Testo integrale con note e bibliografia
1.La conciliazione sindacale nel panorama delle forme alternative di ri-soluzione delle controversie
La legge, con disciplina di semplice richiamo, sembra ricordare l’esistenza pure della conciliazione intersindacale (cfr. art. 410 c.p.c.) nell’art 412-ter c.p.c. [Altre modalità di conciliazione e arbitrato previste dalla contrattazione collettiva – “La conciliazione e l’arbitrato, nelle ma-terie di cui all’articolo 409, possono essere svolti altresì presso le sedi e con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associa-zioni sindacali maggiormente rappresentative”], lasciando alla disciplina collettiva la relativa regolamentazione, ma occupandosi della qualità del soggetto che ha stipulato il contratto e conservando un certo formali-smo in occasione dell’exequatur del verbale di conciliazione sindacale.
Sotto il primo profilo (qualità dei soggetti stipulanti), la disposizione ammette la conciliazione sindacale solo se regolata dai contratti colletti-vi stipulati dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative, mentre tale riferimento mancava del tutto nell’originaria previsione dell’art. 410 c.p.c. Di conseguenza ne risulta assicurata, rispetto al pas-sato, la serietà della sede, oggi garantita dal livello di rappresentatività richiesto ( ).
Sotto il secondo profilo (formalità successive alla conciliazione), la di-sposizione introduce un’ulteriore remora alla via intersindacale della conciliazione. Ai fini dell’esecutività, infatti, non è solo necessaria l’autenticazione innanzi all’Ispettorato Territoriale del Lavoro, e il depo-sito in Tribunale (e sin qui nessuna novità), ma contrariamente al verba-le innanzi alla commissione presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro, il giudice può sindacare – in questo caso – la “regolarità formale” del ver-bale. La previsione si spiega attraverso una duplice sfiducia del legisla-tore verso il Capo dell’Ispettorato Territoriale del Lavoro che verifica l’autenticità del verbale e verso il sindacato che si ipotizza dia luogo a verbali irregolari (art. 411, comma 3, c.p.c.).
2.Le c.d. “sedi protette” di matrice sindacale e l’effettività dell’assistenza del lavoratore
Le sedi indicate nel comma 4 dell’art. 2113 c.c. sono ritenute idonee a sottrarre il lavoratore dalla condizione di soggezione e debolezza nei confronti del datore di lavoro ( ), nel presupposto che il conciliatore presti assistenza effettiva al soggetto che dispone dei propri diritti ( ), non essendo sufficiente, ai fini della validità della conciliazione, la mera presenza del terzo. Si discute tuttavia su quali siano le modalità concre-te con le quali deve svolgersi l’intervento del terzo, onde poter essere considerato a effettiva garanzia della libertà di consenso del lavoratore. Pur essendo la questione trasversale a tutti i tipi di conciliazione, le con-troversie si sono concentrate soprattutto nell’ambito della conciliazione svolta in sede sindacale e sotto svariati profili ed aspetti della relativa procedura. Alcuni giudici ritengono assolto il compito della “effettiva assistenza” in presenza di un rapporto fiduciario tra lavoratore e conci-liatore che risulti in un documento sottoscritto dalle parti e dai rispettivi rappresentanti. Impugnabile è il documento di conciliazione sottoscritto soltanto o dal rappresentante legale o dal lavoratore ( ), così come lo è la conciliazione sindacale conclusa dal lavoratore con l’assistenza di un esponente di sindacato diverso da quello cui lo stesso lavoratore ha ri-tenuto di affidarsi ( ). Per contro, il lavoratore non può dolersi dell’assenza del sindacalista che tutela la controparte datoriale che, nella specie, non aveva sottoscritto contestualmente l’atto ( ). Invalido è stato ritenuto inoltre l’accordo raggiunto ove non siano stati rispettati i criteri di composizione dell’organo conciliativo previsti dal contratto collettivo applicato ( ).
In svariate circostanze, la giurisprudenza (in parte già evidenziata) si è spinta sino a verificare un ruolo attivo e non solo formale e burocratico del conciliatore nella composizione della controversia, ritenendo neces-sario che il lavoratore sia consapevole di quanto ha stipulato, che sia consigliato sulle convenienze e che sia avvertito degli effetti dispositivi derivanti dall’atto e dell’irreversibilità degli stessi ( ). Molto più risalente e oltremodo superato è l’opposto orientamento secondo il quale è suffi-ciente la presenza del conciliatore per affrancare il lavoratore dallo stato di soggezione nei confronti del datore di lavoro ( ).
