testo integrale con note e bibliografia
1. Descrivere il ruolo del sindacato nel processo in questi primi 50 anni di vita del rito del lavoro e offrirne un giudizio sintetico non è facile perché significa ripercorrere una storia sfaccettata e costellata di successi e di fallimenti .
Una “carrellata” dei ruoli processuali del sindacato, quindi, può essere l’occasione non solo per riepilogare gli eventi in ottica celebrativa, ma anche per delineare, con maggiore nitidezza, pregi e difetti, tendenze recente e possibili sviluppi futuri.
La complessità ed eterogeneità di ruoli e funzioni giocati dal sindacato impedisce, anche per ragioni di spazio, di essere esaustivi su ogni istituto processuale coinvolto. Tuttavia, c’è un fil rouge attraverso il quale è possibile sviluppare una chiave di lettura unitaria capace di far emergere le tendenze e gli sviluppi: si tratta del rapporto o, meglio, della tensione, fra dimensione collettiva e dimensione individuale delle controversie istruite e decise nelle aule di giustizia.
Naturalmente, inoltre, una carrellata, anche celebrativa, impone di prestare attenzione ai problemi applicativi su cui sono intervenute recentemente decisioni significative o, per qualche ragione, singolari.
Infine, va detto che la storia del sindacato dei lavoratori nel processo non può essere interpretata adeguatamente se non considerando anche quella, certo meno ricca, delle organizzazioni datoriali .
2. Per fare un bilancio serio è opportuno non limitarsi a considerare i ruoli giocati dalle oo.ss., ma anche quelli che non hanno giocato per loro scelta o per volontà del legislatore.
In primo luogo, le oo.ss. italiane non hanno svolto il ruolo di compartecipi della funzione giurisdizionale per una precisa scelta del legislatore.
Può sembrare una considerazione scontata, ma non lo è davvero se consideriamo che, in altri paesi e in altre epoche anche in Italia, la partecipazione all’amministrazione della giustizia anche dei sindacati è ed era un fatto normale. Si pensi alla giurisdizione federale del lavoro tedesca (ove ai giudici togati si affiancano i giudici onorari nominati sulla base di elenchi proposti dalle oo.ss.), ai nostri collegi dei probiviri (1893/1928) – composti anche da persone elette rispettivamente dagli industriali e dagli operai (fra cui dovevano essere comprese le donne), salvo i togati di nomina governativa –, nonché alle “italianissime” sezioni speciali del lavoro di epoca fascista (1926/1941), che erano composte da giudici togati, a cui venivano aggregati, di volta in volta, due cittadini esperti nei problemi della produzione e del lavoro, scelti nell’ambito di elenchi divisi per categoria.
Inoltre, le oo.ss. avrebbero potuto giocare un ruolo paragonabile a quello dell’amministrazione pubblica della giustizia attraverso l’equivalente giurisdizionale dell’arbitrato rituale o irrituale. Un ruolo che il legislatore aveva già ammesso con l’introduzione del rito lavoristico nel 1973 e che è stato poi più convintamente sostenuto con la nota riforma 183/2010 . Tuttavia, alcuni paletti posti all’istituto (anche costituzionali, cfr. l’art. 24 Cost.) , ma soprattutto il disagio culturale delle parti sociali a percepirsi come potenziali amministratori diretti della giustizia e la correlata inclinazione (politico-ideologica) a considerarsi piuttosto quali parti schierate e in conflitto, hanno reso fallimentare il tentativo di affidare alle oo.ss. la messa in piedi di un sistema arbitrale maturo: non sono tanti i CCNL che prevedono e regolano adeguatamente gli arbitrati, ancora meno i lodi e le clausole compromissorie certificate.
3. Proprio per la suddetta percezione di sé quali attori di parte, le oo.ss. hanno ovviamente giocato il ruolo di parte nel processo. Eppure, anche in questa veste, il giudizio su come tale ruolo è stato introdotto e sostenuto dal legislatore è sfaccettato.
Per un verso, infatti, le oo.ss. sono state considerate formalmente estranee alle controversie individuali di lavoro.
Innanzitutto, è stata totalmente scartata l’ipotesi di ammettere le oo.ss. quali rappresentanti / sostituti processuali delle parti individuali del rapporto di lavoro. Non perché vi sia una precisa disposizione di legge in tal senso (tutt’altro), ma per le conclusioni cui giunse la dottrina alla luce di alcune regole di principio che informavano il sistema del processo tout court. Ovvero la regola secondo cui si può stare in giudizio per la tutela dei “propri” diritti e interessi legittimi (art. 24 Cost.) e quella secondo cui non si può far valere nel processo un diritto altrui in nome proprio, fuori dei casi espressamente previsti dalla legge (art. 81 c.p.c.). Ciò, infatti, indusse a fare un ulteriore passo interpretativo facendo dire alle disposizioni di legge che il diritto e l’interesse del sindacato sono ontologicamente diversi e logicamente autonomi rispetto al diritto e all’interesse della singola persona che lavora. D’altronde aveva preso da tempo il sopravvento la tesi che voleva e vuole l’interesse collettivo (e l’autonomia collettiva), qualitativamente e quantitativamente diverso dall’interesse (e dall’autonomia) individuale dei lavoratori. La conclusione interpretativa era, peraltro, rafforzata dal fatto che la legge del 1973 abrogò l’art. 443 c.p.c. secondo cui “le associazioni legalmente riconosciute delle categorie alle quali appartengono le parti possono intervenire in qualunque stato e grado del processo per la tutela degli interessi di categoria”.
Non è possibile approfondire adeguatamente il punto, ma l’estraneità delle oo.ss. alle controversie individuali è stata data presto per scontato dai giuristi in virtù degli argomenti esegetici di cui sopra, ma si tratta di conclusioni familiari solo alla comunità dei giuristi. A pensarci bene, infatti, tale carattere è, semmai, controintuitivo per il cittadino comune, se è vero che le oo.ss. possono avere rilevantissimi interessi diretti o indiretti ad una certa conclusione di una controversia individuale, come dimostra il contributo spesso determinante degli uffici vertenze delle oo.ss. ad attivare strategie di contenzioso a livello locale o nazionale. D’altronde, peraltro, questa conclusione appartiene “solo” alla storia repubblicana del processo. Viceversa, prima dell’avvento della Costituzione, si riconosceva anche sotto il profilo giuridico una certa familiarità e connessione formale fra i diritti/interessi del sindacato e quelli delle persone che lavorano. E di tale familiarità è rimasta tutt’oggi traccia. Infatti, esiste (e ha resistito ad alcuni tentativi di abrogazione formale) una disposizione del codice civile che esprime bene questa realtà di fatto, anche se è rivestita di paramenti corporativistici al punto che i più l’hanno considerata implicitamente abrogata con l’abolizione del corporativismo. L’art. 2907 comma 2 c.c., infatti, afferma che “la tutela giurisdizionale dei diritti, nell’interesse delle categorie professionali, è attuata su domanda delle associazioni legalmente riconosciute, nei casi determinati dalla legge e con le forme da questa stabilite” .
