TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1. Premessa. Il d.d.l. n.1662, attualmente all’esame del Senato, concepito per incidere profondamente sulla disciplina del processo civile e degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie in una prospettiva di semplificazione, speditezza e razionalizzazione, non poteva non prendere in considerazione, data la sua importanza, anche la materia lavoristica, quantunque il rito del lavoro abbia confermato, negli anni, una maggiore celerità rispetto al rito civile ordinario.
Focalizzerò, pertanto, la mia attenzione sulle previsioni relative a tale materia, così come oggi si profilano anche alla luce della Relazione della Commissione Luiso del 24 maggio 2021 e degli emendamenti presentati dal Governo alla fine dello scorso giugno.
Nell’ambito di una necessaria selezione, mi limiterò alla valutazione di tre temi che ritengo particolarmente importanti, vale a dire l’unificazione dei procedimenti di impugnazione dei licenziamenti; l’eventuale ingresso nel processo del lavoro delle misure coercitive previste dall’art. 614-bis c.p.c.; la gestione stragiudiziale delle controversie di lavoro attraverso gli istituti di conciliazione, mediazione e negoziazione assistita.
Peraltro, prima di affrontare tali punti, ritengo opportuno richiamare l’attenzione su un aspetto più generale rappresentato dal fatto che il processo del lavoro ha ritrovato nella crisi pandemica attuale, attraverso il ricorso alla strumentazione informatica, nuove potenzialità che, senza pregiudicare i principi di oralità, immediatezza e concentrazione che caratterizzano tale rito, ne hanno garantito e addirittura migliorato il funzionamento, colmando un ritardo di informatizzazione rispetto ad altri Paesi.
Questa esperienza, infatti, ha dimostrato che si può fare il processo del lavoro in modo ancor più essenziale, e dunque rapido, con maggior rispetto degli orari, risparmio di tempi morti, riduzione di differimenti, per impegni concomitanti, di spostamenti e costi, mantenendo la presenza fisica principalmente solo per le udienze di acquisizione della prova testimoniale e di interrogatorio personale delle parti.
Pertanto, sono sicuramente apprezzabili le aperture a favore del processo telematico contenute nel d.d.l. n.1662, nella Relazione Luiso e negli emendamenti presentati dal Governo, ferma restando comunque anche la necessità pratica di garantire su tutto il territorio nazionale la presenza di strumentazione operativa adeguata che consenta di realizzare quanto sopra.
2. La disciplina processuale in materia di licenziamento. Sino ad oggi accade che, a seconda che il contratto di lavoro sia soggetto o meno all’art. 18 St. lav., le cause di licenziamento debbano essere instaurate attraverso ricorso ex art. 414 c.p.c. ( ) ovvero ex art. 1, co. 48 ss. l. 92 del 2012, con un rito sicuramente più celere dell’ordinario, ma rispetto al quale al giudice non è consentito di esaminare domande diverse da quelle aventi ad oggetto l’impugnativa di licenziamento, salvo laddove debbano essere risolte questioni relative alla qualificazione del rapporto di lavoro ovvero quelle “fondate sugli identici fatti costitutivi”.
Ciò, com’è noto, ha generato notevoli incertezze, viste le difficoltà interpretative riguardanti, per un verso, l’ambito di applicazione del rito speciale e, per l’altro, le conseguenze relative all’errata radicazione del giudizio. Infatti, l’individuazione dell’ambito di applicazione del rito speciale si è rivelata problematica, ad esempio, in materia di dirigenti, allorquando si faccia valere la natura simulata della categoria e si chieda pertanto l’applicazione dell’art. 18 St. lav., ovvero si faccia valere la natura ritorsiva del recesso, o quando si discuta in merito al recesso da contratti di collaborazione autonoma (ancorché coordinata e continuativa) chiedendo in giudizio l’accertamento circa la subordinazione del rapporto di lavoro.
La questione della scelta del rito ha poi determinato pesanti effetti anche sulla tutela sostanziale degli interessi delle parti se solo si pensa al fatto che, in merito alle conseguenze dell’errore di rito, una parte della giurisprudenza era originariamente giunta a qualificarne la sorte per inammissibilità, con potenziali riflessi negativi in ordine alla possibilità di riproporre il giudizio laddove i termini di decadenza previsti dalla l. n. 183 del 2010 fossero spirati ( ). Peraltro, l’orientamento che oggi appare prevalente, ispirato dall’intendimento di non vanificare l’accesso alla giustizia per ragioni puramente procedurali, propende per il mutamento del rito, previa separazione dei giudizi, secondo quanto previsto dagli artt. 426 e 427 c.p.c. .