Al di là dell’ipotesi della mancata assistenza, di cui si è detto, le rinunce e le transazioni stipulate nelle sedi conciliative sono valide ed efficaci tra le parti, salvo che non siano viziate sotto diverso, specifico profilo. De-pone in tal senso il dato normativo che limita l’inoppugnabilità delle ri-nunce e delle transazioni raggiunte in sede conciliativa al solo mezzo dell’art. 2113 c.c.
3.Gli eventuali ulteriori vizi della conciliazione sindacale
Superando un datato orientamento che affermava la assoluta inimpu-gnabilità del verbale di conciliazione, la Cassazione da tempo ammette che rimane salva per il lavoratore la possibilità di far valere in via giudi-ziale ulteriori vizi che colpiscano l’atto ( ). In particolare, non rientrano nel campo di applicazione dell’art. 2113 c.c., e sono da considerarsi nul-le, le eventuali rinunce o transazioni, pur se stipulate in sede di concilia-zione delle controversie, che impediscano l’acquisizione del diritto deri-vante da norma inderogabile, e quindi incidano sul momento genetico dello stesso ( ), generando oltremodo una fattispecie affetta da radicale invalidità, relativa alla indisponibilità di un diritto futuro. Il principio è acclarato in giurisprudenza, inclusa quella più recente (v. infra).
3.1.(segue) I vizi del consenso
Tra le innumerevoli vicissitudini che possono dare luogo all’annullabilità del contratto assumono rilevanza quelle che sono state definite vizi del consenso. Tradizionalmente, vengono considerati tali l’errore, la violen-za ed il dolo, tutte ipotesi che possono incidere sul procedimento di formazione della volontà di un soggetto. Tali vizi hanno delle caratteri-stiche del tutto diverse tra di loro, sebbene abbiano alla base una falsa rappresentazione della realtà. Infatti, mentre nel caso dell’errore il vizio è interno al soggetto (il quale per errore si rappresenta una realtà diver-sa da quella effettiva), nel caso del dolo il vizio è esterno al contraente, il quale si rappresenta una realtà fantomatica a causa dell’operato di un altro soggetto; nella violenza, invece, il soggetto si rappresenta la realtà effettiva, ne percepisce la valenza negativa nella sua sfera personale o patrimoniale ma la approva sotto la tensione della minaccia ( ).
La circostanza che errore, violenza e dolo abbiano degli elementi costi-tutivi diversi, assume rilevanza sotto il profilo processuale, in quanto deve essere escluso che, a conforto della domanda di annullamento, possano essere allegati indifferentemente tutti e tre i vizi.
3.2.L’errore e la sua (problematica) configurazione nel contesto concilia-tivo sindacale
Secondo i principi generali imperanti in materia di vizi del consenso (artt. 1427 ss. c.c.), l’errore consiste nella mancata conoscenza, o errata o parziale percezione, di avvenimenti e situazioni di fatto, ovvero nella mancata conoscenza o errata interpretazione di norme di diritto. In questi termini, l’errore vizia il processo di formazione della volontà, in-ducendo un soggetto a concludere un negozio giuridico che, se non fos-se caduto in errore, non avrebbe concluso.
In estrema sintesi e schematizzazione, dalla disciplina positiva dell’istituto si ricava che:
• L’errore deve cadere su circostanze di fatto anteriori o quanto-meno esistenti al momento della conclusione del contrat-to/negozio.
• La legge attribuisce al contraente caduto in errore il rimedio dell’annullabilità del contratto, ma, allo stesso tempo, circoscrive il rimedio in alcuni limiti, attesa la previsione dell’art. 1428 c.c., secondo cui “L’errore è causa di annullamento del contratto quando è essenziale ed è riconoscibile dall’altro contraente”.
• Il requisito dell’essenzialità concerne la gravità di esso per il di-chiarante.
• Il requisito della riconoscibilità dell’altro contraente concerne l’affidamento dell’altra parte contrattuale.
• I casi in cui l’errore può considerarsi essenziale sono elencati dall’art. 1429 c.c. e individuati laddove l’errore cada, tra l’altro e per ciò che qui può rilevare:
o Sulla natura del contratto/negozio
o Sull’identità dell’oggetto della prestazione
o Su una qualità dell’oggetto che, secondo il comune ap-prezzamento o in relazione alle circostanze, deve ritenersi determinante del consenso.
