Testo integrale con note e bibliografia
1.-Premessa.
L’inserimento nel codice di procedura civile di ben quindici nuovi articoli, dall’art. 840 bis all’art. 840 sexiesdecies, avvenuto per mano della l. 31/2019, ha determinato, nell’intenzione del legislatore, una sorta di fresh start della tutela giurisdizionale collettiva.
La scelta è consistita nell’adozione di due nuovi strumenti, l’azione di classe risarcitoria e l’azione inibitoria, che dovrebbero assurgere al rango di rimedi generali nei confronti di condotte giuridiche plurioffensive.
La l. 31/2019 ha avuto una lunga vacatio ed è entrata in vigore soltanto nel maggio del 2021.
Le sue potenzialità applicative appaiono ancora in parte inespresse alla luce del grave ritardo dei Ministeri competenti ad attuare quanto previsto dall’art. 196 ter disp. att. c.p.c. .
Peraltro, occorre segnalare il rischio che, per adeguarne i contenuti a quanto disposto dalla direttiva UE 1828/2020 , entro la fine del 2023 il legislatore sia chiamato a porre mano alle disposizioni codicistiche.
A tanto si aggiunga l’ormai imminente riforma del processo civile, che avrà luogo in attuazione della legge delega n. 206/2021, e il cui impatto sull’impianto degli art. 840 bis e ss. c.p.c. appare ancora difficilmente preconizzabile.
La novità dei nuovi strumenti di tutela giurisdizionale collettiva messi a disposizione degli operatori, la significativa complessità delle regole processuali, l’applicabilità limitata esclusivamente agli illeciti commessi successivamente all’entrata in vigore (maggio 2021) , appaiono ragioni in grado di giustificare la scarsissima applicazione fattane nei pochi mesi di vita: il sistema di pubblicità degli atti e dei provvedimenti – messo a punto dal legislatore – consente infatti a chiunque di verificare la pendenza delle azioni collettive in parola e, alla metà del mese di dicembre 2021, risultano pendenti due azioni di classe, una davanti al Tribunale di Roma, l’altra davanti al Tribunale di Catania.
Occorre precisare che, per quanto riguarda l’azione inibitoria, il sistema di pubblicità è, stando al tenore letterale dell’art. 840 sexiesdecies, 4° comma, c.p.c., che richiama l’art. 840 quinquies c.p.c., limitato alla decisione «che accoglie o rigetta nel merito la domanda», ma sul portale ministeriale, per qualche misterioso motivo, per alcuni giorni è stata data notizia, con relativa pubblicazione dell’atto introduttivo, della proposizione davanti alla sezione specializzata in materia di impresa del Tribunale di Milano, di un ricorso ex art. 840 sexiesdecies c.p.c., da parte di un lavoratore nei confronti di una grande azienda che organizza servizi di consegne a domicilio.
Dalla consultazione del portale, emerge che l’azione proposta davanti al Tribunale di Roma è anch’essa una inibitoria collettiva e anch’essa atteneva alla materia del lavoro.
Delle tre azioni di cui si è avuta notizia, dunque, due sono inibitorie ed entrambe sono riconducibili all’ambito di applicazione dell’art. 409 c.p.c.
All’indomani della promulgazione della l. 31/2019 e durante i due anni di vacatio, da più parti ci si è chiesti se l’affrancamento dell’azione di classe dalla sedes consumeristica (in virtù dell’abrogazione dell’art. 140 bis cod. consumo) e la neutralità dei nuovi strumenti processuali, collocati non a caso nel codice di procedura civile, potesse giustificare l’estensione della loro applicazione anche a controversie di lavoro (e previdenziali), le quali, ontologicamente, presentano con maggior frequenza i connotati della serialità, della comunanza di questioni di fatto e di diritto, della omogeneità delle pretese, della comunanza di interessi di una pluralità di individui alla uniforme regolamentazione dei rapporti giuridici .
