Testo integrale con note e bibliografia
1.- Gli interessi collettivi del lavoro e il processo.
«Il collettivo è un dato pregiuridico cui il legislatore non permette di uscire dall’informalità del sociale senza prendere le precauzioni opportune». Scriveva così Umberto Romagnoli ancora nel 2008, in occasione del ventennale della rivista Lavoro e Diritto, significando la distanza tra l’interesse collettivo dei lavoratori, alla base dell’organizzazione e dell’azione collettiva a tutela del lavoro, e l’impianto rigorosamente individualistico del processo (anche) del lavoro in cui i diritti lesi e gli interessi offesi dovrebbero trovare tutela .
Tale impianto non è stato messo in discussione dall’introduzione, per mano dell’art. 28 dello Statuto dei lavoratori, di un innovativo meccanismo processuale che ha permesso agli interessi e soggetti collettivi di accedere al processo come tali, senza essere dissolti in interessi e soggetti individuali . Il procedimento per la repressione della condotta antisindacale è rimasto a lungo esemplare “esotico” nella galleria dei mezzi di tutela giudiziale. E solo in tempi più recenti esso è divenuto meno solitario, se si pensa alle «tracce» di tutela giurisdizionale collettiva comparse nel diritto del lavoro, in particolare nel diritto antidiscriminatorio, in cui la disciplina (spesso di derivazione eurounitaria) ha individuato ipotesi di legittimazione sindacale iure proprio a tutela di interessi collettivi , ma anche nelle controversie relative al rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti, sebbene in misura mediata (e dunque, limitata) attraverso l’accertamento pregiudiziale sull’interpretazione, validità ed efficacia del contratto collettivo . Per tacere delle aperture giurisprudenziali alla costituzione di parte civile del sindacato nel processo penale, in quanto titolare di un interesse proprio alla tutela della salute dei lavoratori .
In questo quadro si innesta oggi la riforma della l. n. 31/2019 (entrata però effettivamente in vigore solo il 19 maggio 2021), che ha introdotto nel libro IV del codice di procedura civile un titolo VIII-bis sui «procedimenti collettivi», comprendente un’«azione di classe» di tipo risarcitorio (art. 840-bis c.p.c.) e un’«azione inibitoria collettiva» (art. 840-sexdecies c.p.c.): entrambi gli strumenti, fuoriuscendo dalla originaria collocazione nell’ambito della tutela consumeristica, hanno ottenuto un’assai più ampia definizione della fattispecie protetta – la lesione di diritti individuali omogenei per la prima, il comportamento lesivo di una pluralità di individui ed enti la seconda – ed una altrettanto estesa titolarità attiva, individuata nel singolo componente della “classe” così come dell’organizzazione o associazione senza scopo di lucro i cui obiettivi statutari comprendano la tutela dei diritti e degli interessi lesi. È assai singolare che la dottrina giuslavoristica abbia mostrato, con poche eccezioni , scarso interesse nei confronti della riforma, non cogliendone le sue potenzialità, spaventata magari dalla complicata, e confusa, scrittura delle norme o anche solo dall’attribuzione della competenza al Tribunale Civile, melius alla sezione specializzata in materia di impresa competente per il luogo dove ha sede l’impresa o l’ente coinvolto in giudizio, e dunque a un giudice poco avvezzo non solo al rito del lavoro ma alla stessa consuetudine con quell’interesse collettivo, pilastro della nostra disciplina.
Eppure, l’azione inibitoria collettiva è direttamente influenzata dall’art. 28 St. lav., quando prospetta che il giudice ordini la cessazione e il divieto di reiterazione di condotte, commissive o omissive, pregiudizievoli degli interessi – pur non esplicitamente chiamati “collettivi” – riferibili alla pluralità dei componenti della classe; e allo stesso modo, lo strumento ricorda non solo la norma statutaria ma anche il più moderno diritto antidiscriminatorio, quando prevede un onere probatorio agevolato, che fa riferimento ai dati statistici e alle presunzioni semplici; e compie addirittura un salto in avanti nella effettività della protezione, dando al giudice la possibilità di accompagnare l’ordine di cessazione della condotta con il provvedimento coercitivo ex art. 614-bis c.p.c., di cui il diritto del lavoro non si è potuto sin ad oggi avvalere.
Il ricorso ex art. 840-sexdecies, recentemente proposto innanzi al Tribunale di Milano da Nidil Cgil Palermo, Filcams Cgil Palermo e Filt Cgil Palermo a tutela dei riders di Deliveroo, in relazione all’applicazione del Ccnl Assodelivery-Ugl Rider sottoscritto il 15 settembre 2020, offre giusta occasione per valutare, prima ancora che la tenuta del nuovo procedimento, la sua disponibilità a includere, sotto il suo ombrello protettivo, gli interessi collettivi dei lavoratori.
