune ipotesi sarà la dinamica stessa del processo a suggerire al difensore una difesa “analitica”, anziché “sintetica”.
Si pensi ai casi in cui la controparte invochi a sostegno delle proprie tesi una serie di sentenze di dubbia rilevanza in quella determinata fattispecie, inducendo la controparte ad analizzarle una per una, per dimostrarne l’inconferenza.
Analogamente, censurando l’attendibilità dei vari testimoni, non ci si potrà limitare, sinteticamente, ad eccepirne la complessiva inattendibilità, ma si avrà l’onere di esaminare, analiticamente, ciascuna testimonianza, chiarendo la ragione della ritenuta inattendibilità, dovuta a rapporti di parentela, di credito o debito, di interesse nell’esito di quella lite, o altro.
E così pure, quando si contesti una C.T.U., la parte avrà l’onere di esporre, analiticamente, tutti i punti della relazione peritale non condivisi, unitamente alle ragioni di critica, anziché limitarsi ad affermare, sinteticamente, la sua integrale inaffidabilità.
Senza contare che, se con un maggior impegno di energie si riuscirà a scrivere sinteticamente un’argomentazione giuridica, non altrettanto potrà dirsi per la descrizione dei fatti di causa ritenuti processualmente rilevanti, non sempre “comprimibili”, specie in un rito, quale quello del lavoro, in cui le rigide preclusioni impediscono successive allegazioni, spingendo il difensore ad aderire al latinetto “melius abundare quam deficere”, per non scoprire dopo di non aver scritto qualcosa che andava scritto prima.
Non solo.
Come è stato efficacemente notato, in certi casi una certa prolissità, lungi dall’essere fine a sé stessa, può essere utile ad una miglior comprensione della difesa, dunque non necessariamente va valutata negativamente, come, ad esempio, quando
- si comprovi un’allegazione con un documento, sarà preferibile riportare la parte di testo ritenuta rilevante, senza limitarsi a citare il numero dell’allegato prodotto;
- riguardo un’eccezione rilevabile d’ufficio, la si espliciti nell’atto, anziché ometterla, confidando nella sua individuazione da parte del giudicante;
- si richiami testualmente una normativa particolarmente articolata, senza lasciarne la faticosa ricerca al giudice, in base al principio «iura novit curia» .
4. La delicatezza della valutazione giudiziale
Pertanto, il giudice chiamato a vagliare il rispetto dell’art. 121 c.p.c., che si trovi di fronte ad un atto processuale che sviluppa analiticamente un’argomentazione, una descrizione dei fatti rilevanti in causa, una contestazione, una censura ai risultati dell’istruttoria, una valutazione delle produzioni documentali, una confutazione delle giurisprudenza citata dalla controparte, o quant’altro, prima di sostenere che risulta violato il principio di sinteticità, dovrà verificare se la parte non abbia semplicemente esercitato il diritto di difendersi “analiticamente”, seppur a scapito della sinteticità.
Si tratta di una valutazione delicata e difficoltosa, proprio per i già sottolineati indeterminati e soggettivi confini dei criteri di chiarezza e sinteticità.
Proprio per questa ragione, sembrerebbe auspicabile che laddove il giudice ritenga un atto “non chiaro” o “non sintetico”, non possa limitarsi a qualificarlo tale in modo apodittico e onnicomprensivo, ma abbia l’onere di menzionare, in motivazione del suo provvedimento, le parti dell’atto ritenute non chiare o non sintetiche (riportando inutili ripetizioni, citazioni giurisprudenziali incongrue, gratuiti spunti polemici irrilevanti processualmente, e così via o, quanto meno, rinviando alle pagine degli atti processuali in cui tali ridondanze sono contenute); e ciò, anche correndo il rischio di redigere un provvedimento non particolarmente sintetico.
5. Il D.M. 7 agosto 2023 n. 110.
Nell’art. 1, co. 17, lett. d), della legge delega n. 206/2021 non si legge soltanto la previsione che tutti gli atti processuali, ferma la libertà di adottare la forma più idonea al raggiungimento dello scopo, rispettino i principi di chiarezza e sinteticità, ma si richiede anche di stabilire dei limiti dimensionali.