A onor del vero, non si può non rilevare come l’unitarietà del primo grado di giudizio, per quanto bifasica, abbia effettivamente portato a risultati celeri, anche in ragione della pragmatica scelta di alcuni Tribunali, poi avallata dalla Corte Costituzionale , di demandare la fase di opposizione allo stesso giudice della fase sommaria, sì da garantire non solo una valutazione unitaria delle risultanze istruttorie, quanto soprattutto la loro tendenziale attrazione nella fase sommaria. In tal modo, poiché nel giudizio di opposizione le parti conservano integra ogni opzione istruttoria, a prescindere dalle scelte processuali già operate, il giudizio di opposizione finisce, nella maggior parte dei casi per costituire un momento utile per affinare, nell’interesse della miglior tutela delle parti, le difese, sanando, per esempio, la produzione documentale alla luce di quanto emerso nella pregressa fase, ovvero concentrando maggiormente l’attenzione, eventualmente ancora a fini istruttori, su alcuni profili anziché altri.
In ogni caso, le proposte di riforma contenute nel d.d.l. n.1662, nella Relazione Luiso e negli stessi emendamenti governativi, nel manifestare una sostanziale convergenza, devono essere salutate positivamente, giacché, da un lato, contribuiscono a sanare la duplicazione di riti, stabilendo l’applicazione del rito ordinario a tutti i casi di licenziamento, così superando anche il contrasto con il d. lgs. 150/2011, in materia di semplificazione e riduzione dei riti civili, che il nuovo rito sembrava aver determinato ( ); dall’altro tali proposte si sono giustamente premurate di esplicitare il carattere prioritario di tale tipo di controversie, con indubbi benefici anche sulla tutela degli interessi sostanziali delle parti che, soprattutto in materia di licenziamento, si identificano anche nella necessità di avere una rapida conoscenza delle sorti del rapporto. In questa prospettiva, utile è anche la specificazione contenuta nella Relazione Luiso dell’obbligo per gli uffici giudiziari di calendarizzarne la trattazione in specifici giorni di calendario.
A prima vista, tale evidenziazione potrebbe apparire ridondante, ma, in realtà, a mio avviso, costituisce un utile riferimento organizzativo che contribuisce a favorire la celerità dei procedimenti.
Sotto altro profilo, va osservato che la riconducibilità delle azioni relative al licenziamento ad un solo strumento processuale comporta la perdita della possibilità, di cui abbiamo fatto cenno poc’anzi, di affinamento delle argomentazioni difensive e delle richieste istruttorie nella fase di opposizione, ma ciò non pare poter determinare alcuna diminuzione del diritto di difesa. Infatti, la fase sommaria del rito Fornero è caratterizzata dall’assegnazione di un termine per la redazione delle difese pari (nel minimo previsto dal co. 48 dell’art. 1, l. 92 del 2012) a 20 giorni di calendario, mentre il procedimento ex art. 409 c.p.c. presenta termini più ampi, pari nel minimo a 30 giorni (art. 415 c.p.c.), che favoriscono la possibilità di una maggiore meditazione e conseguente miglior impostazione delle difese sin dalla fase iniziale.
Opportuna, poi, la precisazione, contenuta nella Relazione Luiso e negli emendamenti governativi, secondo cui anche le azioni relative al licenziamento incidente sul rapporto di lavoro subordinato del socio di cooperativa, compreso il caso in cui venga a cessare, con il rapporto di lavoro, quello associativo, possano essere introdotte con ricorso ex artt. 409 ss. c.p.c. Si tratta di un punto che, nel corso degli ultimi anni, è stato oggetto di numerose oscillazioni giurisprudenziali anche da parte di pronunce di legittimità, le quali hanno, di volta in volta, ammesso o negato la competenza del giudice ordinario o del Tribunale delle imprese ( ) sulla base di argomentazioni contrapposte e dimostrative dell’incapacità di un proficuo dialogo tra le Corti, senza peraltro mai trovare un intervento risolutivo delle Sezioni Unite .