2.- La legittimazione ad agire del sindacato nell’azione di classe e nell’inibitoria collettiva.
Una prima questione riguarda la possibilità di un effettivo riconoscimento in capo al sindacato della titolarità della nuova azione collettiva, tanto nella sua prospettiva risarcitoria (art. 840-bis, secondo comma) quanto in quella inibitoria (art. 840-sexdecies, primo comma): in entrambi i casi, invero, il riferimento normativo non è semplicemente alle organizzazioni o associazioni «senza scopo di lucro i cui obiettivi statutari comprendano» la tutela di diritti individuali omogenei, ma «esclusivamente» a quelle iscritte in un elenco pubblico istituito presso il Ministero della giustizia.
La questione non è certamente secondaria se si considera non solo che sono state proprio le organizzazioni sindacali le prime ad avvalersi, quasi esclusivamente, del nuovo rimedio, ma ancor più che i pochi ricorsi sono stati proposti, all’indomani dell’entrata in vigore della riforma, nel “vuoto” di un decreto ministeriale non ancora emanato, la cui bozza però, già circolata tra gli addetti ai lavori, parrebbe tuttavia escludere proprio tali corpi intermedi . Nello schema di decreto, infatti, la definizione delle organizzazioni e associazioni si “sovrappone” a quella di enti del terzo settore, individuati dal d.lgs. n. 117/2017, con la possibilità che questo implichi anche il riferimento al secondo comma dell’art. 4 del decreto, che esclude esplicitamente i sindacati dal novero degli Enti accreditati. E peraltro, nell’unica inibitoria collettiva ad oggi conclusa, seppure per intervenuta cessazione della materia del contendere, il difetto di legittimazione attiva del sindacato è stato sollevato proprio sul presupposto dell’assenza della regolamentazione ministeriale .
Il problema va affrontato su un duplice piano, dando naturalmente per scontato che non si può non riconoscere all’organizzazione sindacale la qualità di soggetto senza scopo di lucro, esponenziale degli interessi (non solo individuali, ma anche omogenei) dei propri rappresentati, la cui tutela rientra negli obiettivi della stessa organizzazione . Bisogna in altri termini ragionare: a) sulla effettiva necessità del richiamato decreto ai fini della operatività della novella e b) sulla possibilità che esso vada a ritagliare un campo soggettivo di applicazione più ristretto di quello immaginato dal rinvio legale.
Quanto al primo punto, è l’art. 196-ter disc. att. c.p.c., introdotto dalla stessa l. n. 31/2019, a far luce sulla ratio della previsione di un apposito elenco degli enti e delle associazioni legittimate, chiamando il decreto ministeriale a fissare i requisiti per l’iscrizione, tra cui devono ricomprendersi «la verifica delle finalità programmatiche, dell’adeguatezza a rappresentare e tutelare i diritti omogenei azionati e della stabilità e continuità delle associazioni e delle organizzazioni stesse, nonché la verifica delle fonti di finanziamento utilizzate». La selezione prospettata dalla norma istitutiva dell’albo serve a verificare l’effettiva capacità dei soggetti potenzialmente legittimati all’azione a rappresentare gli interessi della classe, evitando che l’azione sia data nelle mani di soggetti in cerca solo di pubblicità.
Se, dunque, l’accesso all’azione collettiva si fonda, sotto il profilo soggettivo, su un requisito di adeguatezza della rappresentanza, sulla falsariga del modello dell’adequacy della class action nordamericana , esso non costituisce in fondo una novità per la tutela dei diritti (anche) del lavoro: diverse sono le norme che richiamano, ai fini della garanzia della adeguata rappresetatività degli interessi in gioco, l’iscrizione elenchi variamente denominati. Si pensi all’art. 5, d.lgs. n. 215/2003, che in materia di discriminazione per razza e origine etnica prevede la legittimazione attiva di enti e associazioni iscritte in un elenco approvato con decreto ministeriale; analoghe previsioni, sempre del diritto antidiscriminatorio, ma fuori dalle relazioni di lavoro, sono contenute anche all’art. 55-septies del d.lgs. n. 198/2006 (Codice delle pari opportunità) in materia di discriminazioni di genere nell’accesso a beni e servizi, nonché all’art. 4, l. n. 67/2006, per la protezione del fattore disabilità. Ed ancora, in tema di tutela ambientale, l’iscrizione in un apposito registro previsto dall’art. 13, l. n. 349/1986 è funzionale all’ammissione delle associazioni rappresentative di interessi al processo amministrativo.