In secondo luogo, è stato quasi sempre escluso l’intervento volontario delle oo.ss. nelle controversie individuali (compreso quello adesivo dipendente) ex art. 105 c.p.c., al punto che, nelle ultime decadi, le oo.ss. hanno smesso di tentare gli interventi volontari ed anche i precedenti giurisprudenziali sul punto si sono fatti radi.
Infatti, nonostante sia evidente l’interesse delle oo.ss. ad intervenire in una controversia che riguardi l’applicazione o l’interpretazione del contratto collettivo, il loro intervento volontario non è solitamente ammesso perché si afferma che in nessun modo la decisione della controversia individuale può impattare negativamente sul sindacato, posto che le sentenze fanno stato solo fra le parti .
Non mancano, comunque, dei casi rari di intervento sindacale ammesso dai giudici, a conferma del fatto che l’art. 105 c.p.c. lascia qualche spazio per delle interpretazioni più elastiche.
Trib. Napoli 5 ottobre 2001 , ad esempio, nell’ambito di un procedimento ex art. 700 c.p.c. ha stabilito che “è ammissibile l’intervento adesivo dipendente del Sindacato, a norma dell’art. 105 comma 2° c.p.c.: il Sindacato ha infatti interesse giuridico a norma dell’art. 100 c.p.c. a sostenere le ragioni dei dipendenti (…) intervenuti in giudizio. Tale interesse va individuato nella circostanza che la procedura impugnata è prevista dal contratto collettivo integrativo sulla base del contratto collettivo nazionale e, quindi, vi è un interesse della parte sindacale a sostenere le ragioni della legittimità del proprio operato in sede contrattuale”. La decisione sconta il fatto di riguardare il settore pubblico, ove la regolazione stringente del sistema negoziale può facilitare, come era in epoca pre-repubblicana, un avvicinamento e una sovrapposizione di interessi della persona e del sindacato; ma gli argomenti spesi dal giudice paiono ampiamente applicabili anche al settore privato.
Le ragioni dell’esclusione dell’intervento volontario sono le medesime viste per l’esclusione della rappresentanza/sostituzione processuale, ovvero, detto in altri termini, la distinzione netta e radicale fra dimensione individuale e dimensione collettiva delle controversie promossa, pure con buone ma non invincibili ragioni, dalla dottrina processualistica repubblicana. Rimanevano così tutto sommato inascoltate le considerazioni realistiche sullo stato della giustizia del 1971 ove si evidenziava che la domanda di giustizia «si pone sempre più non solo come espressione di interessi individuali ma come perseguimento di un’ampia solidarietà collettiva: in altri termini si tende a ricorrere al giudice, con l’appoggio delle organizzazioni sindacali, per ottenere sentenze paradigmatiche su fatti esemplari e strategici, che diventano perciò ampio patrimonio collettivo, utilizzabile anche in altre situazioni similari» .
3.1. L’opzione per la separazione netta fra dimensione individuale e collettiva poteva, fino ad un certo punto della storia del diritto processuale, dare adito a delle tensioni/crisi del sistema normativo-processuale, come sempre accade quando la legge non accoglie e regola aspetti forti ed emergenti della realtà – quali, in questo caso, l’intreccio fra interessi individuali e collettivi. Così non è stato solo perché nel 1970 veniva introdotto un istituto processuale che assegna al sindacato (solo dei lavoratori) il ruolo di parte in un “ambiente” processuale ben confinato e distinto da quello ove si decidono le controversie individuali, quello delle controversie per la repressione della condotta antisindacale (art. 28 st. lav.). In questo modo, l’assunto interpretativo della separazione fra individuale e collettivo veniva confermato ed al sindacato veniva concessa un’arma da impugnare per giocare il ruolo formale di parte titolare di diritti e interessi “individuali”, nel senso di “propri”.
L’art. 28 st. lav. dunque, almeno di primo acchito, non ha rappresentato un’eccezione alla separazione processuale delle dimensioni individuale e collettiva, ma una conferma ; eppure esso non ha potuto scaricare tutta la tensione dovuta alla pressione esercitata dalla realtà delle intersezioni fra le due dimensioni delle controversie lavoristiche, come dimostrato soprattutto dal fenomeno delle condotte antisindacali pluri-offensive e, più in generale, dal fatto che l’art. 28 st. lav. ha rappresentato uno strumento di tutela di diritti e interessi collettivi tout court, concepiti, con le diverse sfumature delle varie impostazioni teoriche, come interessi propri (anche) del sindacato, a prescindere da un interesse sindacale inteso in senso stretto .
Questo stato di cose ha fatto emergere rilevanti problemi tecnico-giuridici su cui dottrina e giurisprudenza si affannano con spirito di servizio, come se si trattasse di ostacoli ordinari con cui l’interprete deve convivere. Forse, però, è mancata una sufficiente consapevolezza della loro particolare gravità, anche sul piano pratico, e del loro significato teorico. Altrimenti sarebbero state avanzate sia maggiori e più convinte critiche per un sistema processuale disfunzionale sotto i diversi profili che vedremo, sia proposte di rivisitazione dell’irrealistico presupposto dogmatico della separazione delle dimensioni individuali e collettive. I problemi cui ci si riferisce, infatti, non sembrano derivare solo dai normali limiti di fattura delle disposizioni di legge coinvolte, ma rappresentano anche il costo diretto o indiretto di tale approccio “separatista”.