La previsione della Relazione Luiso e degli emendamenti governativi oltre a riportare ordine nella materia, appare peraltro maggiormente in armonia con i principi ordinamentali, giacché si inserisce perfettamente nell’ambito del distinguo tra controversie aventi un oggetto riconducibile all’alveo della prestazione mutualistica, la cui tutela è realizzabile attraverso i mezzi di tutela predisposti dal diritto societario, e quelle invece aventi ad oggetto l’attività lavorativa in senso stretto, che pur compenetrandosi nel rapporto associativo non si identifica con esso.
Infine, un cenno deve essere fatto alla proposta, contenuta sia nella Relazione Luiso che negli emendamenti governativi, di prevedere espressamente che le azioni di nullità dei licenziamenti discriminatori, ove non siano introdotte con ricorso ai sensi dell’articolo 414 del c.p.c., possano essere promosse, ricorrendone i presupposti, con i rispettivi riti speciali di cui agli artt. 38 cod. pari opportunità e 28 d.lgs. n. 150 del 2011.
L’esperibilità dell’azione, nell’una e nell’altra forma, a dire il vero, era già nota agli operatori, ma non ha mai avuto una grande diffusione della pratica, forse anche per la concomitante presenza del rito Fornero. Ora che il rito speciale relativo ai licenziamenti è destinato ad essere cancellato, è verosimile immaginare che i due suddetti riti potranno maggiormente esprimere le potenzialità in essi insite.
Mentre, tuttavia, la specificazione relativa al procedimento ex art. 38 cod. pari opportunità appare trovare una spiegazione alla luce della legittimazione ad agire che tale speciale procedimento garantisce a soggetti estranei al rapporto lavorativo, in virtù della plurioffensività che l’atto reca in sé, il richiamo del rito previsto dall’art. 28 d.lgs. n. 150 del 2011 pare caratterizzarsi principalmente in senso favorevole al lavoratore, soprattutto per le attenuazioni probatorie che esso comporta ( ).
Utile, da ultimo, è anche il richiamo all’alternatività dei riti, con conseguente preclusione della possibilità di agire successivamente in giudizio con rito diverso, contenuto sia nella relazione Luiso che negli emendamenti governativi e finalizzato ad evitare il crearsi di sovrapposizioni processuali fonte di possibili complicazioni procedurali, peraltro non utili a fini di una rapida tutela degli interessi sostanziali delle parti.
3. L’ingresso delle misure coercitive. Contrariamente a quel che accade nell’ipotesi stabilita dall’art. 28 St. lav., in cui alla statuizione di antisindacalità della condotta consegue, in caso di inadempimento, una sanzione penale dissuasiva, e nell’ ipotesi di tutela stabilita per il lavoratore sindacalista dall’art. 18, co. 14 Stat. lav. ( ), qualora si sia in presenza, a titolo esemplificativo, di statuizioni di reintegrazione nel posto di lavoro, di ordine di adibizione a mansioni coerenti con il livello di inquadramento o di cessazione della condotta di mobbing, da tempo si dibatte sulla concreta effettività della pronuncia del giudice. Pertanto, spesso si assiste alla proposizione di successivi giudizi volti ad ottenere, quantomeno, il risarcimento per i danni subiti in conseguenza dell’inadempimento. Il che determina una reiterazione di procedimenti, con effetti negativi anche sui carichi di lavoro degli uffici giudiziari. La causa di tale situazione viene attribuita non solo all’infungibilità della prestazione lavorativa, che certo rappresenta un connotato centrale e ineludibile del rapporto di lavoro, ma anche alla tendenza a non introdurre misure di coercizione indiretta nell’ambito del processo del lavoro .
L’esclusione nel corpo dell’art. 614-bis c.p.c. del rito del lavoro è emblematica di tale indirizzo ed è stata letta come sintomatica dell’incapacità del processo di offrire al titolare del diritto una giustizia piena o, rectius, ai sensi dell’art.24 Cost., effettiva ( ). In questo contesto, l’applicazione dell’art. 614-bis al processo del lavoro, non presente nel d.d.l. n.1662 e negli emendamenti governativi, ma proposta dalla Relazione Luiso assecondando un orientamento di politica del diritto già presente in precedenti progetti di riforma ( ), tenta invece di aprire nel nostro processo nuovi spazi di tutela delle posizioni delle parti, in misura decisamente più favorevole ai dipendenti che ai datori di lavoro, atteso che, dal lato aziendale, le misure di coercizione indiretta non sembrano avere che limitata utilità .
