TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

 1.- Premessa
Gli obiettivi che il Ministero della Giustizia si prefigge di conseguire con la riforma del processo civile sono chiaramente manifestati nel disegno di legge delega nonché nel decreto ministeriale del 12 marzo 2021 con il quale è stata costituita la Commissione, presieduta dal Prof. Luiso, per l’elaborazione di proposte di interventi in materia di processo civile e di strumenti allo stesso alternativi. Tali interventi devono mirare a ridurre i tempi dei processi e ottenere una miglior efficienza dell’amministrazione della giustizia.
Nella realizzazione di tali scopi, i mezzi di risoluzione alternativa delle controversie occupano un posto in prima linea poiché garantiscono “prodromicamente” la speditezza e la semplificazione del processo. All’uopo, e per rendere più efficienti gli strumenti già presenti nell’ordinamento processuale italiano, il primo step è rappresentato dall’operazione di estensione ragionata e, al contempo, di esclusione di materie dal bacino delle liti per le quali negoziazione assistita e mediazione sono obbligatorie; operazione compiuta tenendo a mente quelli che sono stati dal 2010 e fino ad oggi i successi e gli insuccessi delle adr nostrane.
Al di fuori dell’area dell’obbligatorietà, pur costituendo materia nuova alla quale vogliono estendersi mediazione e negoziazione assistita, si collocano le liti lavoristiche.

2.- L’estensione della mediazione facoltativa alle controversie di lavoro.
L’art. 2 del disegno di legge delega è dedicato agli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie, con attenzione particolare rivolta all’efficientamento della mediazione civile attraverso diversi interventi sulla disciplina finora vigente.
Rispetto a tutte le modifiche proposte, ai limitati fini del presente commento, si concentrerà l’esame solo sugli aspetti che incidono direttamente o indirettamente sulla giustizia lavoristica.
Come già accennato nel § precedente, la principale novità è rappresentata dal fatto che la Commissione Luiso propone per la prima volta l’estensione della mediazione del d. lgs. 28/2010 alla materia lavoristica, ancorchè non tutte le norme del decreto cit. (anche quelle oggetto di odierna proposta di modifica) potranno trovare applicazione alle liti dell’art. 409 c.p.c.
Giova evidenziare che tale previsione è contenuta solo nella proposta della Commissione Luiso del 24 maggio 2021, mentre è assente tanto nell’originario testo del d.d.l. 1662 licenziato dal Governo Conte, quanto negli emendamenti governativi proposti il 16 giugno 2021 dal Ministro Cartabia.
Cominciamo col dire che la mediazione che la Commissione propone di estendere alle controversie di lavoro è solo di natura facoltativa, cosicché l’esperimento del tentativo non potrà mai costituire condizione di procedibilità della domanda.
La scelta di escludere la mediazione obbligatoria è ragionevole e in linea con l’ultimo intervento in materia di conciliazione stragiudiziale che ha interessato la materia lavoristica . Con la l. 183/2010, la conciliazione obbligatoria nel lavoro – di scarso successo pratico anche per via dell’eccessiva burocratizzazione della procedura conciliativa, lontana di fatto dalla via della facilitazione – a pochi mesi di distanza dall’entrata in vigore del d. lgs. 28/2010, è stata abrogata e sostituita con modelli facoltativi.
Ne consegue che non troverebbero applicazione alle liti di lavoro tutte le norme contenute nel d. lgs. 28/2010 che si riferiscono alla mediazione obbligatoria, incluse quelle deputate a regolare i rapporti con il processo (art. 5 comma 1 bis d. lgs. cit.)
La proposta della Commissione Luiso di “prevedere la possibilità di ricorrere alla mediazione (…) nelle controversie di cui all’articolo 409 del codice di procedura civile” richiederebbe una modifica dell’art. 23 d.lgs. 28/2010 , norma che, nel regolare i rapporti tra mediazione e altre procedure conciliative, dispone che i procedimenti conciliativi di lavoro siano “esperiti in luogo di quelli del presente decreto”. Il legislatore della mediazione civile stabilisce l’esclusività della conciliazione in materia lavoristica in ragione della sua specialità e indipendentemente dal suo essere obbligatoria, cosicché, allo stato attuale, gli artt. 410 ss. prevalgono sulla mediazione, escludendola, per il sol fatto di avere ad oggetto le controversie di lavoro .