In ossequio a tale norma l’art. 46 d.a. c.p.c. ha previsto che il Ministro della Giustizia emani un decreto con cui stabilisca tali limiti, così reagendo alla vaghezza del criterio di sinteticità con la scelta definita da un illustre processualista come quella di “«dare i numeri», ossia ricorrere a determinazioni quantitative circa l’estensione degli atti …” .
Con il recente D.M. Ministero della Giustizia del 7 agosto 2023, n. 110 è stato adottato il Regolamento per la definizione dei criteri di redazione, dei limiti e degli schemi informatici degli atti giudiziari con la strutturazione dei campi necessari per l’inserimento delle informazioni nei registri del processo , con il quale, riguardo gli atti degli avvocati:
- nell’art. 1 si prevede che i limiti dimensionali degli atti del processo civile rilevino solo per le cause di valore inferiore a euro 500.000;
- nell’art. 2 si stabilisce la struttura-tipo degli atti introduttivi, con una serie di prescrizioni formali talora assai condivisibili (come quella relativa al “puntuale riferimento ai documenti offerti in comunicazione, indicati in ordine numerico progressivo e denominati in modo corrispondente al loro contenuto, preferibilmente consultabili con apposito collegamento ipertestuale”: lett. f]), oppure all’ “indice dei documenti prodotti, con la stessa numerazione e denominazione contenuta nel corpo dell’atto, preferibilmente consultabili con collegamento ipertestuale”: lett. g]) , talaltra non chiarissime (come quella relativa alle “parole chiave, nel numero massimo di venti, che individuano l’oggetto del giudizio” : lett. c]);
- nell’art. 3 si prevedono i limiti degli atti introduttivi (circa 40 pagine), delle memorie e in genere degli atti del giudizio (circa 26 pagine) e delle note scritte sostitutive dell’udienza (circa 5 pagine);
- nell’art. 4 si indicano le esclusioni dai limiti (con il condivisibile inserimento tra le esclusioni, ex novo rispetto allo schema originario del decreto, sia dell’indicazione specifica dei mezzi di prova e dell’indice dei documenti, di cui all’art. 2, co.1, lett. i), che dei “riferimenti giurisprudenziali riportati nelle note”);
- nell’art. 5 si prevedono le deroghe ai limiti in caso di controversie con questioni di particolare complessità, di domande riconvenzionali, integrazioni del contraddittorio, atti di riassunzioni o impugnazioni incidentali; deroghe rimesse alla valutazione del difensore, con l’onere di spiegarne sinteticamente le ragioni e di inserire un indice, preferibilmente con collegamenti ipertestuali, e una breve sintesi del contenuto dell’atto ;
- nell’art. 6 si prospettano i caratteri, interlinea e margini “preferibili”, escludendo l’uso delle note, tranne che per indicare la dottrina e la giurisprudenza (eliminando tuttavia l’irragionevole divieto di trascrivere la massima della decisione citata o il testo della dottrina contenuto nello schema di D.M. del 24 maggio 2023; resta comunque discutibile il divieto generale di impiego delle note che invece, se correttamente utilizzate, possono alleggerire il testo e, citando testualmente il contenuto di un documento o di una testimonianza, possono evitare al lettore la ricerca di quel documento o di quella testimonianza nel verbale di causa ).
6. Gli effetti della violazione dei principi di chiarezza e sinteticità e dei limiti dimensionali degli atti di parte.
Riguardo gli effetti che conseguono alla violazione dei principi di cui all’art. 121 c.p.c. o delle norme del D.M. n.110/2023, merita sottolineare, preliminarmente, che tale violazione non potrà mai – di per sé – riverberarsi sulla validità dell’atto, a meno che l’assenza di chiarezza non sia così grave da incidere sulla comprensibilità del petitum e/o della causa petendi, nel qual caso (in applicazione – anche analogica, nel rito del lavoro – dell’art. 164 c.p.c.), seguirà il rilievo del vizio anche d’ufficio e l’ordine di rinnovazione o integrazione dell’atto introduttivo, con salvezza dei diritti quesiti, a seconda che il convenuto sia rimasto contumace o sia costituito.
