Testo integrale con note e bibliografia
Una prima lettura dell'estratto della relazione della Commissione presieduta dal prof. Luiso e della bozza di articolato sollecita alcune riflessioni, senza pretesa di sistematicità, di taglio eminentemente pratico, suggerite dall'esperienza personale di avvocati giuslavoristi. Non ci sembra, del resto, che il panorama della letteratura in materia di processo del lavoro sia caratterizzato dalla facile disponibilità di dati raccolti e di analisi condotte con adeguato supporto metodologico, che consentano di confortare con i numeri impressioni e valutazioni; e anche gli interventi di modifica proposti e in parte attuati nel corso degli ultimi decenni, sia in ambito processuale sia in ambito sostanziale non ci pare abbiano avuto il conforto di un'analisi approfondita della realtà sociale ed economica (e probabilmente neppure volevano averlo).
Le nostre osservazioni si appuntano su tre temi: l'allargamento alla materia lavoristica di mediazione e negoziazione assistita (in verità della mediazione, citata nella relazione, nella bozza del disegno di legge a nostre mani non abbiamo trovato riscontro), il 'mantenimento in servizio' di strumenti processuali elaborati in risposta all'emergenza pandemica e la soppressione del rito Fornero.
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L'estensione alle controversie di lavoro di mediazione e negoziazione assistita genera in molti degli operatori della materia (Organizzazioni Sindacali in primis) reazioni negative o preoccupate. E' accaduto negli anni scorsi e accade anche ora: alla base di tali reazioni stanno ragioni più o meno nobili, interessi più o meno corporativi, talmente noti che non vale la pena di esaminarli nel dettaglio.
Per la verità, come ricorda Franco Scarpelli in un recente, equilibrato intervento pubblicato su Wikilabour, i mezzi alternativi di risoluzione del contenzioso hanno già ampio spazio nella gestione delle controversie di lavoro: commissioni di conciliazione della Pubblica Amministrazione, spazi conciliativi più o meno strutturati di matrice sindacale, commissioni di certificazione, collegi arbitrali di disparata genesi, sono già inseriti e consolidati, da tempi più o meno recenti, nello strumentario lavoristico.
Del resto, che la composizione conciliativa della lite sia intrinseca al diritto del lavoro lo insegna la storia della materia e lo enuncia il legislatore del 1973, quando pone come primo e necessario atto del magistrato proprio il tentativo di conciliare la lite. Ed è certamente questa la norma (o meglio: crediamo che lo sia, non avendo numeri, ma solo l'esperienza personale) il più preveggente ed efficace mezzo di deflazione del contenzioso che il legislatore abbia sinora ideato.
Aggiungere a quanto già sul campo la negoziazione assistita non dovrebbe dunque generare alcuna reazione anticorpale. Certo, soprattutto per chi era attivo professionalmente già negli ultimi decenni del Novecento, qualsiasi iniziativa che apparentemente introduca un diaframma fra le parti e il giudice del lavoro genera una reazione di allarme. Ci è stato raccontato di aspre contrapposizioni, e addirittura di confronti fisici, quando alla fine degli anni Settanta si voleva dare spazio ad arbitrati extraprocessuali in materia lavoristica; e il sostanziale naufragio delle marginali esperienze nelle quali lo strumento arbitrale si dispiegava in modo effettivo, come nel caso dei collegi arbitrali previsti dai contratti collettivi dei dirigenti, dimostra la spiccata preferenza degli avvocati giuslavoristi per la giurisdizione ordinaria, dopo che la legge del 1973 aveva loro fornito uno strumento processuale di assoluta efficacia sotto tutti i profili.
Ciò detto, se si guarda alla prassi quotidiana, quanto meno in quelle aree del Paese nelle quali, anche per effetto di “bacini d'utenza” di maggiori dimensioni per numero e rilevanza economica, la specializzazione di avvocati e magistrati è maggiore, la gestione negoziata della controversia è già in atto Tant'è che le varie istanze conciliative/arbitrali assumono, nella grande maggioranza dei casi, funzioni di ratifica/certificazione di accordi già raggiunti; e non è infrequente che in sede giudiziale le parti si affaccino alla prima udienza con l'accordo già definito, o che il Giudice deleghi interamente alla capacità degli avvocati la ricerca dell'accordo, o intervenga in veste di mediatore più che di interprete del diritto solo per superare l'ultimo gradino che separa le parti dall'accordo.
Ben venga dunque un riconoscimento ufficiale alla negoziazione assistita anche in materia di lavoro, nella speranza che non si limiti a essere un'altra referenza nel catalogo degli strumenti disponibili, ma priva di reale impatto sui numeri delle liti e sulle esigenze delle parti.