La modifica proposta dalla Commissione Luiso tende invece a consentire che al fianco delle procedure conciliative previste dal codice di procedura civile si ponga la mediazione del d. lgs. 28/2010, in modo che il lavoratore ricorrente si trovi nella condizione di poter scegliere liberamente e volontariamente di ricorrere ad una vasta gamma di mezzi di risoluzione, inclusa la mediazione.
La previsione di molteplici strumenti di risoluzione alternativa della lite risponde alla constatazione che la Commissione Luiso compie sulla equivalenza degli effetti dell’accordo negoziale e della sentenza . Considerata la grande utilità che l’accordo negoziale ha nella risoluzione dei conflitti, utilità paragonabile in punto di efficacia vincolante alla tutela giurisdizionale dichiarativa, la Commissione, nell’adeguarsi all’obiettivo di ridurre i tempi del processo e offrire una amministrazione della giustizia più efficiente, amplia il bacino di offerta di strumenti utili a garantire la tutela dei diritti in sede stragiudiziale.
Per rendere più appetibile la via della mediazione, anche rispetto alle procedure previste dagli artt. 410 e 412 ter c.p.c., e favorire il raggiungimento dell’accordo, la Commissione, in linea con i successivi emendamenti governativi, propone incentivi fiscali ed economici, da un lato, e una semplificazione delle procedure di adr, dall’altro.
Giova però fin da subito evidenziare che alcuni strumenti volti a rendere più appetibile la mediazione si applicano anche alla negoziazione assistita, tanto in virtù delle proposte della Commissione, quanto in ragione degli emendamenti governativi. Sicché, a parità di benefici, ci sembra che la negoziazione – come meglio si vedrà infra - sia mezzo più idoneo al raggiungimento dello scopo (ovvero l’accordo negoziale).
Non può infatti dimenticarsi che la mediazione, a dispetto della negoziazione, è una procedura che, quand’anche utilizzata con funzione squisitamente facilitativa, prevede l’intervento di un terzo estraneo alla lite volto a favorire la ricerca di una soluzione tra i litiganti, anche con l’eventuale partecipazione degli avvocati delle parti, secondo le regole dell’Organismo scelto dal ricorrente. Si tratta, in altri termini, di una procedura conciliativa amministrata che, sotto certi profili, tanto ricorda la conciliazione lavoristica dell’art. 410 c.p.c. (dalla quale peraltro la mediazione civile ha tratto ispirazione, sebbene quando era ancora obbligatoria); conciliazione che non ha ricevuto assenso in questi anni, attestandosi su un range medio del 2-4% .
Ne consegue che la modifica proposta dalla Commissione relativa alla previsione della mediazione facoltativa quale ulteriore strumento di risoluzione alternativa delle liti lavoristiche, e non recepita dal Governo, non sembra possa avere un impatto significativo nell’ottica di deflazionare il contenzioso. Il suo mancato recepimento da parte del Governo non desta perciò particolari perplessità, dal momento che, invece, un ruolo fondamentale resta assegnato alla negoziazione assistita; strumento questo sì, in grado potenzialmente di rappresentare una alternativa valida e maggiormente efficiente rispetto ai mezzi già previsti dal c.p.c.

3. La negoziazione assistita per le liti di lavoro: una storia infinita (forse) a lieto fine.
Quella della negoziazione assistita in materia di lavoro si prospetta da oltre un lustro come una storia infinita, con altalenanti oscillazioni legislative/governative che vedono contrapposti, da un lato, il riconoscimento e la valorizzazione dello strumento conciliativo e, dall’altro, la sua secca esclusione.