In sostanza, l’art. 28 st. lav. – introdotto dal legislatore anche per fare uscire dalla porta lo spettro dell’inquinamento delle controversie individuali di lavoro – ha fatto rientrare il fantasma dalla finestra, sotto forma di grattacapi o contraddizioni sistematiche che giocano il ruolo della sabbia negli ingranaggi di un sistema formalista, solo superficialmente aperto alla principale peculiarità delle relazioni sindacali, quella dell’intreccio fra dimensione collettiva e individuale. Una sabbia fastidiosa per l’interprete, ma salutare per il sistema stesso, perché può agevolare la presa di coscienza dei limiti del sistema e, un giorno, forse, favorire nuove soluzioni ermeneutiche o addirittura riforme legislative.
a) Il primo dei problemi riguarda il potenziale contrasto fra giudicati. Come è noto, sulla stessa condotta datoriale (c.d. plurioffensiva) possono concentrarsi due azioni giudiziali, quella individuale della persona che lavora e quella collettiva del sindacato. Si tratta di azioni ritenute del tutto autonome che però, inevitabilmente, possono condurre a giudizi contrastanti, con un impatto pratico enorme a seconda dei casi: si pensi al caso classico del licenziamento o del trasferimento per ragioni sindacali impugnato sia dal sindacato ex art. 28 st. lav. che dal lavoratore ex art. 409 e ss. c.p.c. ma ritenuto valido da un giudice e invalido dall’altro. Si tratta di una situazione paradossale cui ci si è, forse, assuefatti troppo, al punto che varie possibili soluzioni ermeneutiche sono state escluse, compresa la possibilità di sospendere il giudizio ex art. 295 c.p.c. (Cass. 6216/1983).
Un problema pratico collegato, peraltro, si pone anche quando ad agire contro la condotta datoriale è solo il sindacato o solo il lavoratore. Infatti, va ricordato che la decisione giudiziale di condanna è titolo esecutivo solo per la parte del giudizio, non per quella rimasta inerte. Pertanto, il lavoratore che non impugni giudizialmente il licenziamento, non potrà avvantaggiarsi della decisione ex art. 28 st. lav. per agire in via esecutiva ed ottenere, ad esempio, il pagamento delle retribuzioni dovute dopo l’ordine di reintegrazione.
Anche in questo caso, le possibili soluzioni ermeneutiche non sono state nemmeno tentate. Così, sempre per rimanere fedeli all’assunto della separazione fra dimensione individuale e collettiva, si è escluso che la persona che lavora possa spiegare intervento volontario nella controversia ex art. 28 st. lav. affermandosi che “nel procedimento ex art. 28 l. n. 300/1970, cui sono legittimati solo gli organismi sindacali specificati dalla medesima disposizione di legge, il singolo lavoratore concretamente interessato all’accoglimento del ricorso può solo spiegare intervento adesivo dipendente e, conseguentemente, non è legittimato ad impugnare autonomamente la sentenza che abbia provveduto in ordine al ricorso” (cfr. Cass. 6/06/2005, n.11741, Cass. 2003/3343 e Cass. 2004/10530)”.
b) Il secondo problema riguarda i possibili contenuti della condanna ex art. 28 st. lav. perché la separazione delle due dimensioni collettiva e individuale dovrebbe astrattamente indurre a distinguere fra rimozione di effetti sulla persona e rimozione di effetti sul sindacato, se ciò non fosse nella maggior parte dei casi impossibile.
Tant’è che si è formato presto un orientamento maggioritario secondo cui, quando gli effetti individuali e collettivi della condotta datoriale sono inestricabilmente collegati, la decisione giudiziale ex art. 28 st. lav. può e deve impattare anche sulla dimensione individuale, seppure solo in via di fatto, altrimenti sarebbe inutiliter data.
Così, rimanendo sull’esempio classico, si afferma comunemente che l’ordine di rimozione degli effetti della condotta antisindacale implica l’accertamento della nullità del licenziamento antisindacale e quindi autorizza il giudice adito ad ordinare la reintegrazione. Questo approccio, peraltro, ha un impatto non banale anche verso soggetti totalmente estranei alla condotta antisindacale repressa: si consideri, Cass., 27 febbraio 2017, n. 4899 che ha riconosciuto la legittimità della pretesa dell’INPS di vedersi versati i contributi in caso di “licenziamento dichiarato antisindacale e nullo ex art. 28 st. lav., anche in assenza dell'azione individuale e indipendentemente dalla soddisfazione totale o parziale degli obblighi retributivi nei confronti del lavoratore”.
In ragione di questi orientamenti maggioritari, si è criticamente sostenuto che la decisione ex art. 28 st. lav. produce effetti ultra partes o erga omnes , volendo evidenziare delle frizioni con i principi processuali generali. Ed è forse per questa ragione che non sono mancati orientamenti giurisprudenziali volti a porre un freno all’“andazzo”, distinguendo fra beni della vita ottenibili con la decisione ex art. 28 st. lav. e beni della vita ottenibili solo dai singoli, sul presupposto – tutto da verificare – che gli effetti collettivi ed individuali della condotta datoriale, almeno in certi, non sono inestricabilmente collegati.
Quanto si va dicendo è espresso dalla massima secondo cui “con l’azione giudiziaria promossa ex art. 28 non è possibile conseguire il soddisfacimento di pretese contrattuali del lavoratore dipendente, ma è dato soltanto ottenere la rimozione, nell’interesse del sindacato attore, della condotta lesiva delle prerogative giuridiche di quest’ultimo, con l’ulteriore conseguenza che, di regola, per ottenere la piena soddisfazione dei diversi interessi, è necessario l’esperimento parallelo dell’azione ex art. 28 e dell’azione contrattuale secondo la previsione dell' art. 409 cpc” . Ebbene, questo approccio al tema ha indotto qualche giudice a dichiarare illegittima una sospensione disciplinare ritenuta antisindacale, ma a respingere la domanda attorea di restituzione al lavoratore della retribuzione trattenuta in esecuzione della sospensione. Secondo il giudice adito, infatti, “tale pronuncia non può essere adottata al fine di rimuovere gli effetti della condotta antisindacale, in quanto è satisfattiva di interessi patrimoniali del singolo lavoratore, la cui tutela è estranea al procedimento ex art. 28 st. lav.” .
Queste decisioni, a prescindere dal giudizio di merito che se ne voglia dare, dimostrano quanto artificiosa sia la separazione fra individuale e collettivo e quanto problematiche siano le sue conseguenze pratiche, anche solo sul piano dell’economia e dell’efficienza del sistema giustizia.
c) Un terzo problema sistematico riguarda il rapporto fra art. 28 st. lav. ed altre azioni giudiziali. Come è noto, la Corte costituzionale ha da tempo chiarito che l’art. 28 st. lav. rappresenta uno strumento ulteriore messo a disposizione di certi sindacati (quelli nazionali) in certi casi gravi (ovvero quelli in cui la condotta datoriale produce effetti attuali ed a livello aziendale), ferme le azioni esperibili in via ordinaria (Corte cost. 54/1974 e 89/1995). Ma questa è l’unica certezza in materia. Non è chiaro, invece, se l’azione ordinaria esperibile sia quella ex art. 409 c.p.c. o quella del rito ordinario civile (ex art. 163 c.p.c.) o, sussistendo i particolari presupposti, quella ex art. 700 c.p.c. o quella ex art. 281 decies c.p.c. sul procedimento semplificato di cognizione (il vecchio art. 702 bis c.p.c. sul procedimento sommario di cognizione) .