3.3.L’errore di diritto
L’errore di diritto consiste nella mancata conoscenza o nella errata in-terpretazione di norme giuridiche, in contrapposto all’errore di fatto, che cade su realtà materiali. A riguardo, ferma restando la regola assor-bente per cui è irrilevante l’errore che cade sulla disciplina giuridica del contratto/negozio concluso, l’art. 1429, n. 4, c.c., dispone che l’errore di diritto è essenziale “quando è stata la ragione unica e principale del con-tratto”. Secondo la comune ricostruzione del significato della previsione di legge, l’errore di diritto deve ritenersi essenziale quando cade su qua-lità dell’oggetto o della persona dell’altro contraente che secondo il co-mune apprezzamento sono determinanti del consenso, ovvero su pre-supposti oggettivi del contratto/negozio.
3.4.Il requisito della riconoscibilità dell’errore
Quanto al requisito della riconoscibilità dall’altro contraente, valgano le seguenti, brevi considerazioni. Deve ritenersi riconoscibile l’errore (di fatto o di diritto) che una persona di normale diligenza, in relazione al contenuto, alle circostanze del contratto, ovvero alla qualità dei con-traenti, avrebbe potuto rilevare (art. 1431 c.c.).
4.Il tentativo di conciliazione nel contesto processuale (art. 185 c.p.c.)¬.
La conciliazione giudiziale è un istituto previsto dall’art. 185 c.p.c. (ma v. art. 420 c.p.c., segnatamente per il rito del lavoro) che consente alle parti, grazie all’intervento del giudice, di comporre la lite addivenendo ad una convenzione.
La norma suddetta stabilisce che il giudice è tenuto a disporre la com-parizione personale delle parti e alla fissazione di un’udienza ad hoc qua-lora le parti congiuntamente lo richiedano al fine di interrogarle e di provocarne la conciliazione.
5.La natura giuridica della conciliazione giudiziale
Essendo la proposta conciliativa un istituto di diritto processuale, se-condo la maggior parte degli interpreti la conciliazione è un atto nego-ziale trilaterale in quanto l’accordo tra le parti viene raggiunto grazie all’intervento di un terzo, il giudice, e viene formalizzato in un atto avente – quantomeno – la “forza” giuridica di atto pubblico.
Secondo la prevalente giurisprudenza di legittimità, dunque, la concilia-zione giudiziale prevista dagli artt. 185 - 185 bis c.p.c., pur richiedendo sempre una convenzione, non è assimilabile però ad un negozio di dirit-to privato puro e semplice, caratterizzandosi strutturalmente per il ne-cessario intervento del giudice e funzionalmente, da un lato, per l’effetto processuale di chiusura del giudizio nel quale interviene, con l’ordinanza di cancellazione dal ruolo e l’estinzione “sui generis” del processo, e, dall’altro lato, per gli effetti sostanziali derivanti dal negozio giuridico contestualmente stipulato dalle parti, il quale resta integralmente sog-getto alla disciplina che gli è propria ( ). Invero, da ultimo ( ), peraltro, proprio in relazione alla conciliazione giudiziale, la S.C. precisa – sotto una diversa angolazione di visuale – che al relativo verbale non possono essere attribuiti effetti equiparabili a quelli di una sentenza passata in giudicato, configurandosi piuttosto un titolo di natura contrattuale, il quale, in questo senso, resta pertanto soggetto alle ordinarie sanzioni di nullità. La transazione che sia contenuta in una conciliazione giudiziale è sottratta, in quanto perfezionatasi in giudizio, al regime della impugna-bilità di cui all'art. 2113 c.c., conservandosi le azioni - con la relativa di-sciplina - di nullità e di annullamento del contratto. L'intervento del giudice, infatti, non può esplicare alcuna efficacia sanante o impeditiva. Relativamente ai diritti già maturati il negozio integra sostanzialmente una transazione, trovando applicazione quanto disposto dall'art. 2113 in materia di norme inderogabili (annullabilità). Rispetto, invece, ai diritti non ancora sorti o maturati, la preventiva disposizione può comportare la nullità dell'atto, essendo esso diretto a regolamentare gli effetti del rapporto di lavoro con modalità differenti rispetto a quelle fissate in se-de legale o di contrattazione collettiva.