Cominciamo col dire che il d.l. 132/2014, norma che ha introdotto l’istituto della negoziazione nel nostro ordinamento, prevedeva la possibilità che le liti lavoristiche fossero conciliate grazie all’assistenza degli avvocati, con gli effetti previsti dall’art. 5 d.l. 132/2014, con l’ulteriore precisazione (art. 7 d.l. cit.) che gli accordi fossero poi assoggettati alla disciplina dell’art. 2113 c.c.
Senonché, con la successiva legge di conversione, l’art. 7 è stato soppresso e, per converso, all’art. 2 è stato stabilito che la negoziazione non possa trovare applicazione nelle controversie relative a diritti indisponibili nonché in quelle di lavoro .
La scelta legislativa ha destato non poche perplessità atteso che la negoziazione assistita appariva prima facie come uno strumento perfettamente compatibile con le controversie lavoristiche e che avrebbe consentito il raggiungimento più rapido ed efficiente di accordi negoziali. Non può infatti sfuggire che nella prassi gli accordi relativi alle controversie in materia di rapporti di lavoro subordinato vengono quasi sempre conclusi dagli avvocati delle parti, i quali, dialogando con i rispettivi clienti, sono in grado di individuare la migliore soluzione da offrire alla lite.
Tuttavia, l’accordo raggiunto privatamente e privo del sigillo del sindacato (art. 412 ter c.p.c.) o della Direzione territoriale del lavoro (art. 410-411 c.p.c.) resta invalido ai sensi dell’art. 2113 c.c. .
Ne consegue che le parti, pur avendo già raggiunto una soluzione conciliativa grazie all’intervento dei propri legali, sono costrette a sopportare un ulteriore passaggio; passaggio che, pur limitandosi ad un mero controllo formale, rischia di ritardare, con ogni conseguenza anche in ordine ad eventuali ripensamenti, la soluzione stragiudiziale della lite .
Sulla spinta delle associazioni forensi dei giuslavoristi, allora, il Governo Conte aveva predisposto una bozza di disegno di legge nella quale nuovamente veniva prevista la possibilità di ricorso alla negoziazione in materia di lavoro “anche modificando l’art. 2113 c.c.”.
Tuttavia, il testo definitivamente approvato dal Consiglio dei Ministri il 9 gennaio 2020 tende ancora una volta a sminuire la portata della negoziazione assistita nella materia in esame, stabilendo, a fronte di un generale riconoscimento del ricorso allo strumento a carattere volontario e facoltativo, che resta “fermo il disposto degli articoli 2113 del codice civile e 412 ter del codice di procedura civile”. Cosicché, ferma restando la possibilità di concludere accordi con l’assistenza degli avvocati, si nega che le conciliazioni possano godere di efficacia analoga a quella degli artt. 411 c.p.c. o 412 ter c.p.c.
Nella convinzione che “la funzionalità e rapidità dei percorsi complementari alla giurisdizione riduce le possibilità di inasprimento dei conflitti”, la Commissione Luiso ha proposto un ritorno al passato, prevedendo la possibilità di ricorrere alla negoziazione assistita (e alla mediazione) nelle controversie dell’art. 409 c.p.c., con tutti gli effetti previsti dall’art. 2113 c.c.
Tale proposta non può che essere accolta con favore perché da un lato mira a non rendere lettera morta la previsione della negoziazione assistita nelle liti di lavoro (come invece risulta dal testo del d.d.l. approvato dal CdM il 9 gennaio 2020) e dall’altro introduce (nuovamente) un mezzo di risoluzione che tra tutte le adr meglio si presta a risolvere i conflitti lavoristici, rendendo così la via stragiudiziale realmente complementare a quella giudiziale, in vista di una migliore risposta di giustizia.
Gli emendamenti governativi sembrano condividere l’opzione proposta dalla Commissione poiché prevedono che all’accordo di negoziazione sottoscritto dalle parti, ciascuna delle quali deve essere assistita da un proprio avvocato, sia assicurato il regime di stabilità protetta dell’art. 2113 c.c.
Stando alla soluzione ministeriale, l’accordo di negoziazione assistita avrà validità pari a quella degli accordi stipulati innanzi alle Direzioni territoriali del lavoro (art. 411 c.p.c.), a quella delle conciliazioni stipulate dinanzi ai sindacati (412 ter c.p.c.) nonché pari ai lodi irrituali di lavoro degli artt. 412 ss. c.p.c.