Esiste un orientamento secondo cui lo strumento alternativo all’art. 28 st. lav. sarebbe il rito ex art. 409 e ss. c.p.c. Va però chiarito che questa posizione non può fondarsi sull’assunto per cui l’art. 409 e ss. c.p.c. riguarderebbe anche controversie collettive, perché la lettera della disposizione codicistica richiama chiaramente solo i rapporti e le controversie individuali di lavoro, ed è stata così formulata, come abbiamo più volte detto, con il volontario intento di separare nettamente la dimensione individuale e quella collettiva . Piuttosto, la posizione si giustifica meglio per il fatto che il legislatore, con il ritocco del 1977 all’art. 28 st. lav., ha previsto l’applicazione del rito del lavoro per tutto quanto non derogato dalla disposizione speciale .
In ogni caso, questo orientamento (alla luce dell’unico argomento convincente) può essere tuttalpiù condiviso solo in riferimento alle condotte datoriali antisindacali in senso stretto (ovvero le condotte del datore “dirette ad impedire o limitare l'esercizio della libertà e della attività sindacale nonché del diritto di sciopero”), ma che il legislatore del 1970 non ha ritenuto di combattere con lo strumento speciale: si pensi alla condotta antisindacale nei confronti di un sindacato non nazionale o alla condotta non più attuale.
Viceversa, l’orientamento perde la sua forza persuasiva in riferimento a controversie di interesse sindacale che non sono però riconducibili alla condotta antisindacale propriamente detta. È il caso, innanzitutto delle condotte unfair, perpetrate non dal datore di lavoro (e quindi non in un contesto aziendale) ma da soggetti diversi, in un contesto non aziendale (o le condotte, invero difficili da ipotizzare, che danneggiano il sindacato come associazione – ad esempio il suo patrimonio, senza interferire con l’esercizio di libertà sindacali).
In questi casi, l’art. 28 st. lav. non è certamente applicabile; pertanto, che piaccia o meno, ammettere l’alternativa dell’art. 409 c.p.c. rappresenta una forzatura, anche se caratterizzata dalle più buone intenzioni, compresa quella di ridimensionare la separazione netta fra lato individuale e lato collettivo della controversia.
Eppure, v’è giurisprudenza che, forse un po’ pigramente, avalla detta forzatura. Recentemente, ad esempio, è stato fatto ricadere nel raggio d’azione del rito lavoristico ordinario il caso dell’esclusione di un sindacato dal tavolo di trattative per la stipula di un CCNL, senza nemmeno motivare le ragioni della posizione . Questo ha significato far rientrare nell’art. 409 c.p.c. una causa in cui non v’era alcun datore di lavoro coinvolto, ma resistevano alle domande dell’associazione sindacale una organizzazione datoriale e, per giunta, altri sindacati dei lavoratori. La forzatura della lettera della legge sul rito del lavoro ordinario è dunque evidente, anche se è comprensibile che la familiarità del giudice del lavoro con le controversie lavoristiche sia individuali che collettive, induca ad affidare a quest’ultimo le decisioni che non possono essere prese ex art. 28 st. lav.
d) Più recentemente, la dogmatica “separatista” delle dimensioni individuali e collettive ha fatto emergere nuovi problemi tecnici rispetto all’istituto delle misure di coercizione indiretta (c.d. astreinte) ex art. 614 bis c.p.c.
Come è noto, anche dopo il d.lgs. 150/2022 (c.d. Riforma Cartabia) e in aperto contrasto con l’indicazione della Commissione Luiso, l’art. 614 bis c.p.c., che nel 2009 ha introdotto e regolato le misure di coercizione indiretta, esclude la loro applicazione “alle controversie di lavoro subordinato pubblico o privato e ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’articolo 409”.
Come è ovvio, ciò ha indotto unanimemente a non applicare le astreinte nelle controversie individuali di lavoro . Meno scontato, invece, è che ciò sia accaduto per poco più di un decennio anche per le controversie collettive ex art. 28 st. lav., nell’ambito delle quali lo strumento sarebbe preziosissimo perché si tratta spesso di controversie ruotanti attorno alla violazione di obbligazioni infungibili del datore di lavoro.
Invero, inizialmente si è verificato un assordante silenzio sul punto, forse dovuto al comprensibile riflesso incondizionato degli operatori pratici di mescolare in un unico insieme le controversie collettive e quelle individuali di lavoro, ad onta della costruzione “separatista” del diritto processuale . Successivamente, i sindacati hanno incominciato a tirare per la giacchetta i giudici e recentemente ciò ha condotto ad un contrasto giurisprudenziale. Ad avviso di scrive, tale contrasto è dovuto proprio al presupposto “separatista” delle dimensioni individuale e collettiva delle controversie lavoristiche e del conseguente impianto processualistico poco aderenti alla realtà (ove individuale e collettivo si mescolano inestricabilmente.
Trib. Palermo 20.6.2023, infatti, ha applicato le astreinte sul presupposto che l’art. 614 bis c.p.c. richiama, ai fini dell’eccezionale esclusione, solo l’art. 409 c.p.c., il quale, come si è già visto, richiama solo controversie individuali non certo quelle collettive (a dire il vero l’art. 614 bis c.p.c. richiama l’art. 409 c.p.c. solo per precisare il significato di co.co.co. ma applica l’eccezione “alle controversie di lavoro subordinato privato e pubblico e ai rapporti di collaborazione coordinata e continuativa”, in ogni caso senza alcun riferimento alle controversie collettive).
Viceversa, ancora più recentemente, il Trib. Torino 5.8.2023 (in ??) ha escluso l’applicazione delle astreinte perché l’art. 28 st. lav. prevede uno specifico strumento dissuasivo di tipo penalistico (ovvero l’art. 650 c.p. sull’inottemperanza degli ordini giudiziali), che induce ad escludere l’applicazione di quello generale previsto dall’art. 614 bis c.p.c.
