Testo integrale con note e bibliografia
La consapevolezza della profondità della crisi del paradigma giuridico moderno, ha indotto nei giuristi reazioni diverse.
In molti casi, quella consapevolezza ha indotto un convinto scetticismo sulla possibilità di conservare quel paradigma. Scetticismo che in alcuni giuristi, anche molto autorevoli, si è tradotto in un atteggiamento sconsolato, in un «amaro disincanto» , che ha assunto anche i toni di un vero e proprio nichilismo .
In altri casi, invece, quella consapevolezza non ha impedito una reazione di tipo costruttivo, e quindi la ragionevole fiducia nella possibilità di fare fronte alla crisi adottando i dispositivi che possano consentire di salvaguardare i valori fondamentali di quel paradigma.
In particolare, una parte dei giuristi ha conservato la fiducia nella possibilità di continuare a garantire, nonostante la crisi, il valore della certezza del diritto .
Com’è noto, tale valore garantisce ai soggetti la prevedibilità delle conseguenze giuridiche delle loro decisioni e, quindi, non può prescindere da un grado più o meno elevato di prevedibilità delle soluzioni delle controversie .
Si comprende, quindi, la ragione per la quale nel paradigma giuridico moderno il valore della certezza sia stato tradizionalmente legato alla concezione della decisione giudiziaria come mera applicazione di «norme astratte, generali e impersonali» e, quindi, alla convinzione che la astrattezza del criterio di giudizio in esse contenuto potesse consentire la «indefinita ripetibilità» del procedimento logico in cui consiste la loro applicazione .
Senonché, proprio quella concezione della decisione giudiziaria ha finito per costituire uno dei principali fattori di crisi del paradigma giuridico moderno. E ciò per la maturata consapevolezza che i criteri di valore che devono guidare il giurista nella interpretazione ed applicazione del diritto, non possono più essere fatti discendere soltanto dalle formule consegnate una volta per tutte a disposizioni di legge generali e astratte.
Viene, infatti, anzitutto in rilievo il fatto che nell’attuale sistema delle fonti i valori fondamentali dell’ordinamento sono espressi da «norme senza fattispecie» , quali sono le norme costituzionali o molte di quelle di fonte europea.
In secondo luogo, viene in evidenza la sempre crescente «complessità sociale» , derivante non soltanto dalla sempre maggiore complicazione dei rapporti sociali, ma anche dalla rapidità della dinamica di tali rapporti, indotta anche dalla globalizzazione .
Pertanto, da un lato, la crescente complessità sociale fa sì che il legislatore incontri una crescente difficoltà ad emanare norme generali ed astratte che riescano a declinare in maniera condivisa i valori costituzionali, anche perché la complessità sociale determina anche un’elevata conflittualità politica. D’altro lato, quand’anche la norma di legge generale e astratta riuscisse ad esprimere, al momento della sua emanazione, un valore condiviso, tale coincidenza fra norma e valore sarebbe momentanea e destinata inevitabilmente a venir meno, perché mentre il testo di legge rimane immutato la realtà sociale da disciplinare evolve costantemente e sempre più rapidamente .
Tant’è che il legislatore, per evitare la rapida obsolescenza delle norme di legge, si trova costretto a formulare la fattispecie in termini sufficientemente generici da agevolare l’interpretazione evolutiva , ovvero a fare ricorso a norme che contengono clausole generali , finendo in entrambi i casi per affidare al giudice, nel confronto con la realtà sempre mutevole, anche la definizione della fattispecie .
Senonché, se pure la legge appare «sempre meno in grado di porsi come vettore di certezza ed anzi appare essa stessa una delle cause principali di instabilità e di disordine» , una parte dei giuristi non ha perso la fiducia nella possibilità di conservare il valore della certezza, per il tramite dell’opera della giurisprudenza .