Viene attribuita in questo modo alla negoziazione assistita la dignità di strumento realmente alternativo alla via giurisdizionale nonché alternativo alle altre forme di conciliazione codicistica.
La stabilità dell’accordo parrebbe poi ulteriormente (ma indirettamente) garantita dalla previsione contenuta nell’art. 5 della l. 162/2014 in virtù della quale costituisce illecito deontologico dell’avvocato l’impugnazione dell’accordo al quale ha partecipato . La disposizione sembrerebbe infatti più stringente di quella contenuta nell’art. 44 del Codice deontologico forense, poiché priva di clausola di salvezza .
E’ condivisibile poi la condizione posta dall’emendamento governativo per beneficiare del regime di stabilità dell’art. 2113 c.c.: è richiesto che nella negoziazione ciascuna parte sia assistita da un proprio avvocato. Non deve infatti sfuggire che l’istituto della negoziazione prevede l’assistenza obbligatoria di “uno o più avvocati”, con la conseguenza che, ai sensi della l. 162/2014, l’accordo concluso a seguito della procedura è perfettamente valido anche se ha avuto luogo sotto l’assistenza di un solo difensore .
Considerata però la particolarità della materia lavoristica, connaturata da uno squilibrio informativo, sociale ed economico delle parti , bene ha fatto il Governo a prevedere che sia necessario che ciascuna parte sia assistita da un proprio avvocato.
D’altronde la reticenza finora dimostrata nei confronti della negoziazione assistita nelle liti di lavoro risiede proprio nella considerazione che vi è una sproporzione di potere contrattuale tra le parti che impedisce di affidare la risoluzione della lite “alla libera determinazione individuale dei soggetti coinvolti” . La presenza di un difensore per parte, sotto questo punto di vista, dovrebbe scongiurare i timori di chi ancora guarda con sfavore agli strumenti autonomi di risoluzione delle liti nella materia lavoristica: il lavoratore che si affida ad un proprio difensore di fiducia ristabilisce sul piano precontenzioso quella parità mancante sul piano sostanziale.
Un’ultima doverosa precisazione.
La negoziazione assistita in materia di lavoro non può mai costituire condizione di procedibilità della domanda giudiziale. Essa quindi è facoltativa, ovvero rimessa alla libera iniziativa dei litiganti. Tuttavia, quand’anche volontaria e facoltativa, l’istanza di negoziazione assistita genera le conseguenze dell’art. 4 l. 162/2014 poiché, in caso di mancata risposta o di rifiuto all’invito, il giudice potrà valutare il comportamento della parte ai fini delle spese del giudizio e di quanto previsto dagli artt. 96 e 642 c.p.c. .

4. I profili incentivanti il ricorso alle adr.
Nell’ottica di incoraggiare il ricorso agli strumenti di risoluzione alternativa delle liti, la Commissione Luiso, e successivamente anche gli emendamenti governativi, propongono una serie di incentivi di carattere economico e fiscale. Al fianco di questi ultimi, allo scopo di favorire il raggiungimento dell’accordo in sede stragiudiziale, si pongono poi le previsioni di semplificazione delle procedure e di partecipazione ad esse delle Pubbliche Amministrazioni.

4.1. I profili economici incentivanti il ricorso alle adr.
Cominciamo con l’esame delle misure economiche.
E’ bene fin d’ora precisare che alcune di esse si riferiscono solo alla mediazione civile del d. lgs. 28/2010 e, alla luce di quanto già osservato supra, non dovrebbero interessare la materia lavoristica. Verranno perciò sinteticamente qui richiamate allo scopo di porre in evidenza gli sforzi di rendere sempre più appetibili gli strumenti di risoluzione stragiudiziale delle controversie .