6.La conciliazione in sede sindacale
La conciliazione in sede sindacale presuppone che l'accordo sia raggiun-to con un'effettiva assistenza del lavoratore da parte di esponenti della propria organizzazione sindacale cioè di quella alla quale egli ha ritenuto di affidarsi ( ):
Per essere qualificata tale, in particolare, la conciliazione deve risultare da un documento sottoscritto contestualmente dalle parti nonché dal rappresentante sindacale di fiducia del lavoratore ( ). Occorre altresì valutare, a tal fine, se, in relazione alle concrete modalità di espletamen-to della conciliazione, sia stata correttamente attuata la funzione di sup-porto che la legge assegna al sindacato nella fattispecie conciliativa ( ).
Il lavoratore può dolersi della mancata o insufficiente assistenza del proprio sindacalista ma non dell'assenza di quello che tutela la contro-parte datoriale (che, nella specie, non aveva sottoscritto contestualmen-te l'atto) nel cui esclusivo interesse interviene ( ).
7.La conciliazione c.d. monocratica-sindacale e il diffuso giudizio di so-spetto
L’articolo 2113 c.c. prevede esplicitamente che le transazioni e le rinun-ce che hanno per oggetto diritti inderogabili del lavoratore non sono va-lide (primo comma) e che possono essere impugnate nei sei mesi suc-cessivi (secondo comma). Il quarto comma conclude statuendo che l’impugnazione non è ammissibile per le conciliazioni che siano interve-nute “ai sensi dell’art. 185, 410 e 411, 412 ter e 412 quater del codice di procedura civile”, comma così modificato dalla legge 183/2010 (collega-to lavoro).
Dalla disamina delle sedi pacificamente preposte alla sottoscrizione dei verbali di conciliazione, si possono trarre alcune osservazioni, anche in riferimento ai contesti storici/sociali della materia ( ).
Gli organismi preposti a raccogliere la volontà abdicativa del lavoratore sui suoi diritti inderogabili sono quasi sempre organi collegiali. L’unico organo monocratico è rappresentato dal giudice del Tribunale della se-zione lavoro quando agisce in tale composizione. D’altro canto, gli or-ganismi collegiali diversi da quelli giudiziari, preposti a raccogliere la conciliazione non più impugnabile, vedono nella posizione apicale la presenza necessaria di soggetti particolarmente qualificati (direttori del lavoro, magistrati in pensione, avvocati cassazionisti, professori univer-sitari in materie giuridiche). Solo per la conciliazione ex art. 412 ter c.p.c. delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative non sono richiesti titoli accademici o professionali. È richiesta solo la nomina del-le organizzazioni sindacali legittimate.
Evidentemente per il legislatore la composizione collegiale dell’organismo e i soggetti legittimati a nominare i componenti sono ga-ranzie idonee per le tutele del soggetto debole del rapporto di lavoro.
Il verbale di conciliazione non più impugnabile tra il lavoratore e il dato-re di lavoro rappresenta normalmente l’atto conclusivo di una comples-sa e articolata procedura. Senza quella procedura e il suo rispetto, il verbale di conciliazione giuridicamente non è valido. L’art. 411 c.p.c. terzo comma esonera dall’osservanza delle particolari e rigorose forme solo i casi in cui le conciliazioni siano sottoscritte “in sede sindacale”.
Per questa sede le forme non sono rigorose come per le altre.
È evidente che questo richiamo della norma è rivolto in modo esplicito ed inequivocabile alle conciliazioni sindacali di cui all’art. 412 ter c.p.c. e cioè alle conciliazioni sindacali sottoscritte presso le sedi collettive e con le modalità previste dai contratti collettivi sottoscritti dalle associazioni sindacali maggiormente rappresentative.
Nelle procedure di conciliazione, dall'indagine sistematica delle norme del codice di procedura civile che disciplinano la materia si evince che il singolo Sindacato dei lavoratori è legittimato a svolgere una funzione di assistenza del lavoratore: l’art. 410 c.p.c. primo comma, prevede che il lavoratore può promuovere il tentativo di conciliazione avanti la com-missione di conciliazione anche “tramite l’associazione sindacale alla quale aderisce o conferisce mandato”. Uguale facoltà di assistenza e partecipazione, però, non è concessa nell’arbitrato di cui all’art. 412 qua-ter c.p.c., né nelle conciliazioni giudiziali di cui all’art. 185 c.p.c. davanti ai giudici.
Il nostro codice non ha attribuito al Sindacato la funzione corporativa di soggetto che presiede alla sottoscrizione dei verbali di conciliazione del-le controversie sorte tra il datore di lavoro e il lavoratore, che abbiano gli effetti impeditivi di cui all’art. 2113 ultimo comma c.c.