Si potrebbe obiettare a questa diversa tesi che lo strumento penalistico è diverso e meno efficace di quello delle astreinte, nel contesto delle relazioni industriali, per la lentezza che lo caratterizza, e se ciò non bastasse l’esclusione delle controversie collettive (come di quelle individuali di lavoro, invero) andrebbe sottoposta all’attenzione della Corte costituzionale, invece che essere applicata senza indugi (anche solo al fine di una sentenza di rigetto chiarificatrice sul punto). Ma ciò che conta in questa sede è evidenziare come anche questo nuovo contrasto esegetico sia figlio di un sistema processuale per compartimenti stagni, poco coerente con la realtà e ancora meno efficiente.
e) Infine, una questione altrettanto recente che fa emergere le problematiche conseguenze pratiche della separazione fra dimensione individuale e collettiva riguarda l’applicazione dell’art. 28 st. lav. ai confini della (e oltre la) subordinazione.
Come è noto, l’art. 28 st. lav. è dedicato alle condotte antisindacali perpetrate da un “datore di lavoro”, quindi da un imprenditore che abbia lavoratori subordinati alle proprie dipendenze. Non è una formulazione felice, sia perché il legislatore del 1970 ha fatto riferimento al datore di lavoro solo al fine di reprimere le condotte antisindacali che producono effetti nel particolare e sensibile contesto aziendale, sia perché essa produce una asimmetria rispetto all’art. 409 c.p.c. che si riferisce non solo alle controversie individuali con i datori di lavoro, ma anche a quelle con i committenti. Ma tant’è.
La diffusione di rapporti di lavoro para-subordinato e il conseguente sviluppo in tale zona grigia non solo di controversie individuali, ma anche di veri e propri fenomeni sindacali, ha fatto sorgere dei dubbi sulla legittimazione passiva dell’imprenditore unfair e quindi sull’ammissibilità della domanda ex art. 28 st. lav.
Come è noto, a parte un decreto fiorentino (T. Firenze, 9 febbraio 2021), le ordinanze ex art. 28 st. lav. che hanno affrontato il tema (attraverso la lente del lavoro tramite piattaforme digitali) hanno optato per la legittimazione passiva dell’imprenditore convenuto, in virtù della riconducibilità del fenomeno sindacale impattato dalla condotta contestata a rapporti di lavoro subordinati o almeno etero-organizzati ex art. 2 d.lgs. 81/2015 .
Anche in questo caso esistono numerosi argomenti a favore o contro questo orientamento dominante, a causa del complicato sistema processuale lavoristico. Ma ciò che preme evidenziare rispetto al problema qui sviluppato è che i giudici aditi ex art. 28 st. lav. si sono trovati (e si troveranno sempre più spesso) nella indesiderabile situazione di dover svolgere, nell’ambito di una controversia di natura collettiva, un’indagine preliminare in tema di qualificazione dei rapporti di lavoro che ha per sua natura rilievo e dimensione individuale.
In concreto, infatti, i giudici aditi ex art. 28, devono e dovranno ipotizzare una sorta di prototipo dei rapporti individuali (direttamente o indirettamente) coinvolti nella controversia collettiva, da qualificare individuando il loro minimo comune denominatore e trascurando le specificità di ognuno, come se l’imprenditore non potesse organizzare la propria impresa anche attraverso diverse tipologie di rapporto di lavoro individuale. È vero che nel caso delle piattaforme digitali, l’uso dello stesso algoritmo lascia presumere che i rapporti di lavoro siano fra loro identici (come nel caso dei riders), ma in futuro gli algoritmi potrebbero permettere una differenziazione nella gestione dei rapporti; inoltre, il medesimo problema pratico si porrà anche oltre il lavoro tramite piattaforme digitali.
L’indagine preliminare cui sono costretti oggi i giudici aditi ex art. 28 st. lav., in definitiva, è una evidente fictio cui è necessario ricorrere per adattare una cangiante e confusa realtà ad un impianto processuale, sotto questo aspetto inadeguato.
4. La “grave” scelta di separare nettamente le controversie individuali e quelle collettive ha indotto il legislatore del 1973 a ritagliare alle oo.ss. un ruolo particolare nel rito del lavoro, spia dell’interesse di fatto nutrito anche da queste ultime sull’esito delle controversie individuali. Ci si riferisce alle informazioni e osservazioni orali o scritte che possono essere richieste su istanza di parte (art. 425 c.p.c.) o d’ufficio (art. 421 c.p.c.) alle oo.ss. indicate dalle parti (non quindi a quelle preferite dal giudice), nonché alla facoltà di richiedere d’ufficio il testo di un contratto collettivo (art. 425 c.p.c.).
Di questi istituti singolari si sono dati giudizi forti: si è detto, infatti, che sono “modesti” o “moderati”, che rappresentano un “pertugio” o un “bugigattolo” . Come che sia, in effetti, hanno avuto scarso utilizzo .
L’intuizione del legislatore non era affatto malvagia, ma l’insuccesso degli istituti citati è legato al fatto che essi, per così dire, non sono “né carne né pesce”, nel senso che non si capisce se l’intervento delle oo.ss. dovrebbe essere di ausilio al giudice e/o alle parti. Quella scelta ha rappresentato una specie di “terza via” troppo poco battuta (tanto per richiamare scelte politiche timide che, per questo, non hanno avuto fortuna) . Significativo, da questo punto di vista, l’episodio del giudice che chiese ad un sindacato informazioni scritte rispetto alla storia di una clausola di un contratto collettivo e a rispondere fu, peraltro con grande trasparenza, lo stesso avvocato del ricorrente nelle vesti di responsabile dell’ufficio vertenze del sindacato .
All’insuccesso, come è ovvio, è seguito un sottoutilizzo degli strumenti citati, ma ciò che un po’ sorprende è che la giurisprudenza non sembra aver mai cercato di sostenere il tentativo del legislatore: i pochi precedenti giurisprudenziali, infatti, non valorizzano affatto questi istituti, anzi ne limitano valore e applicazione, forse anche per la difficoltà di stabilire come maneggiare le informazioni/osservazioni raccolte in sede di motivazione .