Il riordino e la semplificazione della disciplina fiscale, relativi solo alla procedura di mediazione, previsti dalla Commissione Luiso e dagli emendamenti governativi attengono a:
a) l’incremento dell’esenzione dall’imposta di registro per gli accordi conclusi a seguito di mediazione ai sensi dell’art. 17 comma 3 d. lgs. 28/2010;
b) la semplificazione della procedura di riconoscimento del credito d’imposta dell’art. 20 d. lgs. 28/2010 e l’aumento di tale credito (in particolare, l’emendamento governativo prevede il riconoscimento di un credito d’imposta commisurato al compenso dell’avvocato che assiste le parti in mediazione);
c) la previsione di un rimborso per gli Organismi per le spese di mediazione non corrisposte dalle parti che beneficiano del patrocinio a spese dello Stato ;
d) la riforma delle spese di avvio della mediazione e delle indennità spettanti agli Organismi di mediazione.
Oltre a tali misure che riguardano esclusivamente la procedura di mediazione, ve ne sono due che interessano (o potrebbero interessare) anche la procedura di negoziazione assistita.
In primo luogo, si stabilisce che sia garantito il patrocinio a spese dello Stato per le spese di assistenza legale.
La previsione assume notevole importanza soprattutto nella materia lavoristica poiché senza di essa la negoziazione assistita finirebbe ragionevolmente per non trovare spazio di operatività.
In assenza di una simile previsione, i benefici economici ai quali accede il lavoratore sarebbero riconosciuti solo sul piano giudiziale (patrocinio a spese dello Stato, esenzione dal pagamento del contributo unificato per i redditi rientranti nei limiti della l. 111/2011) ; il che indurrebbe il ricorrente ad agire direttamente in giudizio per evitare di dover sopportare ulteriori costi. I benefici sul piano della tutela sarebbero così sacrificati per ragioni economiche.
La previsione non può pertanto che essere accolta con favore . Preoccupa però che nella relazione tecnica sugli emendamenti governativi (a dispetto di quanto risulta dal contenuto dell’art. 2 che genericamente riconosce “l’estensione del patrocinio a spese dello Stato alle procedure di mediazione e di negoziazione assistita”), la proposta sia legata solo alle adr che costituiscono condizione di procedibilità della domanda.
L’indicazione governativa desta timori perché implicherebbe automaticamente l’esclusione dal beneficio in esame di tutte le controversie di lavoro, per le quali l’opzione per la negoziazione assistita è rimessa alla libera iniziativa del richiedente tutela.
La misura dell’ammissione al gratuito patrocinio finirebbe così per disincentivare la negoziazione nelle liti di lavoro e, per converso, per incentivare il ricorso al giudice, e costituirebbe invece solo un beneficio con funzione compensativa dell’obbligo di ricorrere preventivamente ad una adr nelle controversie assoggettate alla condizione di procedibilità.
Una seconda misura incentivante potrebbe esser rappresentata dalla previsione del rimborso del contributo unificato in ipotesi di successo della procedura conciliativa instaurata e conclusasi in pendenza del giudizio.
Si usa doverosamente il condizionale poiché allo stato, tanto nel progetto della Commissione Luiso, quanto negli emendamenti governativi, tale misura è riservata solo ai casi di accordo con “una procedura di mediazione che comporti l’estinzione del giudizio”.
La limitazione della previsione alla sola mediazione non è condivisibile.
Ed invero, poiché la negoziazione assistita può essere facoltativa (come quella pensata dalla riforma per le liti di lavoro) nulla esclude che le parti possano dare inizio alla procedura della l. 162/2014 parallelamente al giudizio già instaurato. L’eventuale conclusione dell’accordo in pendenza del processo potrebbe perciò dar luogo (analogamente a quanto accade in mediazione) all’estinzione del giudizio.
Non sembra quindi giustificabile una disparità di trattamento tra le due procedure che astrattamente sono in grado di produrre analoghi benefici sull’alleggerimento del carico giudiziario. Vieppiù che nelle liti di lavoro la mediazione parrebbe strada non percorribile, sicché il lavoratore verrebbe sempre escluso dal rimborso del contributo unificato, anche quando virtuosamente concluda accordi con il proprio datore di lavoro.
Il che ancora una volta finirebbe per dare alla misura incentivante gli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie una funzione esattamente contraria.