Vale dunque la pena cogliere l’occasione per indicare, in estrema sintesi, cos’è l’azione inibitoria collettiva e chiedersi se, in concreto, esistano margini di compatibilità con la trattazione di controversie di lavoro o se gli ostacoli tecnici suggeriscano soluzioni alternative.
2.- La struttura dell’azione inibitoria collettiva e del suo processo.
La tutela collettiva si atteggia in modi diversi a seconda che sia strumentale ad evitare il verificarsi della condotta plurioffensiva, ovvero a garantire il giusto ristoro ai soggetti da essa individualmente colpiti .
Nel primo caso, viene in rilievo l’interesse comune (definito superindividuale, collettivo o diffuso, a seconda dei casi) alla cessazione o alla non reiterazione di una condotta illecita, indipendentemente dal fatto che questa abbia prodotto un danno: il rimedio è l’inibitoria.
Nel secondo caso, vengono in rilievo i diritti soggettivi omogenei di una pluralità di individui già colpiti dall’illecito e quindi danneggiati: in tal caso, l’azione di classe consente (rectius, dovrebbe consentire, in modo efficiente) di veicolare all’interno di un unico processo tutte le pretese risarcitorie e restitutorie omogenee, aggirando l’applicazione delle regole del processo litisconsortile, e quindi attraverso un giudizio che si svolga uno contro uno, ma il cui esito finale vincoli – tanto in utilibus quanto in damnosis – tutti coloro i quali si trovano in una situazione omogenea a quella dell’attore.
Concentrando l’attenzione sull’azione inibitoria collettiva , occorre, in via preliminare, essere consapevoli di trovarsi al cospetto di un efficace – e forse il più efficace, almeno fino a quando il nostro ordinamento si ostinerà a non ammettere la tecnica dell’opt out per l’azione risarcitoria – strumento di perequazione economica, dato che, in alcuni casi, i vantaggi che un’impresa è in grado di trarre dal protrarsi di una condotta illecita sono superiori ai costi che questa corre il rischio di sostenere nel caso in cui debba far fronte al risarcimento di tutti i danni prodotti.
L’art. 840 sexiesdecies, 1° comma, c.p.c. stabilisce che «chiunque abbia interesse alla pronuncia di una inibitoria di atti e comportamenti, posti in essere in pregiudizio di una pluralità di individui o enti, può agire per ottenere l'ordine di cessazione o il divieto di reiterazione»; il secondo periodo del medesimo 1° comma prevede che le organizzazioni e le associazioni senza scopo di lucro, purché iscritte nell’elenco pubblico di cui al comb. disp. degli art. 840 bis, 2° comma, c.p.c. e 196 ter, disp. att., c.p.c., sono legittimate parimenti ad agire.
Da un lato, quindi si aderisce al modello, assai noto al nostro ordinamento, dell’individuazione di un ente esponenziale quale soggetto legittimato alla proposizione dell’azione (v., ad es., art. 2601 c.c., art. 28 st. lav.); dall’altro si estende la legittimazione a chiunque abbia interesse, ammettendo – probabilmente – che ad agire possa essere anche un singolo, persona fisica o giuridica, che tema di subire un pregiudizio dall’illecito in essere o che lo abbia già subito e ambisca ad ottenere la cessazione della condotta o ad evitarne la reiterazione.
Sin qui, non sembrano emergere ragioni per escludere i lavoratori o le organizzazioni sindacali dalla categoria dei legittimati.
L’azione inibitoria, al pari di quella di classe, vede come contraddittori le imprese, gli enti gestori di servizi pubblici o di pubblica utilità «relativamente ad atti e comportamenti posti in essere nello svolgimento delle loro rispettive attività»; parrebbe sostenibile la proponibilità dell’azione nei confronti di soggetti qualificabili come datori di lavoro che svolgano attività di impresa, ma anche nei confronti di enti previdenziali e assistenziali.
L’art. 840 sexiesdecies c.p.c. fa riferimento alla condanna alla cessazione di condotte omissive o commissive; pur difettando ogni riferimento alla non reiterazione di comportamenti adottati in passato ma suscettibili di applicazione in futuro, la lacuna potrebbe considerarsi colmabile in via interpretativa, come accaduto, per esempio, con l’applicazione dell’art. 28 st. lav.
