Testo Integrale con note e bibliografia

Sommario: 1. Premessa. 2. Dall’interpretazione giuridica alla costruzione del caso. 3. Le narrazioni. 4. Il contesto. 5. La narrazione nel processo del lavoro.

 1. Premessa.

Per alcuni versi, tra tutti i riti civili, il processo del lavoro ha caratteristiche proprie che lo avvicinano molto al processo penale.
Ciò è in parte dovuto alla relativa vaghezza delle norme generali, che nell’ambito del lavoro regolano la materia, norme che non sempre collimano con una realtà abbastanza sfuggente e continuamente mutevole di attività materiali e di rapporti sociali .
Si tratta spesso di casi, alle volte, particolarmente controversi dal punto di vista gius-lavoristico, sulla cui rappresentazione nell’ambito della causa e sulla cui soluzione sono determinanti le indicazioni strategiche adottate dalle parti e la rappresentazione dei rispettivi punti di vista della definizione del fatto. Si pensi in via di esempio ai casi, particolarmente frequenti, di situazioni fattuali riconducibili alla definizione di mobbing, situazioni che nel medesimo tempo potrebbero trovare una analoga collocazione sul terreno, magari più solido, della dequalificazione professionale, così come considerata dall’art. 2103 del c.c..
Come accade nel processo penale, anche in quello del lavoro, si fa così determinante la costruzione giudiziaria del fatto.
Mi rendo conto che l’argomento, che qui sto affrontando, rappresenta un tema nuovo per la maggior parte dei giuristi, ancorata com’è a teorizzazioni del diritto che tendono a prescindere dal fenomeno reale per limitarsi alla semplice verifica di una corretta applicazione delle norme generali alla fattispecie particolare, secondo i parametri ermeneutici tipici dell’interpretazione giurisprudenziale.
Come ricordava qualche anno fa Vincenzo Ferrari, quando si affrontano in ambito giuridico questioni teoriche che attengono alla complessità della realtà sociale e, aggiungiamo noi, alle problematiche psicologiche dei singoli individui anche nella interazione tra loro, tutti gli ordinamenti giuridici, anche i più evoluti e sofisticati, si rivelano semplificativi .
Il giurista, fatta salva qualche rara eccezione, manca della formazione per cogliere a pieno queste dinamiche. Soprattutto nei sistemi continentali questo tema non ha trovato ancora un interesse paragonabile a quanto è avvenuto negli ultimi decenni oltre oceano. E’ infatti nei sistemi anglo-americani che si sono sin qui registrate correnti post-moderne del diritto che nello studio delle prassi giudiziarie hanno integrato gli orientamenti dottrinali con approcci sociologici, psicologici ed antropologici.
Queste correnti, in qualche misura riconducibili al realismo giuridico americano degli anni Trenta dello scorso secolo e alla teoria della narrazione, nata nell’ambito della psicologia sociale, hanno, sempre più, messo a fuoco i processi di conoscenza e costruzione della realtà giudiziaria che caratterizzano i soggetti giudiziari, gli attori del processo nella interazione tra loro.

2. Dall’interpretazione giuridica alla costruzione del caso.
Al di là dell’interpretazione giuridica del caso, l’attenzione si sta sempre più spostando sul momento fattuale della costruzione del caso. E le scienze cognitive possono dare un contributo importante per definire nuove geometrie nell’interpretazione del fatto .
Troppo a lungo si sono date per scontate, all’interno del processo, le costruzioni narrative proprie della parte vittoriosa della vicenda giudiziaria, semplicemente sulla base dell’assunto della coerenza. La narrazione di regola viene ritenuta attendibile semplicemente perché si manifesta come coerente o verosimile. Le scienze sociali e, da ultimo, le scienze cognitive stanno invece dimostrando che il fatto oggetto di una vicenda giudiziaria, così come i fatti oggetto di narrazione, altro non sono che una costruzione sociale della realtà.
Jerome Bruner, l’importante psicologo americano, mancato da poco, dopo aver dato un contributo fondamentale all’elaborazione della psicologia cognitiva, ha orientato i suoi studi assieme ad un noto giurista, Anthony Amsterdam, proprio sul mondo giuridico e giudiziario, visto come produttore di “storie” .
Scriveva Bruner che la mente ed i suoi processi trasformano il mondo fisico mediante operazioni sui propri input. Fuori di noi non vi è un mondo immutabile e definitivo, ma esiste una realtà suscettibile di forme diverse e tra queste quelle create dalla narrazione. Gli esseri umani le producono e le sperimentano come mondi reali.
Questo approccio non nega l’esistenza di un mondo oggettivo, ma mette in discussione piuttosto la certezza di poter accedere alla conoscenza di quel mondo.
Bruner ci ha spiegato che ciascuno di noi costruisce una propria realtà attraverso la propria visione delle cose fatta di immaginazione, un’immaginazione culturalmente formata. La nostra conoscenza del mondo è filtrata attraverso regole che è la cultura propria di ciascuno a fornire.
La realtà è un costrutto forgiato dalla nostra mente che la interpreta in conformità con credenze che vengono tramandate storicamente e che sono alla base di qualsiasi cultura umana. Sarà poi il linguaggio a dare forma a quello specifico mondo. Nel processo, scrive Michele Taruffo, il “fatto” esiste sotto forma di proposizioni che ne parlano. In pari misura, nel processo il “fatto” è in realtà ciò che si dice di un fatto, è l’enunciazione del fatto medesimo . “La verità del fatto” è, dunque, una formula stringata, ellittica per dirla con Taruffo, che indica la verità di un enunciato che ha per oggetto un fatto.
Eventi, oggetti, persone vengono collocati in un mondo narrativo ed è proprio la narrazione a realizzare quel processo selettivo che finisce per dare senso ad alcuni elementi della realtà esterna e, spesso, solo ad alcuni.