 

4.2. I profili procedurali incentivanti la negoziazione assistita.
Quanto alle misure di carattere procedurale, si evidenzia una notevole distanza tra la proposta della Commissione Luiso e quella governativa. Mentre nella prima (art. 2 lett. o) si propone solo di semplificare la procedura di negoziazione assistita prevedendo, salvo diverse intese tra le parti, di utilizzare un modello convenzionato elaborato dal Consiglio Nazionale Forense, nella seconda (e nell’originario testo del ddl approvato il 9 gennaio 2020 dal Governo Conte), oltre alla predetta indicazione, si prevede l’arricchimento della procedura con una fase istruttoria denominata “attività di istruzione stragiudiziale”.
Tale attività consiste nell’acquisizione da parte degli avvocati delle parti di dichiarazioni di terzi, nonché nella eventuale raccolta di dichiarazioni confessorie. Lo scopo dichiarato è quello di agevolare l’accertamento dei fatti prima dell’inizio del processo, anche per consentire ai litiganti di fare una valutazione prognostica sui possibili esiti del giudizio alla luce delle prove già raccolte, così incoraggiando soluzioni transattive.
Tali prove sono poi utilizzabili nel successivo giudizio instaurato dopo l’insuccesso della negoziazione avente ad oggetto l’accertamento degli stessi fatti, ferma restando la possibilità per il giudice di disporne la rinnovazione.
Si tratta in altri termini di una istruzione preventiva non cautelare e non giudiziale che gode però, stando al dettato dell’art. 2, di un trattamento meno rigoroso di quello cui sono assoggettate le prove raccolte ai sensi dell’art. 698 c.p.c.
L’utilizzabilità nel successivo giudizio delle prove raccolte dagli avvocati nella “istruzione stragiudiziale” non è infatti sottoposta alla preventiva verifica di ammissibilità e rilevanza del materiale probatorio, che quindi potrebbe entrare nel processo anche in violazione delle regole sull’ammissibilità dei mezzi istruttori.
Infine, è possibile individuare un ulteriore incentivo alla conclusione di accordi di negoziazione assistita nelle previsioni che interessano l’art. 614 bis c.p.c.
Stando alle proposte della Commissione Luiso, il lavoratore che con l’accordo di negoziazione assistita si veda riconoscere il diritto ad una prestazione diversa dal pagamento di somme di denaro, può richiedere al giudice dell’esecuzione di imporre l’astreinte in caso di inadempimento del datore di lavoro.
Le novità consentono infatti di superare il doppio ostacolo all’utilizzo delle misure di coercizione indiretta nelle conciliazioni lavoristiche: a) viene meno il divieto di utilizzo dell’art. 614 bis c..p.c. nelle controversie di lavoro (art. 7 lett. b); b) la misura può essere concessa anche dal giudice dell’esecuzione (art. 8 lett. l).
Risultano così accolte le critiche da più parti mosse alla disciplina dell’art. 614 bis c.p.c.
In primo luogo, con riferimento all’ambito applicativo dell’art. 614 bis c.p.c., non appariva giustificata l’esclusione delle liti di lavoro; esclusione che penalizza sulla carta entrambe le parti del rapporto, ma soprattutto il lavoratore .
Sotto altro aspetto, la misura è oggi concedibile anche dal giudice dell’esecuzione. La scelta legislativa originaria di affidare la concessione della tutela esecutiva al giudice della cognizione determinava il tagliar fuori tutti i titoli stragiudiziali dalla coercizione indiretta, a partire dalle conciliazioni . Con la conseguenza che chi voleva ottenere una misura di esecuzione indiretta sulla base di un accordo era costretto a promuovere un processo dichiarativo solo a tal fine .
Non può quindi che valutarsi positivamente la proposta.
Tuttavia spiace dover prendere atto che il Governo, mentre ammette la concessione dalla misura da parte del giudice dell’esecuzione (art. 8 lett. l), non prevede all’art. 7 la possibilità di estendere l’ambito di applicazione dell’art. 614 bis alle liti di lavoro.