Che l’inibitoria rientri nell’alveo della tutela di condanna è quindi positivizzato e confermato dalla adottabilità del provvedimento ex art. 614 bis c.p.c.; peraltro, la precisazione per cui il tribunale può corredare la decisione da misure coercitive «anche fuori dei casi ivi previsti» sembrerebbe lasciare uno spiraglio per l’applicazione dell’esecuzione forzata indiretta anche alle condanne emesse nell’ambito di controversie ex art. 409 c.p.c. .
L’attore può domandare al giudice di «ordinare che la parte soccombente adotti le misure idonee ad eliminare o ridurre gli effetti delle violazioni accertate». Si tratta di una formula già ben nota alla tradizione delle inibitorie consumeristiche e che evoca le c.d. misure ripristinatorie, la cui funzione non è, tradizionalmente, di facile comprensione .
Quanto alla competenza, il criterio è identico a quello stabilito per l’azione di classe e prevede che la domanda sia proposta «esclusivamente dinanzi alla sezione specializzata in materia di impresa competente per il luogo dove ha sede la parte resistente».
Non è regolata espressamente l’esperibilità dell’inibitoria in via cautelare ma, anche alla luce della previsione superstite contenuta nell’art. 37, 2° comma, cod. consumo, non ci sono motivi per dubitare della possibilità che l’inibitoria possa essere concessa in sede cautelare; probabilmente, la mancanza di una norma ad hoc finirà per subordinarne l’ammissibilità alle condizioni dell’art. 700 c.p.c.
In difetto di espressa esclusione , qualora l’inibitoria dovesse riguardare alcuna delle materie per le quali l’art. 5, comma 1 bis, d.leg. 150/2011 prevede la mediazione come obbligatoria , questa dovrebbe operare come condizione di procedibilità; nessuna esclusione è prevista nemmeno per la disciplina della negoziazione assistita, ma, in tal caso, la natura delle controversie per cui l’art. 3 d.l. 132/2014 ne prescrive l’obbligatorierà, avendo ad oggetto pagamento di somme di denaro, appare incompatibile con l’oggetto dell’inibitoria.
Quanto alle forme del procedimento, la scelta del legislatore è caduta sul rito camerale ex art. 737 e ss. c.p.c., la cui applicazione è richiamata in quanto compatibile; sulla base, dunque, del c.d. «contenitore neutro» si innesta la richiamata applicazione dell’art. 840 quinquies c.p.c. «in quanto compatibile».
Sembrerebbe esclusa l’applicazione del 1° comma; il 2° comma è certamente applicabile; il 3° comma che introduce la regola per cui l’acconto da corrispondere al consulente tecnico d’ufficio deve essere versato, salvo specifici motivi, dal resistente, non sembra incompatibile con la ratio dell’inibitoria; il 4° comma non dovrebbe rilevare, giacché identica previsione, relativa alla possibilità del giudice di avvalersi di dati statistici e presunzioni è prevista dall’art. 840 sexiesdecies, 5° comma, c.p.c.; i commi dal 5° al 13° paiono tutti compatibili, giacché si riferiscono alla disciplina dell’ordine di esibizione; l’ultimo comma dell’art. 840 quinquies c.p.c. prevede le forme della diffusione della sentenza affidate alla pubblicazione sul portale del Ministero della giustizia, mentre l’8° comma dell’art. 840 sexiesdecies c.p.c. dispone che «il giudice, su istanza di parte, condanna la parte soccombente a dare diffusione del provvedimento, nei modi e nei tempi definiti nello stesso, mediante utilizzo dei mezzi di comunicazione ritenuti più appropriati»: è ragionevole ipotizzare una non incompatibilità tra le due forme di pubblicità.