Segnalo tre esempi di decisioni recenti oggettivamente opinabili:
a) Cass., 21 novembre 2018, n. 30137 (in DJ), ad esempio, afferma che “le informazioni e osservazioni sono inidonee, anche in considerazione del loro carattere unilaterale, ad identificare la comune intenzione delle parti stipulanti il contratto collettivo, rilevante ai sensi dell’art. 1362 c.c., ma, salva l’ipotesi in cui siano suffragate da elementi aventi un’intrinseca valenza probatoria, hanno la funzione di fornire chiarimenti ed elementi di valutazione riguardo agli elementi di prova già disponibili”. La massima estratta direttamente dalla motivazione è opinabile perché le informazioni possono essere rese dalle oo.ss. individuate da entrambe le parti del rapporto, quindi, adoperando con equilibrio questa facoltà, cioè chiedendo informazioni alle organizzazioni di riferimento di entrambe le parti in causa, il giudice può rappresentarsi un quadro informativo non tendenzioso, che ben potrebbe fare da base esclusiva per la decisione. L’interpretazione di una clausola del contratto collettivo è l’esempio lampante, perché le informazioni ed osservazioni delle oo.ss. (di entrambe le parti) avrebbero potuto essere una fonte importante per stabilire l’intenzione effettiva delle parti stipulanti il contratto collettivo.
b) Cass., 4 maggio 2010, n. 10711 (in DJ), inoltre, afferma che nel rito del lavoro, “la facoltà di richiedere osservazioni scritte ed orali può essere esercitata solo nel giudizio di primo grado e non anche in appello, e presuppone che la norma contrattuale presenti aspetti oscuri ed ambigui o ponga una questione interpretativa seriamente opinabile”. Si tratta di un approccio evidentemente restrittivo, non tanto a proposito del presupposto dell’ambiguità della questione interpretativa quanto del limite all’utilizzo dello strumento nel grado di appello che, in vero, le disposizioni codicistiche non impediscono affatto.
c) Cass., 5 marzo 2019, n. 6394 (in DJ) infine, afferma che siccome il contratto collettivo privatistico è conoscibile solo con la collaborazione delle parti, la loro iniziativa, “sostanziandosi nell’adempimento di un onere di allegazione e produzione, è assoggettata alle regole processuali sulla distribuzione dell’onere della prova e sul contraddittorio (che non vengono meno neppure nell’ipotesi di acquisizione giudiziale ex art. 425, comma 4, c.p.c.)”. Questa è una interpretazione addirittura abrogatrice dello strumento in sé che contrasta con gli orientamenti giurisprudenziali sui poteri istruttori speciali del giudice del lavoro, rispetto ai quali si registra invece maggiore elasticità come è noto.
In definitiva, i già limitati ed ambigui spazi di azione sindacale nelle controversie individuali sono stati puntellati all’atto pratico con un rigore e un approccio restrittivo inusuali per la giurisprudenza del lavoro, spia di un atteggiamento quasi sospettoso verso questi istituti che avrebbero dovuto fare da moderato canale di comunicazione con la dimensione collettiva della controversia.
5. Solo più recentemente il sindacato ha finalmente potuto assumere il ruolo di rappresentante processuale e quello di sostituto processuale nell’interesse di singoli o di una pluralità di individui, ma solo per le controversie in diritto antidiscriminatorio in materia di occupazione e di condizioni di lavoro (ex art. 5 d.lgs. 216/2003) e, quindi, in un contesto lavoristico del tutto particolare .
Questo nuovo spazio di azione, come e più dell’art.28 st. lav., ha aggiunto altra sabbia negli ingranaggi del sistema, mettendo in evidenza platealmente i limiti della dommatica “separatista” delle dimensioni collettiva e individuale.
Infatti, il diritto antidiscriminatorio legittima i sindacati ad agire anche a tutela di interessi individuali contro le discriminazioni, in virtù della loro rilevanza potenzialmente o attualmente collettiva. È stato possibile ammettere questa ipotesi senza infrangere le categorie su cui si fonda il sistema, in virtù del fatto che il concetto di interesse collettivo in ambito discriminatorio non coincide esattamente con quello lavoristico tradizionale. Quest’ultimo, come si è detto, è un interesse qualitativamente diverso da quello individuale (sintesi e non somma di interessi, come si usa dire nelle aule universitarie), l’altro allude più semplicemente ad un interesse comune/omogeneo a più individui.
La compresenza di due concetti di interesse collettivo, tuttavia, sta provocato qualche interferenza e un rischio di confusione, perché esiste una almeno parziale sovrapposizione fra interesse collettivo in senso tradizionale (che è un interesse di categoria) e interesse comune/omogeneo di diritto discriminatorio (che è un interesse relativo a classi di persone non identificate o identificabili ma accomunate dal possesso di un fattore discriminatorio). Peraltro, da quando il fattore delle convinzioni personali è stato interpretato nel senso di ricomprendere anche le convinzioni in materia sindacale, tale sovrapposizione si è estesa .
Sotto il profilo processuale, infatti, tutto ciò significa che controversie lavoristiche individuali e/o collettive (in senso tradizionale) potrebbero rientrare ratione materiae anche nell’ambito del diritto antidiscriminatorio, aprendo in tal modo al sindacato le porte delle controversie individuali o comuni a più persone che lavorano.
Per quel che conta in questa sede, vale la pena evidenziare almeno due profili processuali problematici relativi al rapporto fra rito antidiscriminatorio e rito lavoristico.
a) Le azioni ex art. 5 d.lgs. 216/2003 sono soggette al rito semplificato di cognizione (ovvero, il vecchio rito sommario di cognizione) nella versione corretta dalle regole speciali previste dall’art. 28 d.lgs. 150/2011. Ebbene, le regole di rito prevedono espressamente la competenza territoriale del tribunale del luogo di domicilio del ricorrente. Nulla si dice, invece, della competenza funzionale del giudice del lavoro.
Come è noto, la distribuzione delle cause fra le sezioni di uno stesso ufficio giudiziario competente “non implica insorgenza di una questione di competenza per materia, bensì di mera distribuzione degli affari giurisdizionali all'interno dello stesso ufficio giudiziario”, insuscettibile di dar luogo a vizi da rimediare . Ciò però non impedisce di rilevare quanto sia rischioso e problematico che controversie di rilievo lavoristico (e discriminatorio) siano decise da giudici non necessariamente esperti della materia e consapevoli delle peculiarità delle condizioni di lavoro.