Sicchè, salvo a non voler considerare il limite della materia come operante ancora solo nel caso di concessione della misura ad opera del giudice della cognizione (e non anche del giudice dell’esecuzione chiamato ad emetterla quando il titolo sia un accordo negoziale), la modifica in esame non potrà fungere da ulteriore incentivo alla positiva conclusione delle negoziazioni assistite in materia di lavoro.

5. Le adr nel pubblico impiego e la responsabilità del rappresentante della p.a.
Nella direzione di incentivare l’accordo negoziale si pongono poi le disposizioni volte a favorire la partecipazione della pubblica amministrazione alla procedure stragiudiziali di risoluzione delle liti.
E’ noto come la difficoltà maggiore nel garantire l’operatività di strumenti conciliativi nelle controversie in cui sia parte una pubblica amministrazione sia rappresentata dal timore che il funzionario stipulante l’accordo, in nome e per conto della p.a., incorra in responsabilità amministrativa e contabile .
La spada di Damocle del danno erariale impedisce che vengano conclusi accordi tra pubbliche amministrazioni e dipendenti, in relazione a diritti disponibili. Il tutto nonostante il d.lgs. 165/2001 attribuisca al dirigente, oltre al potere di promuovere e resistere alle liti, quello di conciliare e di transigere .
Deve peraltro evidenziarsi che un primo passo per superare la ritrosia della p.a. a concludere accordi conciliativi in materia lavoristica è stato compiuto proprio dal d. lgs. 165/2001 (e prima ancora dal d. lgs. 80/1998) che ha stabilito all’art. 66 una particolare causa di esonero di responsabilità del funzionario per l’ipotesi di stipula di accordi transattivi con il pubblico dipendente. In particolare, la norma (oggi abrogata dalla l. 183/2010) prevedeva che l’accettazione da parte del funzionario della proposta conciliativa formulata dalla Commissione di conciliazione - a seguito dell’insuccesso del tentativo svolto tra le parti – non potesse mai dar luogo a responsabilità amministrativa .
Non subiva invece limitazioni la responsabilità contabile, della quale il dirigente poteva essere chiamato a rispondere. Inoltre, la responsabilità amministrativa era esclusa solo nell’ipotesi di accettazione della proposta della Commissione, restando al contrario inalterata nel caso di conciliazione raggiunta senza l’intervento propositivo dell’organo conciliativo (art. 66, commi 4 e 5 d. lgs. 165/2001).
In altre parole, veniva incentivato lo strumento conciliativo nel pubblico impiego solo in caso di formulazione di una proposta proveniente dalla Commissione: tanto perché in tal caso il funzionario non poteva essere chiamato a rispondere, quanto perché, al contrario, poteva ritenersi responsabile nel caso di successiva soccombenza giudiziale dell’amministrazione in misura maggiore rispetto a quanto prevedeva la proposta non accettata .
Sempre nell’ottica di vincere la reticenza dei dirigenti nei confronti dello strumento conciliativo lavoristico nelle controversie di pubblico impiego, è intervenuto poi il c.d. Collegato lavoro.
In primo luogo, il comma 9 dell’art. 31 l. 183/2010 ha abrogato gli artt. 65 e 66 d.lgs. 165/2001, disponendo per l’applicazione degli artt. 410 ss. c.p.c. anche al pubblico impiego contrattualizzato, riconducendo ad unità la disciplina della risoluzione stragiudiziale delle controversie, indipendentemente dalla natura pubblica o privata del datore di lavoro. La scelta legislativa di uniformare le procedure di conciliazione ha tenuto comunque in conto la specialità del rapporto di pubblico impiego al punto che l’ultimo comma dell’art. 410 c.p.c. stabilisce che “la conciliazione della lite da parte di chi rappresenta la pubblica amministrazione, anche in sede giudiziale ai sensi dell'articolo 420, commi primo, secondo e terzo, non può dar luogo a responsabilità, salvi i casi di dolo e colpa grave”.
L’esenzione da responsabilità deve ora riferirsi tanto alla responsabilità amministrativa quanto a quella contabile.