I soggetti che ricorrono a tali forme di conciliazione, devono porre la massima cautela ed essere consapevoli di un limite di rischio piuttosto elevato sulla reale “tenuta” degli accordi sottoscritti, segnatamente in relazione alle rinunce del lavoratore e ad una possibile opera di revisio-ne dell’autorità giudiziaria, a seguito dell’impugnazione di quest’ultimo.
8.Divieto di impugnazione della transazione per l’avvocato
L'articolo 44, codice deontologico della professione forense [Divieto di impugnazione della transazione raggiunta con il collega], stabilisce al comma 1 quanto segue: “l'avvocato che abbia raggiunto con il collega avversario un accordo transattivo, accettato dalle parti, deve astenersi dal proporne impugnazione, salvo che la stessa sia giustificata da fatti sopravvenuti o dei quali dimostri di non avere avuto conoscenza”. La disposizione prevede, in fattispecie di violazione, la sanzione disciplinare della censura ai sensi del comma 2 ( ).
L'ambito oggettivo di applicazione dell'articolo 44 è letteralmente riferi-to alla “transazione”, con indubbio ed evidente richiamo alle disposizio-ni di cui agli articoli 1965 ss. c.c.
Quanto premesso consente ulteriori applicazioni dell'articolo 44, nuovo codice deontologico, alle transazioni in materia di lavoro. Esse, se stipu-late al di fuori delle sedi di cui all'articolo 2113, comma 4, c.c., sono im-pugnabili nel termine di decadenza di sei mesi (oltre che nelle ipotesi previste dal codice civile); se invece concluse nelle predette sedi, sono inoppugnabili (se non nei casi contemplati dal codice).
In queste ultime fattispecie, il ricorso giudiziale è dichiarato improcedi-bile: tuttavia si può agevolmente ipotizzare il rischio di assorbimento della relativa fattispecie, in ipotesi evidentemente limitata alla sola pro-posizione di un atto giudiziario, nella previsione del succitato art. 44, che fa riferimento al fatto oggettivo dell’impugnazione (giudiziale e/o stragiudiziale, peraltro e verosimilmente), all’evidenza anche qualora non coltivabile, come nel caso di specie.
In questo contesto generale, dunque, l’avvocato non può assistere la parte in qualsivoglia iniziativa mirata a mettere in discussione il regola-mento di interessi formalizzato con un atto transattivo. In questi termi-ni, devono essere prese in considerazione tutte le ipotesi nelle quali l’avvocato abbia comunque assistito il proprio cliente, sia con riferimen-to a rinunce e transazioni invalide, sia con riferimento a rinunce e tran-sazioni valide ed inoppugnabili ai sensi del comma 4 dell’art. 2113 c.c., in qualsivoglia sede e forma avvenute.
La soluzione più lineare per il cliente sarà quella di rivolgersi ad un altro avvocato, nei confronti del quale non potrà certamente configurarsi al-cuna violazione deontologica, in questi casi, posto che lo stesso non è stato parte attiva del processo di formazione dell’accordo transattivo e, dunque, non è a conoscenza del percorso (interno) logico e, soprattutto, fattuale che ha portato alla transazione.
Ovviamente, deve trattarsi di un professionista che non ha alcun legame di sorta con l’avvocato che ha assistito la parte interessata, potendo, in questi termini, farsi riferimento, in via analogica, ai criteri che regolano il c.d. conflitto di interessi dell’avvocato in caso di assunzione di incari-chi. Il riferimento è mirato ad escludere ogni possibile “conflitto”, at-traverso intestazioni fittizie dell’incarico, conferimento dell’incarico a soci e/o colleghi e/o collaboratori professionali in modalità non occa-sionale, comunque facenti parte dello stesso studio, in qualunque forma strutturato: associazione di avvocati, società tra professionisti, società tra avvocati, colleghi in condivisione di Studio, titolari di domiciliazioni.
La finalità di questo divieto, che può apparire eccessivo ad un esame superficiale, si risolve nella necessità di dare il massimo supporto di sta-bilità alle transazioni, soprattutto in materia di lavoro, le quali sono no-toriamente tra le più delicate, segnatamente quando hanno ad oggetto diritti indisponibili, come nelle fattispecie di cui all’art. 2113 c.c. (ma non solo, ovviamente). Il processo colloquiale e proattivo che ha visto sicuramente quale gestore più interessato il legale di fiducia della parte, porta con sé tutta una serie di presupposti, atti, documenti, dichiarazio-ni verbali e scritte, riservate e non producibili in giudizio, sulle quali si ritiene opportuno mettere la parola fine sotto ogni profilo, salva sempre l’eccezione di sopravvenienza di fatti e circostanze prima non conosciu-te.