Similmente, nel giudizio di cassazione la corte ha talora sanzionato l’insufficiente chiarezza dell’atto, dichiarando l’inammissibilità del ricorso per violazione dell’art 366 c.p.c., laddove essa sia tale da rendere “oscura l'esposizione dei fatti di causa e confuse le censure mosse alla sentenza gravata” .
Fuori da tali ipotesi “il mancato rispetto … dei criteri e limiti di redazione dell’atto non comporta invalidità, ma può essere considerato dal giudice ai fini della decisione sulle spese del processo” (art. 46, co.5, d.a. c.p.c., in attuazione dell’art. 1, comma 17 lett. e] della legge delega n. 206/2021 ).
L’elemento cardine per valutare la validità dell’atto processuale sul piano formale resta infatti, pur sempre, quello del raggiungimento dello scopo, previsto come fattore sanante di eventuali vizi dall’ultimo comma dell’art. 156 c.p.c.
Cosicché, laddove l’atto difensivo consenta al giudice di comprendere il nucleo fondante delle tesi difensive sviluppate dalla parte o delle sue allegazioni, non se ne potrà mai dichiarare la nullità, quand’anche sia prolisso o, non del tutto chiaro, ovvero quando abbia in ipotesi superato i limiti stabiliti dal D.M. n. 110/2023, fuori dai casi di deroga ivi previsti .
Quanto ai giudizi d’impugnazione,
- per l’appello, la sanzione di inammissibilità stabilita dagli artt. 342 e 434 c.p.c. per il mancato rispetto dei principi di chiarezza, sinteticità e specificità di ciascun motivo dovrà comminarsi solo nei casi limite, in cui dalla lettura dell’atto d’impugnazione non ne sia comprensibile il fondamento ; non certamente quando, pur essendo lo stesso individuabile, non sia sufficientemente sintetico o chiaro in ogni sua parte ;
- per il giudizio di cassazione, analogamente, l’inammissibilità del ricorso per violazione dell’art. 366 c.p.c. o del principio di autosufficienza dovrà essere dichiarata solo allorché non siano individuabili le censure mosse al provvedimento impugnato .
Riguardo la possibile violazione dei limiti previsti dal Regolamento ministeriale del 7 agosto 2023, non può che condividersi la scelta dell’art. 46 d.a. c.p.c. di circoscriverne la rilevanza processuale unicamente in punto valutazione delle spese, nonostante che il Consiglio Superiore della Magistratura, nel suo parere del 7 giugno 2023 sullo schema del decreto del Ministero della Giustizia attuativo dell’art. 46 cit., sembri dispiacersi della mancata adozione della disciplina del processo amministrativo, sia riguardo la necessità di un preventivo provvedimento autorizzativo del giudice a superare i limiti dimensionali dell’atto (rimessa invece alla motivata autovalutazione del difensore), sia relativamente all’inutilizzabilità processuale delle parti dell’atto eccedenti i limiti dimensionali .
7. La valutazione in punto spese processuali.
Peraltro, siffatta valutazione sulle spese resta quanto mai delicata, sia per la già sottolineata ineliminabile vaghezza dei concetti di chiarezza e sinteticità, sia per la difficoltà di censurare in cassazione tale valutazione giudiziale, rimessa alla discrezionalità del giudice del merito.
Non solo.
La legge non chiarisce se tale valutazione in punto spese possa determinare una condanna della parte che ha violato i principi di chiarezza e sinteticità alle spese di lite quand’anche sia risultata vincitrice e, in caso positivo, se si possa condannarla altresì ex art. 96, co. 3 e 4 c.p.c.
Nella giurisprudenza amministrativa non mancano esempi di compensazione delle spese in luogo della loro liquidazione in favore del vincitore prolisso , mentre nella giurisprudenza di legittimità, anche recentemente, si registrano condanne alle spese maggiorate della condanna ex art. 96 c.p.c. in danno del soccombente oscuro e prolisso .