3. Le narrazioni.
Nel contesto processuale storie e narrazioni sono necessarie, così come lo sono tutti i contesti nuovi, poiché sono lo strumento principale attraverso il quale pezzi di informazione, elementi sparsi di informazione, frammenti di realtà esterna, possono essere combinati in un complesso di fatti coerente e dotato di senso.
Le storie danno forma alla nostra esperienza, rappresentano costruzioni interpretative di eventi che danno ordine ad un insieme informe di particolari. Propongono una chiave di lettura dell’esperienza, una possibilità non sempre sicura e non necessariamente vicina alla realtà.
Nel nostro Paese i primi autori, e sicuramente i più autorevoli, che si sono accostati a questo approccio post-moderno del diritto e che hanno concentrato la loro attenzione sulle narrazioni processuali sono stati Michele Taruffo e Vincenzo Ferrari, il primo dalla prospettiva processual civilistica, il secondo da quella sociologica del diritto.
Le storie, afferma Taruffo, riprendendo la lezione Bruner, danno forma alla nostra esperienza e ci forniscono modelli del mondo: “esse possono essere intese come «costruzioni interpretative di eventi», che danno forma possibile, un modello, ad un insieme informe di dati”. Esse forniscono uno strumento, un metodo per scoprire ciò che è davvero accaduto. Propongono una possibilità e non importa quanto possano essere lontane dalla realtà. In questo senso le storie possono essere pericolose, perché aprono la strada all’imprecisione della variabilità ed alle manipolazioni nella ricostruzione dei fatti. E tutto ciò avviene a seconda del punto di vista, degli interessi e degli scopi dei soggetti che queste storie raccontano in un certo momento e in un determinato contesto. A tal proposito, ammonisce Flora Di Donato, non è possibile prescindere dalla considerazione del contesto di interazione-costruzione in cui si colloca l’attività delle parti stesse.

4. Il contesto.
L’analisi del contesto ha occupato una parte non trascurabile anche delle scienze sociali in un’ottica pluridisciplinare: la psicologia, la sociologia e la linguistica. Senza una attenta valutazione del contesto, una certa azione o un certo evento non possono essere compresi nel modo appropriato, se non prendendo in considerazione anche qualche altro aspetto dell’ambiente, della situazione in cui l’evento è inserito.
Lo studio del contesto ha occupato negli ultimi anni una forte importanza nelle scienze cognitive . Un fatto, un gesto, un’azione, non possono essere compresi in modo completo se non vengono contestualizzati. Gli avvenimenti con i quali gli individui si confrontano hanno un carattere allo stesso tempo oggettivo, soggettivo e intersoggettivo. Ed ancora, è molto raro imbattersi in avvenimenti del tutto nuovi, il più delle volte questi si appalesano, presentando dei punti in comune con altri avvenimenti conosciuti, si organizzano secondo determinate regole o prassi che consentono all’individuo di dare un senso a ciò che cade sotto il proprio dominio.
Il contesto consente di capire il senso dell’atto e le intenzioni di chi agisce e di dare alle azioni una conseguente interpretazione.
Il contesto, di regola non rappresenta un ambiente o un momento statico ma è destinato a mutare ed a costruirsi nel corso dell’interazione.
Gli accadimenti, poi, quando cadono sotto il dominio delle persone, non sono mai oggetto di un’interpretazione univoca, ma rimandano sempre ad una molteplicità di quadri, frutto dei diversi punti di vista, sulla base delle posizioni occupate dai soggetti presenti.
In una prospettiva giuridico-sociologica, secondo Vincenzo Ferrari, il contesto sarebbe costituito da un insieme complesso e concorrerebbero a definirlo l’organizzazione economica di una società, il suo diritto sostanziale e la “cultura giuridica” del momento, le sue forme di organizzazione del potere, il suo grado di integrazione sociale, la relazione fra le parti, nonché fra esse ed il pubblico, il tipo di interesse o di questione che divide i contendenti .