L’unica disposizione relativa ai rapporti tra azione inibitoria e altre azioni è quella contenuta nel penultimo comma dell’art. 840 sexiesdecies c.p.c., in cui si esclude la trattabilità congiunta della prima con l’azione di classe. La ratio di evitare di appesantire la causa inibitoria con le lungaggini e le complessità dell’azione risarcitoria collettiva è evidente e, per il resto, dovrebbero trovare applicazione le regole generali.
3.- Compatibilità con le controversie di lavoro.
L’esclusione della possibilità di proporre azioni inibitorie collettive nell’ambito di controversie attinenti a rapporti di lavoro ex art. 409 c.p.c. avrebbe il sapore della sconfitta, giacché, come detto, proprio il contenzioso lavoristico (ma anche, mutatis mutandis, quello previdenziale) hanno svolto un significativo ruolo di “incubatrice” delle tecniche di tutela giurisdizionale collettiva, nel nostro ordinamento.
Sembra dunque opportuno esplicitare, sin da subito, l’opzione di valore sottesa all’interrogativo circa l’applicabilità dei nuovi strumenti alla materia del lavoro.
Concentrando l’attenzione sull’inibitoria collettiva, può essere utile tener a mente che, per lo meno dall’inizio del XX secolo, non sembra più dubitabile che il nostro sistema di tutela giurisdizionale si fondi sul principio (o valore) della atipicità dell’azione civile. Sennonché, sul piano del mero diritto positivo, all’interprete capita di imbattersi in azioni c.d. tipiche, che, secondo l’interpretazione prevalente, sono quelle in cui la legge predetermina i soggetti legittimati ad agire, i rimedi conseguibili e, talvolta, le forme processuali che regolano l’azione .
Non potendo che rinviare ad altri e più approfonditi studi sul punto , con l’art. 840 sexiesdecies c.p.c. la legge individua un rimedio specifico (l’inibitoria), ma non i soggetti legittimati, giacché l’espressione «chiunque vi abbia interesse» appare molto più prossima al «tutti» con cui esordisce l’art. 24 Cost. (fondamento – inter alia – della atipicità dell’azione) che ai casi (ad es. art. 28 st. lav.) in cui le maglie della legittimazione vengono ristrette; sono dettate invece le forme processuali, appunto, camerali, con le varianti indicate supra, e i criteri di competenza.
In astratto, si potrebbe sostenere che il legislatore abbia voluto introdurre nell’ordinamento un’azione tipica, dettando per la sua trattazione forme speciali.
Ebbene, tali forme sono derogabili? Id est, se l’inibitoria avesse ad oggetto la cessazione di una condotta rilevante nell’ambito di rapporti ex art. 409 c.p.c., il rito del lavoro dovrebbe cedere il passo al rito camerale “speciale” dell’art. 840 sexiesdecies c.p.c. e ai relativi criteri di competenza ivi previsti?
E se sì, sarebbe consentito al collegio, alla luce della formulazione amplissima degli art. 737 c.p.c. rispetto ai relativi poteri, esercitare le prerogative, tipiche del giudice del lavoro, di cui agli art. 421 e 425 c.p.c.?
Con riferimento ai primi due quesiti, viene in rilievo che l’attribuzione della competenza alla sezione specializzata in materia di impresa parrebbe mettere fuori gioco i criteri stabiliti dall’art. 413 c.p.c.
L’intreccio tra competenza e rito impone di scegliere tra varie opzioni interpretative, che, ad una prima lettura, appaiono tutte plausibili:
1. alla luce della specialità dell’art. 413 c.p.c., che non potrebbe considerarsi derogato da una disciplina che, ancorché successiva, appare generale, nonché del favor lavoratoris, il foro competente dovrebbe essere quello regolato dall’art. 413 c.p.c. , e allora:
1.a. l’azione inibitoria dovrebbe essere proposta dinanzi alla sezione lavoro, con l’applicazione del rito camerale;
1.b. l’azione inibitoria dovrebbe essere proposta dinanzi alla sezione lavoro, con l’applicazione del rito del lavoro, nel quale innestare le regole speciali dall’art. 840 sexiesdecies c.p.c.;
1.c. l’azione inibitoria dovrebbe essere proposta dinanzi alla sezione specializzata in materia di impresa, ma identificata secondo i criteri di competenza territoriale dell’art. 413 c.p.c., e trattata con le forme dell’art. 840 sexiesdecies c.p.c.;
1.d. l’azione inibitoria dovrebbe essere proposta dinanzi alla sezione specializzata in materia di impresa, ma identificata secondo i criteri di competenza territoriale dell’art. 413 c.p.c., e trattata con le forme del rito del lavoro su cui innestare le regole speciali dell’art. 840 sexiesdecies c.p.c.