La condanna per responsabilità processuale aggravata per la sola violazione dei principi di chiarezza e sinteticità, in assenza di una lite temeraria e della sussistenza di un danno, non pare condivisibile , non essendo tale ipotesi riconducibile alla fattispecie di abuso del processo .
Analogamente, non dovrebbe essere condannato alle spese il vincitore prolisso o oscuro, specie dopo che le Sezioni Unite della Cassazione hanno escluso la possibilità di condannare alle spese la parte vittoriosa, anche solo parzialmente ; a meno di non voler individuare in tale fattispecie la violazione dell’art. 88 c.p.c. e la conseguente applicazione dell’art. 92, co.1 c.p.c., che consente – indipendentemente dalla soccombenza – di “condannare una parte al rimborso delle spese, anche non ripetibili, che, per trasgressione al dovere di cui all’articolo 88, essa ha causato all’altra parte”.
Quanto alla compensazione totale in danno della parte pienamente vittoriosa ma prolissa od oscura, che dovrebbe invece vedersele rifondere, una simile scelta non sembra consentita dall’art. 92 c.p.c., che la limita ai casi di soccombenza reciproca, di assoluta novità della questione trattata o di mutamento della giurisprudenza rispetto alle questioni dirimenti, o “altre analoghe gravi ed eccezionali ragioni” (cfr. Corte Cost. n. 77/2018).
Allorché intenda “sanzionare” in punto spese il vincitore prolisso od oscuro, il giudice potrà liquidare in suo favore le spese di lite in una somma assai contenuta o finanche simbolica, avvalendosi degli ampi margini di discrezionalità riconosciutigli dal D.M. Ministero della Giustizia n. 55/2014.
8. Il potere giudiziale di far riscrivere gli atti oscuri o prolissi.
Riguardo la possibilità per il giudice di invitare le parti a riformulare un atto processuale non chiaro o prolisso, occorre distinguere:
- in caso di atto introduttivo che rimanga comprensibile quanto a petitum e causa petendi, il giudice potrebbe fondare la richiesta di riformulazione dello stesso (che, se ignorata, sarebbe valutabile quale contegno processuale negativo, ex art. 116 co.2 c.p.c. ):
o sull’art. 127 c.p.c., che lo autorizza a “fare o prescrivere quanto occorra affinché la trattazione delle cause avvenga in modo ordinato e proficuo”,
o sull’art. 175 c.p.c., che gli attribuisce “tutti i poteri intesi al più leale e sollecito svolgimento del procedimento” ,
o nel processo del lavoro, sull’art. 421 co.1, c.p.c. secondo cui il giudice “indica alle parti in ogni momento le irregolarità degli atti (cui potrebbero ricondursi l’insufficiente chiarezza e sinteticità: n.d.e.) che possono essere sanate, assegnando un termine per provvedervi”,
o accettando la premessa che un atto oscuro o difficilmente intellegibile perché eccessivamente prolisso può determinare una difficoltà per la controparte di individuare una questione di fatto o di diritto rilevante per la decisione, ma rimasta «sotto traccia» , sull’art. 101 c.p.c., per il quale il giudice “assicura il rispetto del contraddittorio e, quando accerta che dalla sua violazione sia derivata una lesione del diritto di difesa, adotta i provvedimenti necessari”;
- se si tratta di una memoria con deduzioni istruttorie, la sua eventuale oscurità o prolissità non dovrebbe consentirne alcuna riformulazione, dovendo le istanze essere vagliate, a prescindere dalla modalità stilistica più o meno apprezzabile con cui sono state formulate, sulla base dei soli requisiti di ammissibilità e rilevanza, anche perché la richiesta ad una parte di riformulare le proprie istanze istruttorie dopo aver visto quelle altrui violerebbe il principio di parità processuale delle parti ex art. 111. Cost.;
- se si tratta di altro atto processuale contenente mere argomentazioni in iure, varrà quanto esposto supra per gli atti introduttivi.
Non senza evidenziare, tuttavia, che sul piano pratico pare dubbia l’utilità di una riformulazione di atti oscuri o prolissi, posto che, ove tale richiesta sia accolta, il nuovo atto processuale “riformulato” non sostituirebbe a quello iniziale, ma ad esso si aggiungerebbe, costringendo giudice e controparte a verificare che non sia stata aggiunta un’allegazione, una produzione o una deduzione processualmente preclusa.