5. La narrazione nel processo del lavoro.
Nel processo del lavoro la costruzione dei fatti riveste una particolare rilevanza, in ragione anche dei rigidi vincoli che la disciplina del rito del lavoro pone alla introduzione dei fatti nello spazio del giudizio .
L’impegno dell’avvocato è, dunque, particolarmente delicato, perché la narrazione del “fatto”, fin da subito, deve essere oggetto di un attento lavoro di selezione dei vari accadimenti riferitegli dal cliente. La selezione, infatti, ha lo scopo di evidenziare quel materiale che può acquistare rilevanza ai fini dell’applicazione delle regole legali. Selezionando gli accadimenti il difensore non fa altro che scegliere una delle tante narrazioni possibili. La narrazione che egli riterrà più favorevole alla posizione difensiva del suo assistito. Con la stessa l’avvocato costruisce il disegno di un mosaico, fatto di tantissime tessere colorate, combinazione ordinata e coerente di singoli enunciati .
Le contrapposte narrazioni dei difensori, contenute nei rispettivi atti, costruiscono i fatti enunciati e posti all’attenzione del giudicante. E la costruzione narrativa sarà tanto più efficace quanto più l’avvocato sarà in grado di collocare i fatti in una “cornice interpretativa condivisa”, costruita su di un paradigma sociale collaudato .
La natura selettiva delle contrapposte ricostruzioni dei fatti, offerte al giudice dalle parti, darà modo allo stesso, anche all’esito dell’istruttoria, di trarre spunto determinante per l’accertamento della verità .
Vi possono essere fonti probatorie ambigue, fondate su meri indizi, magari prodotte da letture distorte dei comportamenti.
In questi casi la narrazione, connotata da una forte carica emotiva, può essere aprioristicamente accettata come vera o, semplicemente, ritenuta verosimile dal giudicante. In lui, infatti, potrebbe essersi già declinato il convincimento che lo può portare ad adattare le risultanze processuali a questa sua determinazione aprioristica .
E’ molto importante per l’avvocato sapere che nella vicenda giudiziaria, come del resto in moltissime situazioni del quotidiano, funziona un meccanismo psicologico che induce l’individuo a costruire modelli esplicativi della realtà circostante che tendono a verificare e non a falsificare l’ipotesi iniziale.
Gli studi di Pennington e Hastie hanno dimostrato come nella mente del giudice sovente si determini un processo di cristallizzazione che gli impedisce di apprezzare, nel corso della successiva istruzione probatoria, gli esiti processuali che contrastano con l’idea maturata sulla sorte del processo .
Questo pregiudizio è stato definito dai ricercatori anglosassoni confirmation bias ed è un meccanismo psicologico potente al quale difficilmente ci si sottrae. Già Altavilla, e prima di lui Bacone, aveva osservato come spesso nella coscienza del giudice venga a radicarsi un “giudizio anticipato” che “non soltanto le risultanze processuali non verranno a modificarlo, ma egli, inconsapevolmente, si sforza di adattare tali risultati a questo suo convincimento” .
In linea con queste osservazioni ed acquisizioni delle scienze cognitive, l’esito della causa spesso è condizionato alla cifra emotiva della narrazione ed alle modalità di costruzione affettiva dei fatti .
L’abilità dell’avvocato di far cadere la scelta del giudicante sulla propria tesi difensiva si manifesta, non solo attraverso la capacità di esposizione ed interpretazione delle norme generali ed astratte, da applicare al caso, ma molto spesso attraverso la capacità narrativa di costruire i fatti oggetto del giudizio. Non è poi secondaria la cifra emotiva che caratterizza la vicenda, concreta ed esistenziale narrata, nella quale viene a trovarsi la persona che lavora. Anzi, spesso sarà questa a fare la differenza.
Gli scienziati cognitivi ci hanno insegnato che è proprio la costruzione della storia ad essere il mezzo cognitivo più efficiente per realizzare la rappresentazione mentale necessaria e funzionale alla decisione finale.

 

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