Resta comunque la responsabilità in caso di dolo o colpa grave.
L’effetto finale è quello, da una parte, di restringere l’area della responsabilità, estendendo la clausola di esonero anche alla responsabilità contabile e, dall’altra, di ampliarla rispetto a quanto precedentemente previsto dal d. lgs. 165/2001, poiché il funzionario può, alla luce dell’art. 410 ultimo comma c.p.c., essere chiamato a rispondere anche per colpa grave. Il che ha indotto la pubblica amministrazione a continuare a guardare alla conciliazione stragiudiziale come a uno spauracchio dal quale prendere le distanze .
Per rendere la mediazione percorso più appetibile per le p.a., anche rispetto alla conciliazione dell’art. 410 c.p.c., la Commissione Luiso ha proposto di integrare la disciplina dell’art. 21 del d.l. 76/2020, convertito in l. 120/2020 (sul c.d. scudo erariale) con una apposita disposizione normativa che integri il contenuto del d. lgs. 28/2010, prevedendo che coloro che sono sottoposti alla giurisdizione della Corte dei Conti, e che sottoscrivano accordi di conciliazione nell’ambito del procedimento di mediazione, possano rispondere per danno erariale solo in caso di danno conseguente ad una condotta dolosa. La Commissione prevede poi che tale esenzione di responsabilità non operi in caso di danni dovuti ad omissione o inerzia del soggetto agente.
La proposta mira a restringere ulteriormente, rispetto alla l. 120/2020, l’area della responsabilità per danno erariale, poiché prevede che il funzionario possa essere chiamato a rispondere solo per dolo e non anche per colpa grave.
L’emendamento governativo successivo recepisce però solo in parte la proposta della Commissione: pur optando per integrare la disciplina della mediazione con una specifica regola volta a incentivare la stipula di accordi con la p.a., escludendo la responsabilità contabile dei rappresentanti delle amministrazioni pubbliche quando il contenuto dell’accordo rientri nei poteri decisionali conferiti, stabilisce che resti ferma in ogni caso la responsabilità tanto in caso di dolo quanto di colpa grave del soggetto agente. Sotto questo profilo quindi, il d.d.l. delega nessuna novità apporterebbe rispetto al c.d. scudo erariale, allo scopo di favorire l’utilizzo della mediazione nelle controversie con le p.a.
Desta perplessità che né la Commissione Luiso né il successivo emendamento governativo (che tuttavia nessuna novità introduce sul tema della limitazione della responsabilità contabile) abbiano previsto esenzione di responsabilità per i rappresentanti di amministrazioni pubbliche che stipulino accordi conciliativi a seguito di negoziazione assistita.
Come si è avuto modo di osservare supra, lo strumento di adr prescelto per la risoluzione delle liti lavoristiche parrebbe essere proprio la negoziazione assistita e non la mediazione. Prevedere che il rappresentante della p.a. goda di protezione dalla responsabilità erariale solo in caso di mediazione e non di negoziazione assistita significa di fatto disincentivare la risoluzione stragiudiziale delle liti di pubblico impiego.
La negoziazione assistita non offrirebbe allora uno scudo maggiore rispetto alla conciliazione dell’art. 410 poiché, nell’una come nell’altra, il rappresentante della p.a. risponderebbe sempre per dolo e colpa grave.
Vero è che nel solco della l. 120/2020 nessun ulteriore protezione dal danno erariale parrebbe necessaria, essendo possibile prevenire ogni responsabilità derivante dalla stipula di accordi negoziali (anche tramite negoziazione assistita) con la preventiva concertazione con l'organo apicale dei margini entro i quali la conciliazione può essere conclusa. Ma è anche vero che se si ritiene giusto integrare questa disciplina con apposite (più incentivanti) regole da inserire nella mediazione del d. lgs. 28/2010 , è altrettanto opportuno farlo anche con riferimento alla negoziazione assistita. A pena altrimenti di condannare le liti assoggettate allo strumento della l. 162/2014 (quali quelle di pubblico impiego) a non essere conciliate dalle pubbliche amministrazioni.

 

 

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