Parte della giurisprudenza del lavoro ha già avuto modo di prendere posizione sulla tematica che ci occupa, vale a dire l’eventuale estensione dell’ambito di applicazione dell’art. 614-bis c.p.c. al rito del lavoro, evidenziando come “l’ordinamento attribuisce una specifica rilevanza costituzionale a entrambe le posizioni giuridiche soggettive coinvolte nel rapporto di lavoro”, motivo per cui l’esclusione prevista dall’attuale norma, a mio avviso, non solo non è contrastante con i principi costituzionali ma anche opportuna .
Peraltro, a dimostrazione delle divergenti valutazioni che si fanno sulla questione che ci occupa, va ricordato che altra giurisprudenza ha già utilizzato tale norma anche nel rito del lavoro nonostante che, allo stato, il chiaro tenore letterale della disposizione in esame escluda tale possibilità .
4. La conciliazione, la mediazione e la negoziazione assistita. La materia giuslavoristica, proprio in ragione della peculiare natura dinamica degli interessi coinvolti nel rapporto di lavoro, è spesso portata ad anticipare tendenze latenti nell’ordinamento civilistico generale. Anche con riferimento ai metodi di Alternative Dispute Resolution (ADR), tra i quali rientrano a pieno titolo la conciliazione, la mediazione a scopo di conciliazione e la negoziazione assistita, va rilevata una certa lungimiranza della nostra materia, ove, oltre all’innegabile necessità di deflazionare l’ipertrofico contenzioso giudiziale con il ricorso ai mezzi di giustizia privata, si è da sempre manifestata con particolare forza la necessità, sia per la parte datoriale che per i lavoratori, di comporre stabilmente le controversie in tempi rapidi: tutto ciò, ancora una volta, in ragione della matrice anche collettiva degli interessi coinvolti e dell’importanza di garantire una certezza del diritto “vivente” che possa valere a orientare il comportamento dei consociati facendo affidamento sulla ragionevole prevedibilità delle future decisioni .
In particolare, prima dell’introduzione del d.lgs. n. 28 del 2010, che ha offerto una compiuta regolazione al procedimento di mediazione diretto alla conciliazione delle controversie civili e commerciali in materia di diritti disponibili, con esclusione delle controversie giuslavoristiche , nonché del d.l. n. 132 del 2014 che ha disciplinato il procedimento di negoziazione assistita da avvocati, il precedente più rilevante di composizione stragiudiziale delle controversie può essere senz’altro ricercato, a voler tacere di quanto già previsto dalla normativa processuale del 1942 , nel dettato dell’art. 410 c.p.c.
L’art. 410 c.p.c., come novellato dalla l. n. 533 del 1973 istitutiva del rito del lavoro , aveva infatti introdotto, per le sole controversie di lavoro, la possibilità di esperire un tentativo di conciliazione davanti alle apposite commissioni istituite presso la Direzione Provinciale del Lavoro, reso poi obbligatorio a pena di improcedibilità della domanda giudiziale con il d.lgs. n. 80 del 1988 e nuovamente novellato nell’ambito del c.d. “Collegato Lavoro” (l. n. 183 del 2010), che ne ha da ultimo ripristinato la facoltatività. Oltre che in sede amministrativa, il tentativo di conciliazione può essere esperito in sede sindacale (art. 412-ter c.p.c.), presso gli organi di certificazione istituiti dal d.lgs. n. 276 del 2003, nonché presso un collegio di conciliazione e arbitrato, ai sensi dell’art 412-quater c.p.c. .
Si tratta di regole ben note agli operatori, cui si accompagna, naturalmente, la disciplina stabilita dall’art. 2113 c.c., la quale assicura che la volontà del dipendente venga espressa in maniera genuina e perciò l’assistenza ricevuta in sede protetta ne accerti la piena consapevolezza circa gli atti di disposizione compiuti . Laddove poi la controversia finisca dinnanzi al giudice, trova una spinta verso la composizione bonaria nell’obbligo, previsto, nell’ambito del codice di rito, che il giudice operi nel corso della prima udienza il tentativo obbligatorio di conciliazione tra le parti (art. 420 c.p.c.), anche attraverso la formulazione di una proposta transattiva o conciliativa .