Infatti, ammesso e non concesso che ridurre il contenzioso in sede giudiziale sia davvero un fatto positivo, e non corrisponda invece all'ennesima privatizzazione di un servizio pubblico essenziale che lo Stato non sa gestire, spendendo (e prelevando) quello che è necessario spendere, non pare proprio che lo strumento in sé sia un concreto elemento di novità. Come detto, gli avvocati negoziano tutti i giorni con lo stesso rigore che adottano nella difesa processuale, e gli altri strumenti disponibili non forniscono risultati meno efficaci di quelli che la negoziazione consente di raggiungere: inoppugnabilità, rapida acquisizione dell'efficacia esecutiva, contenimento dei costi, si ottengono anche con gli strumenti già a disposizione, e che abbiamo sopra ricordato.
Vi è quindi il rischio concreto che l'innovazione resti solo formale e priva di un impatto socio-economico apprezzabile, se non addirittura che vada a morire in quella desolata regione nella quale finivano i tentativi obbligatori di conciliazione pre-processuale previsti dal vecchio testo dell'art. 410 cpc.
A nostro parere, se si vuol dare forza all'innovazione, una leva efficace potrebbe essere quella fiscale. Ma non solo sul terreno della defiscalizzazione dei costi del procedimento, prevista dalla bozza di riforma, quanto piuttosto sul terreno di un trattamento fiscale agevolato delle somme erogate sulla base dell'accordo, secondo lo schema già previsto dall'art. 6 D. Lgs. 23/2015 per favorire la conciliazione nelle controversie relative ai licenziamenti nell'area delle tutele crescenti, che nella prassi quotidiana ha contribuito al raggiungimento i numerosi accordi in sede stragiudiziale. Inoltre, laddove la tematica fosse quella della cessazione del rapporto di lavoro, sarebbe incentivante una previsione, come quella prevista dal novellato art. 7 della L. 604/66, che consenta l'accesso alla NASPI anche in caso di risoluzione consensuale.
Non che le questioni associate alle spese di procedura siano prive di rilievo: a ben vedere, oggi, uno dei più efficaci incentivi a ricorrere a mezzi alternativi di risoluzione delle liti è la gestione delle spese processuali da parte dei Giudici del lavoro, che - a prescindere dalla valutazione che si possa dare delle modifiche normative intervenute negli ultimi anni - appare caratterizzata, quanto meno nell'esperienza di chi scrive, da disomogeneità e imprevedibilità che disincentivano il ricorso alla giustizia ordinaria.
Infine, se vogliamo rimuovere i pregiudizi circa il grado di tutela garantito alle parti dagli strumenti alternativi di risoluzione delle liti, occorrerebbe implementare un sistema di controllo, quantomeno a posteriori, sull'attività svolta da tutti gli operatori (e non solo dagli avvocati) in tutti gli ambiti di composizione sopra ricordati. Ancorché la sensazione sia che, almeno nelle aree del mercato (vuoi territoriali vuoi settoriali) nelle quali i lavoratori hanno facile accesso a fonti informative attendibili, i comportamenti corretti siano ampiamente prevalenti, non si deve contare esclusivamente sul senso di responsabilità dei singoli e deve essere previsto un meccanismo di verifica anche a campione (come avviene per esempio per gli atti notarili), assistito da sanzioni disciplinari/economiche. Non si tratta ovviamente di mettere in questione (se non con gli ordinari mezzi previsti dal codice civile in materia di vizi della volontà) l'inoppugnabilità degli accordi, quanto piuttosto di responsabilizzare gli operatori, né più né meno di quanto accade per altre categorie professionali, e di rendere punibili i comportamenti devianti, specie se posti in essere ai danni dei soggetti più deboli.
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Il bisogno generato dalla pandemia ha agito come catalizzatore di risposte organizzative a esigenze già presenti, ma ritenute secondarie, vuoi per pigrizia vuoi per 'benaltrismo'.
Gli avvocati (e i magistrati) così come si sono accorti, dopo aver sollevato infinite obiezioni, che il processo telematico, pur con tutti i suoi limiti e bachi, ha rivoluzionato positivamente la pratica quotidiana, allo stesso modo, posti di fronte allo stato di necessità, hanno constatato che per dialogare tra loro non è necessario né sempre opportuno spostarsi per centinaia di chilometri e dedicare intere giornate al viaggio, magari solo per riportarsi agli atti; e, insieme con i magistrati, hanno preso maggior coscienza che lo scambio di informazioni organizzative via e-mail fra i diversi attori del processo si traduce in risparmio di tempo e di fatica e contribuisce a un positivo risultato.
La pandemia ci ha consentito di capire che per numerosi incombenti processuali la differenza fra udienza “in presenza” e udienza “da remoto” è solo nominale. E il nuovo galateo dell'udienza da remoto, con il suo svolgersi in modo necessariamente ordinato, senza sovrapposizioni o interruzioni, e anche con una maggiore attenzione alla gestualità (evidenziata dalla contemporanea presenza a video di tutti i partecipanti), rappresenta una spinta a una condotta processuale più attenta e consapevole e a una riflessione sul modo di proporsi agli interlocutori.
Lo strumento ha certamente i suoi limiti.