Ebbene, solo la strategia processuale dei sindacati e la distribuzione degli affari decisa dai presidenti degli uffici giudiziari hanno permesso di incanalare una buona parte del contenzioso discriminatorio sostanzialmente lavoristico nell’ambito delle sezioni lavoro, ma non manca (e potrebbe in futuro aumentare) il contenzioso deciso da giudici non lavoristi . La stessa Cassazione ha in diversi casi assegnato alla Sezione I Civile e non alla Sezione Lavoro, le controversie in materia di discriminazione, e ciò anche quando nel merito le stesse erano state decise da giudici del lavoro. Fare chiarezza sul punto sarebbe utile per permettere ai sindacati di incanalare il proprio contenzioso collettivo e (ora anche) individuale presso le medesime sezioni degli uffici giurisdizionali, e così preservare la specializzazione dei giudici del lavoro anche nell’interesse delle parti.
b) Un ulteriore profilo problematico sorto in ragione della sovrapposizione parziale fra controversie lavoristiche e controversie in materia discriminatoria riguarda il rapporto fra le regole del rito antidiscriminatorio già richiamate (rito semplificato di cognizione salve le deroghe di cui all’art. 28 d.lgs. 150/2011) e quelle del rito ex art. 28 st. lav.
Come è noto, infatti, Cass. 2 gennaio 2020, n. 1, in DJ (seguita sul punto da Trib. Trani, 10 marzo 2021, n. 402, in DJ) afferma che “trova applicazione anche al procedimento ex art. 28 St. Lav. lo speciale criterio di riparto dell’onere probatorio di cui all’art. 4, co. 4 d.lgs. 216/2003, che integra una «agevolazione» che l’ordinamento riconosce in favore del soggetto che assume essere stato discriminato” .
La tesi può apparire ardita di primo acchito perché la lettera delle disposizioni rilevanti indurrebbe chiaramente a separare i regimi probatori: è chiaro, infatti, che l’agevolazione probatoria per le presunte discriminazioni è prevista e regolata all’interno della disciplina del rito previsto per le controversie in materia discriminatoria (art. 28 comma 4 d.lgs. 150/2011), senza alcun riferimento esplicito alla sua applicazione oltre questo peculiare contesto processuale . Viceversa, una lettura della disciplina conforme alla direttiva UE (che il d.lgs. 216/2003 ha recepito), sembra imporre l’applicazione dell’agevolazione probatoria in tutti i casi di discriminazione, a prescindere dal rito prescelto (art. 10 dir. 2000/78/CE).
Gli argomenti spesi in dottrina a favore o contro la soluzione della Cassazione, in verità, sembrano elidersi vicendevolmente. Pare opportuno, quindi, risolvere il dilemma risalendo a monte della questione, ovvero considerando la natura della disciplina dell’onere della prova. Se, infatti, la disciplina dell’onere della prova accede al campo del diritto processuale, si può allora affermare che l’alleggerimento previsto dall’art. 28 d.lgs. 150/2011 vale solo nell’ambito del rito per cui è stato previsto; se, invece, la disciplina dell’onere della prova accede al campo del diritto sostanziale, l’alleggerimento dell’onere può ragionevolmente applicarsi a tutte le situazioni giuridiche soggettive per cui è stato inserito nel nostro ordinamento, a prescindere dal rito con cui la controversie viene istruita e decisa.
Ebbene, utilizzando questa prospettiva, la decisione della Cassazione 1/2020 può essere condivisa, perché le regole sull’onere della prova, come dimostra anche la loro collocazione nel codice civile, appartengono al diritto sostanziale anche se trovano applicazione solo nel processo: esse, infatti, svolgono la funzione di fissare la realtà processuale per stabilire la sussistenza o meno del diritto preteso . Non v’è dubbio che la collocazione attuale della disciplina di alleggerimento dell’onere della prova possa ingannare, ma ciò può indurre solo ad auspicare un intervento chiarificatore del legislatore.
Ciò che conta rilevare in questa sede, comunque, è l’avvicinamento e la sovrapposizione di regole appartenenti a diversi riti o diverse tipologie di controversie segno della crisi di un regime di separazione netta fra interesse collettivo in senso tradizione e interesse comune/omogeneo/diffuso. Inoltre, la situazione venutasi a creare comporta, nei casi di effettiva sovrapposizione, la possibilità per i sindacati di scegliersi il rito e le regole del gioco in base alle caratteristiche del caso concreto. Questa situazione, infatti, può essere colta come l’ennesima spia di un sistema costruito su compartimenti stagni, ancora troppo poveri di canali di collegamento adeguati.
6. Un altro colpo inferto alla tradizionale separazione fra dimensioni individuale e collettiva delle controversie lavoristiche sta forse per essere inferto attraverso la nuova azione collettiva inibitoria .
L’art. 840 sexiesdecies c.p.c., infatti, prevede che “chiunque abbia interesse alla pronuncia di una inibitoria di atti e comportamenti, posti in essere in pregiudizio di una pluralità di individui o enti, può agire per ottenere l’ordine di cessazione o il divieto di reiterazione della condotta omissiva o commissiva”. Ferma la possibilità di ogni singolo individuo di adoperare questa nuova azione, la disposizione precisa, per quel che ci interessa, che “le organizzazioni o le associazioni senza scopo di lucro i cui obiettivi statutari comprendano la tutela degli interessi pregiudicati dalla condotta di cui al primo periodo sono legittimate a proporre l’azione qualora iscritte nell'elenco di cui all'articolo 840 bis, secondo comma”.
Ebbene, tale elenco è stato formato alla luce del d.m. 17 febbraio 2022, n. 27 che ammette solo l’iscrizione degli enti del terzo settore, fra i quali non si possono certamente annoverare le oo.ss. Pertanto, una delle prime decisione in materia ha dichiarato inammissibile l’azione inibitoria proposta da un sindacato.
Premesso che, secondo autorevole dottrina , l’elenco ministeriale svolge solo la funzione di dare per acquisita la necessaria rappresentatività dell’ente esponenziale, ma non impedisce al giudice di verificarla in capo ad altri enti non iscritti (compresi i sindacati), va detto che il succitato d.m. è stato annullato dal Tar Lazio, 23 giugno 2023 che, su impugnazione della CGIL, ha ritenuto illegittima la limitazione agli enti del terzo settore per l’iscrizione nell’elenco, in quanto arbitraria (cioè perché non prevista dal legislatore), ma soprattutto irragionevole, perché la difesa di interessi individuali omogenei “di una determinata categoria di soggetti (i lavoratori subordinati) risulta intrinsecamente connaturata con gli scopi associativi tipici del sindacato” . In attesa di un’eventuale decisione del Consiglio di Stato, quindi, le oo.ss. possono iscriversi nell’elenco ed essere automaticamente ammesse a domandare una inibitoria .