È quindi in questo quadro che deve essere letta e valutata la proposta, formulata dalla Commissione Luiso, che allarga notevolmente la disciplina contenuta nel testo del d.d.l. n.1662, di ricorrere agli istituti di mediazione e negoziazione assistita anche nelle controversie di lavoro, con gli effetti previsti dall’ultimo comma dell’art. 2113 c.c., oltre alla possibilità di esperire la conciliazione di cui all’attuale articolo 411, co. 1, c.p.c. anche direttamente fra le parti assistite ciascuna da un avvocato.
Le tre opzioni di riforma appena elencate possono, da un lato, essere accolte positivamente, in quanto testimoniano la volontà di incrementare le procedure di risoluzione delle controversie alternative al processo, realizzando definitivamente i principi espressi nella direttiva 2008/52/CE relativamente alla necessità di garantire ai cittadini la possibilità di un accesso effettivo alla giustizia, nell’ottica della preservazione concreta dei principi dello Stato di diritto ; dall’altro lato, tuttavia, resta il dubbio che nell’ambito giuslavoristico, che, come abbiamo visto, già conosce da tempo numerosi istituti volti alla composizione stragiudiziale delle controversie, l’introduzione di questi ulteriori mezzi, salvo quello della negoziazione assistita, di cui dirò in prosieguo, possa avere un effetto deflattivo sul contenzioso o non porti invece semplicemente ad allargare un quadro normativo già frammentato.
In particolare, la possibilità di accedere alla mediazione, senza che la stessa costituisca condizione di procedibilità è, come abbiamo detto, positiva, ma l’esperienza insegna che in ambito lavoristico l’intervento di terzi, che non sia il giudice, non sempre agevola la conciliazione. Molto più importante ed efficace è invece, a mio avviso, l’estensione, non prevista nel d.d.l. n.1662 ma prevista anche negli emendamenti governativi, dell’istituto della negoziazione assistita al settore del diritto del lavoro, con gli effetti previsi dall’art.2113, ultimo comma, cod. civ..
Tale questione, infatti, come è stato ampiamente esposto dall’AGI, Avvocati Giuslavoristi Italiani, durante l’audizione del 22 settembre 2020 innanzi 2^ Commissione Giustizia del Senato, proprio relativa all’esame del d.d.l. n.1662, rappresenta da tempo un tema molto importante per gli avvocati che operano nel settore del diritto del lavoro e che hanno ripetutamente proposto, supportati sia dal Consiglio Nazionale Forense che dall’Ocf – Organismo di rappresentanza politica dell’Avvocatura, e con una presa di posizione a favore dell’estensione da parte dell’Associazione Nazionale Magistrati, una soluzione in linea con quella fatta propria dalla Commissione Luiso e dagli emendamenti governativi
Resta naturalmente la questione relativa alla possibilità che le parti impugnino in giudizio la conciliazione, raggiunta a seguito della negoziazione assistita, facendo valere vizi relativi all’assistenza ricevuta. Occorrerà pertanto che i verbali di conciliazione si caratterizzino per un’estrema chiarezza ed analiticità dei contenuti, evitando formulazioni generiche o non chiare che siano suscettibili di ingenerare confusione sul contenuto della transazione e la portata delle rinunce. La chiarezza del testo è, d’altronde, il primo aspetto attraverso il quale la giurisprudenza ha sinora accertato l’esistenza di possibili vizi nella procedura conciliativa . Occorrerà, poi, non trascurare di dare lettura integrale del verbale e di fornirne una copia alle parti, dando loro adeguato spazio per porre domande e ricevere chiarimenti e assicurarsi che la firma avvenga in un contesto di c.d. serenità ambientale, tale per cui le parti non abbiano poi a poter lamentare di essere state oggetto di costrizioni. Peraltro, tutti questi, seppur importanti, sono meri aspetti operativi legati alla realizzazione in concreto di una possibilità di gestione delle controversie sicuramente utile ed opportuna per la realizzazione, nel rispetto della garanzia del contraddittorio, degli obiettivi del d.d.l. n.1662 in esame.