In primo luogo la desertificazione dei corridoi del Tribunale non può essere considerata un fatto positivo. La rete relazionale che si rafforza nell'incontro, anche casuale, con i colleghi e con i magistrati rappresenta un momento di scambio essenziale al buon funzionamento della giustizia, oltre che al piacere del lavoro, è spesso utile allo scambio di informazioni, alla ricerca di soluzioni, e complessivamente giova al funzionamento della giustizia e dunque alle parti.
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L'udienza da remoto mostra poi i suoi limiti in occasione dell'avvio del processo e del tentativo di conciliazione. L'impressione di impoverimento del contenuto, delle sfumature e, anche, della sacralità del luogo Tribunale e della funzione del magistrato, riducono la chance di buon esito del tentativo di conciliazione.
Anche quando la consuetudine fra avvocati e magistrato, maturata negli anni, attenua questo impoverimento, resta il fatto che le parti difficilmente percepiscono l'autorità e la fisicità del giudice. Nella nostra esperienza, questo genera negli assistiti reazioni contraddittorie: o la sottovalutazione del ruolo del giudice, ridotto a mera presenza visiva, che non può “competere” con la presenza fisica dell'avvocato; o, al contrario l'incorporeità e la distanza trasformano il giudice in una figura oracolare.
Dunque, un sempre più diffuso impiego dei mezzi di comunicazione audiovisiva è sicuramente auspicabile, ma i momenti di confronto diretto non dovranno essere soppressi, pena l'impoverimento dell'intero procedimento. Saranno importanti la sensibilità del magistrato e quella degli avvocati per trovare il punto di bilanciamento fra le diverse esigenze da salvaguardare, utilizzando con sagacia (e moderazione) il meccanismo di 'veti incrociati' che il progetto di intervento consolida.
Positiva, poi, l'idea – contenuta nella relazione - di consentire, attraverso modalità che garantiscano la genuinità della deposizione, l'escussione da remoto dei testimoni. Ciò consentirebbe di superare i costosi disagi di lunghe trasferte dei testimoni, che possono tradursi oggettivamente in limitazioni del diritto di difesa delle parti meno abbienti o comunque in allungamenti dei tempi processuali derivanti dalla comprensibile riottosità dei testi a sobbarcarsi i disagi, oltre ad più rispettoso delle loro esigenze di vita.
Rispetto ad altre soluzioni – pensiamo alla prova delegata e al deposito di dichiarazioni scritte – vi è l'indiscutibile vantaggio del dialogo diretto fra teste e giudice chiamato a decidere la causa.
Esperienza invece a nostro parere totalmente negativa – almeno nell'ambito del rito speciale - è quella del ricorso alla trattazione scritta.
In alcuni casi, lo strumento è palesemente privo di senso: si pensi all'udienza di discussione in Corte d'appello, negli ultimi mesi spesso sostituita da note scritte. Vengono soppressi i due fondamentali momenti di oralità, la relazione e la discussione, privando il procedimento d'appello dei suoi punti di elasticità e ingessandolo negli atti scritti. Oltretutto la parte appellata si trova a non poter far altro che ribadire le conclusioni rassegnate solo dieci giorni prima, all'atto della costituzione; mentre la parte appellante è posta in grado, lei sola, di avere l'ultima parola su quanto dedotto dall'appellato.
L'oralità è sempre stata riconosciuta come punto di forza del processo del lavoro; il ritorno in auge degli scritti è un reazionario invito alla ripetitività, che pare avere quale unico vantaggio quello esonerare i magistrati dalla talora fastidiosa e verbosa presenza degli avvocati.
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Non possiamo dire che nell'esperienza milanese il rito introdotto dalla L. 92/2012 abbia dato cattiva prova di sé: ma questo, crediamo, perché l'innesto è stato operato sul ceppo di una organizzazione del Tribunale del lavoro e di un'attività dei giudici che già garantivano sin dagli anni '70 rapidità ed effettività dell'attività giurisdizionale. In altri tribunali, l'impatto della riforma, se ha sovente anticipato i tempi di avvio dei procedimenti aventi per oggetto i licenziamenti, non ha però avuto impatto sui tempi della loro conclusione.
Il rito Fornero ha ovviamente generato tutti i problemi che seguono l'introduzione di un nuovo rito: incertezze sui procedimenti, interpretazioni contrastanti, proliferare di eccezioni più o meno fondate. Insomma, tutto quel corteo di effetti collaterali negativi che ci si può aspettare dall'introduzione di un nuovo rito e che dovrebbero consigliare di evitarlo, laddove tale innovazione non sia strettamente necessaria.
Nel caso del processo del lavoro possiamo dire che necessaria non fosse. Sennonché abbiamo tutti potuto constatare come sovente la risposta alle carenze di struttura o funzionali, anziché consistere in investimenti tecnologici, assegnazione di risorse e formazione degli operatori, è la modifica delle regole del gioco, nella speranza (vana) che possa da sola migliorare la realtà.
L'abrogazione di un procedimento speciale innestato all'interno di un rito speciale non genera nostalgia, e la sua sostituzione con interventi organizzativi come quelli proposti nella bozza di disegno di legge è un passo nella giusta direzione, cui speriamo vengano affiancati adeguati investimenti in termini di risorse umane e tecnologia.