Al riguardo, Nicolò Lipari ha utilizzato la metafora «del sentiero che nasce dal segreto della boscaglia»: «ripetendo lo stesso percorso, ripercorrendo lo stesso tracciato (sempre meno incerto e sempre più, come si suol dire, battuto), vi è un momento in cui il sentiero risulta oggettivamente riconoscibile. Nessuno potrebbe dire, a posteriori, quale sia il preciso momento in cui ciò è avvenuto, ma certo esiste un momento in cui non vi sono più dubbi sull’esistenza di quel nuovo percorso per raggiungere quella determinata meta» .
In questa prospettiva, le riflessioni che Vincenzo Di Cerbo e Fabrizio Amendola hanno affidato al saggio appena pubblicato su questa Rivista devono essere pienamente condivise.
Ed infatti, Di Cerbo e Amendola prendono le mosse dalla considerazione della imprescindibilità dello «spazio» che deve essere ormai lasciato all’interpretazione , e di come quindi anche le decisioni della Suprema Corte, al pari delle norme di legge che la stessa è chiamata ad interpretare , «si proiettano verso il futuro» , concorrendo a delimitare, con la loro particolare autorevolezza, il ‘sentiero nella boscaglia’ .
Proprio per tale ragione, il valore della certezza che in tal modo le decisioni della Suprema Corte possono concorrere a garantire richiede di prevenire, fin dove possibile, i contrasti nella giurisprudenza di legittimità , perché tali contrasti possono rendere più difficile per i soggetti dell’ordinamento riconoscere quel ‘sentiero’ e, quindi, orientare la propria condotta .
In tal senso si giustifica la recente riorganizzazione della sezione lavoro della Corte di Cassazione , con l’obiettivo di «prevenire il conflitto prima che si manifesti» e di adottare un’interpretazione che possa «dar luogo ad un indirizzo consolidato» .
Peraltro, Di Cerbo e Amendola correttamente avvertono come l’uniformità interna alla giurisprudenza della Suprema Corte che la recente riorganizzazione della sezione lavoro intende perseguire, possa assicurare, oltre al valore della certezza del diritto, anche il valore, altrettanto fondamentale, dell’eguaglianza dinanzi alla legge .
Va, però, anche apprezzato il costante richiamo di Di Cerbo e Amendola all’esigenza che i meccanismi introdotti con la recente riorganizzazione della sezione lavoro, pur se ispirati ai fondamentali valori della certezza e dell’eguaglianza dinanzi alla legge, non limitino la «totale autonomia decisionale» di ciascun collegio giudicante e, quindi, la possibilità che in ogni singola causa, se del caso sulla scorta degli argomenti dei giudici di merito o dei difensori o degli spunti che nel frattempo fossero emersi nel dibattito della dottrina, il singolo collegio possa ritenere «che l’interpretazione preferibile sia un’altra» .
Occorre, infatti, tenere a mente che il senso degli enunciati generali e astratti delle norme di legge non può essere rettamente compreso se non sulla base degli interrogativi, ogni volta diversi, che la fattispecie concreta pone all’interprete . Con la conseguenza che il giudice non può prescindere, anche ai fini della interpretazione delle norme generali e astratte, dalla considerazione delle specifiche esigenze del «caso» che è chiamato a decidere.
Del resto, la necessaria considerazione del principio di eguaglianza dinanzi alla legge non deve far perdere di vista che la tecnica normativa fondata su norme astratte e generali determina una interminabile tensione fra i bisogni riconosciuti come meritevoli di tutela dalla norma e i bisogni individuali di ciascuna persona . Ciò vale anche per le norme generali ed astratte del diritto del lavoro, perché ogni persona che lavora «è portatrice di differenze irriducibili e di disuguaglianze da rimuovere» .
Certo, non si tratta di offrire al lavoratore la possibilità di realizzare suoi interessi particolari «del tutto divergenti rispetto a quelli di altri lavoratori» , ma soltanto di consentire che la regolamentazione eteronoma, pur se generale ed astratta , possa prendere «in considerazione il singolo lavoratore, garantendo e facendo proprie le sue
esigenze di individualizzazione» , ai fini del bilanciamento con i contrapposti interessi del datore di lavoro.
Si tratta, quindi, di «un tema molto serio», perché occorre riconoscere valore alle «posizioni personali, individuali», «senza perdere il valore dell’eguaglianza» .