9. Le preoccupazioni sull’applicazione del nuovo art. 380 bis c.p.c.
Un’ultima osservazione sia consentita sull’applicazione del nuovo art. 380 bis c.p.c. che, come noto, espone il difensore del ricorrente ad una scelta assai impegnativa, ove riceva la proposta giudiziale di definizione del giudizio in caso di ritenuta inammissibilità, improcedibilità, o manifesta infondatezza del ricorso per cassazione.
Egli dovrà infatti consultarsi con il suo cliente e scegliere
- se aderire alla proposta, con l’immediata estinzione del giudizio per rinuncia agli atti e conseguente condanna alle spese fino a quel momento maturate (ma senza il pagamento del doppio del contributo unificato ); ovvero
- farsi rilasciare una nuova procura dal cliente e chiedere la decisione (che, se sarà conforme alla proposta, comporterà la condanna alle spese, con applicazione dell’art. 96 co. 3 e 4 c.p.c. e il pagamento del doppio del contributo unificato).
Tale norma intacca la struttura collegiale del giudizio di cassazione e, a seconda di come sarà applicata, si rivelerà
- giustamente punitiva nei confronti delle parti i cui difensori intasino la corte di cassazione con ricorsi inammissibili, improcedibili o manifestamente infondati (c.d. ricorsi-spazzatura ), oppure
- ingiustamente premiale a beneficio di magistrati negligenti o distratti, che valorizzino dubbi profili di inammissibilità o improcedibilità ritenuti ostativi alla decisione del merito della lite, a meri fini deflattivi.
Considerati i margini di opinabilità con cui in passato la Cassazione ha dichiarato inammissibili o improcedibili alcuni ricorsi, per carenze formali discutibili o asserite violazioni del principio di autosufficienza , nonché l’aumento rilevante delle dichiarazioni di inammissibilità dei ricorsi dal 2012 al 2022 , questa norma potrebbe dare nuovo lustro alla figura dell’avvocato “convenutista”, richiamata qualche tempo fa dalla dottrina per definire il difensore che accetta incarichi in cassazione solo dal resistente.
Resta il fatto che il procedimento ex art. 380 bis c.p.c. certamente complica i rapporti tra difensore e cliente – imponendone un contatto poco prima della decisione della Corte – e accresce i rischi di contenziosi per responsabilità professionale dell’avvocato, non essendo semplice spiegare al proprio assistito che il ricorso è stato dichiarato inammissibile perché è stato ritenuto “scritto male”.
Tanto più che la Corte stessa, in alcuni casi, evidenzia il diritto del cliente di agire contro il proprio difensore, laddove scrive che le carenze del ricorso “sono ben idonee a riflettersi, previo il necessario accertamento su chi ha operato nel caso concreto le scelte abusive, sulla responsabilità professionale del difensore: nel caso in cui questa sussista e l’assistito agisca nei confronti del suo avvocato, viene a configurarsi una fattispecie di sanzione per via indiretta a carico della parte tecnica in forza di iniziativa della parte sostanziale” .
Non resta, quindi, che confidare in un’applicazione della norma in modo non formalistico, ma equilibrato e rispettoso del diritto di difesa delle parti .
Precauzionalmente, tuttavia, al fine di attenuare i rischi di contenziosi per responsabilità professionale sarà forse consigliabile, per i difensori, sensibilizzare per iscritto i propri assistiti potenziali ricorrenti in cassazione, sulla “fluidità” di alcuni profili formali del ricorso – come quello sull’autosufficienza – e sui criteri di chiarezza, specificità e sinteticità, suscettibili di essere interpretati soggettivamente, in senso formalistico e rigido, forieri di possibili dichiarazioni di inammissibilità dell’atto introduttivo. Specie considerando che siffatta dichiarazione di inammissibilità, quand’anche errata, non risulta più censurabile (fuori dai casi, certamente non frequenti, disciplinati dagli artt. 391 bis, ter e quater c.p.c.).