Le norme deontologiche di cui alla presente esposizione hanno un effet-to diretto solo ai possibili fini disciplinari per l’avvocato che maliziosa-mente o incautamente sia scivolato nella trappola del comportamento superficiale e negligente, senza che possano in alcun modo impattare sul contenuto intrinseco del procedimento di impugnazione, sulla sua fon-datezza o temerarietà e, in ultima analisi, sulla validità dello stesso, sia a fini sostanziali, sia a fini processuali.
9.Il disfavore legislativo nei riguardi della conciliazione sindacale
Ad un primo esame sommario, non può certo evitarsi la riflessione per cui il legislatore manifesti un certo disfavore verso la via privata della risoluzione delle controversie di lavoro, sia in termini di conciliazione, sia in termini di arbitrato. Invero, nel caso specifico, l’autonomia privata individuale – non collettiva – non ha mai avuto modo di espandersi nel-la fattispecie normativa generale in oggetto, sia sui profili di regolamen-tazione del rapporto, sia su quelli di regolamentazione delle controver-sie.
Il tutto, evidentemente, in un contesto in controtendenza, considerato che, in ambito civilistico generale, la mediazione obbligatoria delle con-troversie ha sempre più caratterizzato una manifestazione espansiva, così come espressa ai giorni nostri.
In effetti, peraltro, l’art. 31, comma 2, legge 183/2010, fa salvo il tenta-tivo di conciliazione dell’art. 80, comma 4, d.lgs. 276/2003, conservan-done il carattere obbligatorio. Invero, la disposizione si riferisce alle controversie che nascono dai contratti oggetto di “certificazione” nelle specifiche sedi deputate, la quale ultima ha la finalità manifesta “di ri-durre il contenzioso in materia di lavoro” (art. 76, d.lgs. 276/2003 cit.) e questo con specifico riferimento per il contratto in cui è “dedotto diret-tamente ma anche indirettamente il rapporto di lavoro” (verosimilmente con causa mista): in questi termini, le controversie che hanno titolo nei contratti certificati devono essere previamente veicolate attraverso il tentativo di conciliazione nei confronti dello stesso organismo sede della certificazione.
La facoltatività innegabile di cui è portatrice l’art. 410 c.p.c. è quella del tentativo da avviare presso l’Ispettorato Territoriale del Lavoro, ferma restando l’ipotesi parallela e separata del tentativo di conciliazione delle controversie sui contratti certificati, che si può svolgere, invero, tra le sedi deputate alla certificazione, anche davanti allo stesso ITL.
Le parti sociali, invero, non hanno mai attivato una solida base di espe-rienza nella materia in oggetto, con un possibile, ipotetico innesto di previsioni collettive nella disciplina delle controversie di lavoro, verosi-milmente attraverso una sorta di arbitrato intersindacale, preferendo avviare il lavoratore alla via giurisdizionale, la quale ha da sempre col-mato la lacuna del piano intersindacale e dell’autonomia collettiva, la quale ultima viene così di fatto a creare le regole dello svolgimento del rapporto di lavoro nella sua proiezione dinamica naturale, senza però seguire il percorso di un possibile inserimento nel potenziale conflitto. Laddove l’autonomia collettiva, in sede di contrattazione, ha inserito in-dicazioni per un tentativo di conciliazione, lo ha fatto limitandosi ad operare all’interno delle regole convenzionali di pari grado, di per sé stesse inidonee ad avere impatti nella funzione pubblica dell’esercizio della giurisdizione. A questo risultato, invero, si può pervenire solo at-traverso una regola di tipizzazione legale, che superi il limite dell’autonomia privata, seppure collettiva, attesa la improbabile e im-proponibile regola di obbligatorietà scaturente dalla contrattazione col-lettiva, la quale sarebbe affetta da radicale ed assoluta nullità in contra-sto con la funzione pubblica della giurisdizione. Non è facile compren-dere il significato del silenzio legislativo su questo delicato fronte, se non attraverso una sottile indicazione di disfavore, quanto meno fino allo stato attuale del contesto legale, economico e sociale.