Ebbene, l’azione inibitoria ha un ambito di applicazione talmente ampio da rappresentare senza dubbio uno strumento ulteriore e, almeno in certi casi, sovrapponibile rispetto a quelli già a disposizione del sindacato perché, come abbiamo già osservato, gli interessi omogenei/diffusi protetti dalla nuova disciplina possono sovrapporsi con gli interessi collettivi tradizionalmente tutelati dal sindacato anche attraverso il ricorso alla giurisdizione pubblica. Inoltre, il suo potenziale contenuto (“l’ordine di cessazione o il divieto di reiterazione della condotta omissiva o commissiva”) richiama grosso modo quello delle decisioni assunte ex art. 28 st. lav.; ma in più può contenere una misura coercitiva indiretta ex art. 614 bis c.p.c. che, come detto, non è applicabile dal giudice del lavoro nel rito ex art. 409 c.p.c. e, secondo alcuni, nemmeno nel rito ex art. 28 st. lav.
Questa sovrapposizione pone un’ulteriore questione tecnica conseguente. È necessario, infatti, domandarsi che rapporto vi sia fra art. 28 st. lav. e azione inibitoria, perché non è detto che i due strumenti – come è invece nel caso del rapporto fra azione antidiscriminatoria e art. 28 st. lav. – siano posti su un piano di parità, lasciando all’attore la libertà di optare per l’uno o per l’altro. Secondo T. Milano 13 ottobre 2022, cit. infatti, laddove l’azione sia esperibile ex art. 28 st. lav. non si può chiedere l’inibitoria, perché questa fa “salve le disposizioni previste in materia dalle leggi speciali”.
L’inciso citato, in verità, può essere interpretato anche diversamente – ovvero nel senso di ammettere anche altre strategie processuali e non di preferirle; in ogni caso va evidenziato che la posizione assunta dal giudice pone un problema pratico non banale perché non è semplice capire se sussistano o meno i (complessi) requisiti di azione ex art. 28 st. lav. nell’ambito del rito camerale per l’inibitoria.
Tutti questi problemi tecnici sono tanto più gravi se si considera che l’inibitoria, come l’azione di classe ex artt. 840 bis e ss c.p.c., si aziona per espressa previsione di legge davanti al c.d. tribunale delle imprese. Dunque, le sezioni lavoro sono espressamente escluse e i presidenti degli uffici competenti non possono distribuire le controversie sull’inibitoria ratione materiae. In questo caso, dunque, è certo che il contenzioso sfuggirà ai giudici del lavoro, a danno della loro specializzazione ma anche della possibilità di coordinare orientamenti giurisprudenziali.
7. Come è noto, di regola, gli interventi delle oo.ss. nei giudizi di legittimità costituzionale sono respinti perché vengono ammessi solo “soggetti terzi, che siano portatori di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma o dalle norme oggetto di censura” . Dunque, ai sindacati è negato di essere parti del processo costituzionale, nonostante questo si concluda, come noto, con una decisione che può avere efficacia erga omnes, quindi di grande interesse per un soggetto collettivo rappresentativo dei lavoratori di una categoria. Proprio per questo motivo, le oo.ss. hanno continuato a depositare gli atti di intervento in giudizio, nella speranza che le loro considerazioni venissero prese in considerazione almeno informalmente, ma sempre con la certezza di ricevere una ordinanza di rigetto.
Questa situazione è l’ennesima spia dei limiti di un sistema fondato sulla separazione netta fra controversie lavoristiche individuali e controversie collettive.
Per rispondere alla pressione che le forze sociali imprimono anche sulla Consulta, la Corte ha riformato le norme integrative del processo costituzionale nel 2020 prevedendo e regolando la figura dell’amicus curiae. In particolare, si è stabilito che “le formazioni sociali senza scopo di lucro e i soggetti istituzionali, portatori di interessi collettivi o diffusi attinenti alla questione di costituzionalità, possono depositare con modalità telematica un’opinione scritta”.
L’ampia formulazione ha permesso anche alle oo.ss. di svolgere agevolmente questa particolare funzione, perché alla Corte è bastato rilevare che l’interesse collettivo tutelato dal sindacato è sufficientemente “attinente” alla controversia individuale dedotta in giudizio senza entrare nel merito della sussistenza di un interesse proprio (come è necessario fare, per l’intervento volontario). Ebbene, i pareri dei sindacati sono già stati ammessi in diverse occasioni , eppure, al momento, non risulta che lo strumento abbia riscosso grande successo. Nelle cause più importanti in materia di lavoro, infatti, ha svolto la funzione di amicus curiae tuttalpiù un solo sindacato e, in certi casi, si assiste ancora al fallimentare tentativo di intervenire direttamente nel giudizio costituzionale.
Le ragioni, tuttavia, non sembra essere riconducibili ad un disinteresse delle parti sociali, quanto agli stringenti limiti formali posti dalle norme integrative del processo costituzionale (ad esempio, l’opinione non può superare la lunghezza di 25.000 caratteri, spazi inclusi).
8. Le note positive di questa carrellata riguardano l’estensione degli strumenti di tutela/intervento che vedono coinvolti i sindacati soprattutto dei lavoratori ma anche dei datori di lavoro in diversi ruoli/funzioni, nonché la crisi della separazione tutta formale fra dimensione collettiva ed individuale delle controversie.
Le note negative riguardano il rischio che controversie sostanzialmente lavoristiche sfuggano alle sezioni lavoro nonché le sovrapposizioni/interferenze tra strumenti di tutela con il conseguente rischio di (ab)uso strategico da parte delle oo.ss.
In occasione della riforma del processo civile del 1990, L. DE ANGELIS scrisse: “il rito della l. 533 resta e deve restare. Pur nella sua storia non priva di contraddizioni e nelle sue carenze ha dato per il funzionamento della giustizia del lavoro parecchio di quello che un rito può dare. Il resto dipende da fattori di altro tipo, dalle strutture giudiziarie alla lungimiranza interpretativa, dalla cultura del valore del processo all'impegno di chi lo applica. Da quell'impegno così difficile da invocare nei tempi che corrono, che rende servizio un lavoro” .
Questa frase vale ancora oggi, ma si dovrebbe aggiungere che ad essere protetto non deve essere solo il rito del lavoro, ma le sezioni lavoro e la competenza funzionale dei giudici del lavoro per tutte le controversie sostanzialmente lavoristiche, individuali o collettive, discriminatorie o meno, relative alla lesione attuale di diritti o anche solo inerenti ad interessi diffusi/omogenei a rischio di lesione.