2. Il foro competente dovrebbe essere sempre quello della sede dell’impresa, e allora:
2.a. l’azione di classe dovrebbe essere instaurata dinanzi al giudice del lavoro del tribunale presso cui è la sezione specializzata in materia di impresa competente;
2.a.1. il giudice del lavoro dovrebbe applicare il rito del lavoro, integrato ad hoc dalle norme dall’art. 840 sexiesdecies c.p.c.;
2.a.2. il giudice del lavoro dovrebbe applicare il rito regolato dall’art. 840 sexiesdecies c.p.c.;
2.b. l’azione dovrebbe essere instaurata sempre dinanzi alla sezione specializzata competente per territorio e la causa trattata comunque sempre con le forme dell’art. 840 sexiesdecies c.p.c.
In ogni caso, né l’errore sulla competenza, alla luce dei principii generali indicati nell’art. 38 c.p.c., né l’errore sul rito dovrebbero mai pregiudicare il conseguimento di una decisione di merito.
Infatti, se erroneamente introdotta con forme diverse da quelle dell’art. 840 sexiesdecies c.p.c., dovrebbero trovare applicazione i principii generali espressi dalle norme in tema di mutamento di rito di cui agli art. 281 septies e 281 octies, c.p.c., agli art. 426, 427, 439 c.p.c. nonché, se del caso, dell’art. 4 d. lgs. 150/2011; anche l’art. 183 bis c.p.c. potrebbe costituire un indice interpretativo in questo senso.
Qualora, viceversa, la causa dovesse essere erroneamente introdotta con le forme del rito ex art. 840 sexiesdecies c.p.c., non per ciò solo il processo dovrebbe chiudersi con una pronuncia in rito.
Nel caso in cui a prevalere fosse la competenza della sezione specializzata e quindi si preferisse applicare, in ogni caso, dell’art. 840 sexiesdecies c.p.c., l’ampiezza dei poteri che gli art. 737 e ss. c.p.c. attribuiscono al collegio dovrebbe consentirgli di esercitare tutti i poteri che il giudice del lavoro si vede riconosciuti dal modello del processo di cui agli art. 413 e ss. c.p.c.
Un’ultima notazione è imposta dall’ultimo comma dell’art. 840 sexiesdecies c.p.c., il quale dispone che «sono fatte salve le disposizioni previste in materia dalle leggi speciali».
La portata precettiva parrebbe riguardare i casi in cui, extra codicem, il legislatore ha regolato azioni inibitorie collettive, le quali non possono considerarsi abrogate: si pensi, per la materia del lavoro, all’art. 28 st. lav., ma anche all’art. 28 d. leg. 150/2011 e al suo ampio ambito di applicazione.
Il dubbio, semmai, concerne il regime di derogabilità delle disposizioni speciali preesistenti a quella dell’art. 840 sexiesdecies c.p.c.: occorre chiedersi cioè se, a fronte della previsione di una inibitoria speciale, le forme dettate per la sua proposizione costituiscano l’unica via o se l’azione possa, alternativamente e a scelta dell’attore, essere proposta con le forme generali della disposizione codicistica.
Un indice interpretativo per risolvere il quesito può forse trarsi dall’ormai acquisita proponibilità dell’azione per la repressione della condotta antisindacale con le forme del processo di cognizione piena ex artt. 413 e ss. c.p.c. e quindi dalla derogabilità del rito sommario disciplinato dall’art. 28 st. lav.