Sulla rilevanza dell’iscrizione, tuttavia, si è già espressa a vario titolo la giurisprudenza, respingendo la tesi che essa possa diventare un ostacolo insormontabile alla effettiva tutela dei diritti. Da un lato, ad esempio, la Cassazione ha riconosciuto la legittimazione delle associazioni iscritte nel registro ex art. 5, d.lgs. n. 215/2003 ad un’azione azione collettiva contro una discriminazione per nazionalità, laddove il Testo Unico sull’immigrazione avrebbe ammesso lo stare in giudizio delle sole rappresentanze locali delle organizzazioni sindacali maggiormente rappresentative a livello nazionale ; dall’altro, la giustizia amministrativa accoglie da tempo e in maniera unanime la legittimazione ex lege delle associazioni ambientaliste non solo nel caso di atti inerenti la materia ambientale in senso stretto, ma anche per quelli che, in senso lato, riguardano la conservazione e valorizzazione dei beni culturali, del paesaggio urbano, rurale e naturale, dei monumenti e dei centri storici e della qualità della vita , ritenendo addirittura che, una volta “legittimate”, tali associazioni siano abilitate a esperire l’azione generale di annullamento in sede di giurisdizione amministrativa di legittimità, indipendentemente da un’espressa previsione di legge in tal senso .
Se è vero che in questi arresti giudiziali si è allargato il campo oggettivo di azione di enti già in qualche modo “verificati” nella loro capacità rappresentativa, va però ricordato che, da un punto di vista sistematico, la rappresentanza degli interessi del lavoro ha un fondamento assai diverso da quello della rappresentanza di qualunque altro interesse e conosce, già a livello costituzionale, la differenza tra le previsioni dell’art. 18 e dell’art. 39, primo comma: esse non si pongono, come è noto, in un rapporto di genus e species, perchè il fine sindacale è riconosciuto in maniera incondizionata, proprio in quanto diretto all’autotutela di interessi connessi a relazioni giuridiche in cui sia dedotta l’attività di lavoro.
Tanto dovrebbe dunque bastare a ritenere che il decreto ministeriale (e l’elenco per esso istituito) non sia necessario ai fini della legittimazione ad agire delle organizzazioni sindacali .
Di certo, si può rimproverare che una tale interpretazione finirebbe per allargare a dismisura le maglie dell’accesso, permettendo a qualunque organizzazione sindacale di promuovere il giudizio collettivo, scavalcando le restrizioni di cui all’art. 28 St. lav. (la dimensione «nazionale» del sindacato ricorrente) e della normativa antidiscriminatoria (che fa talvolta riferimento alle organizzazioni «maggiormente rappresentative a livello nazionale» ).
A tal proposito, però, valgano due osservazioni.
La prima, esterna al procedimento in parola, riguarda la lettura che della speciale azione statutaria aveva già dato la Corte costituzionale, secondo cui «la concessione della procedura privilegiata alle associazioni nazionali non preclude alle altre associazioni sindacali, non considerate dall’art. 28, la possibilità di far ricorso alle procedure di cognizione, sommaria e ordinaria, previste dal codice di procedura civile» : a queste procedure va oggi ad aggiungersi l’azione di classe e l’azione inibitoria collettiva.
La seconda considerazione è invece “interna” allo stesso procedimento collettivo e riguarda la circostanza che tanto l’iscrizione nell’elenco istituito presso il Ministero della giustizia quanto la qualità sindacale dell’organizzazione ricorrente non determinano un riconoscimento automatico della effettiva capacità di stare in giudizio se, quantomeno con riferimento all’azione risarcitoria, l’art. 840-ter c.p.c. chiede al giudice, pena l’inammissibilità della domanda, di verificare se «il ricorrente non appare in grado di curare adeguatamente i diritti individuali omogenei fatti valere in giudizio» (quarto comma, lett. d). Quanto invece all’azione inibitoria collettiva, non essendo esplicitamente previsto un filtro preventivo di ammissibilità come quello stabilito dall’art. 840-ter, va comunque detto che il richiamo alla procedura camerale degli artt. 737 ss. c.p.c. consentirebbe comunque al giudice valutare ex officio le questioni relative alla legittimazione.
Le considerazioni sin qui svolte consentono anche di risolvere il secondo quesito prospettato, ovvero quello dell’adozione di un atto regolamentare che individui i soggetti legittimati all’azione in maniera riduttiva rispetto all’ampia definizione legale. Anche lasciando da parte per un momento quanto compare nel richiamato schema di decreto, non si può non rilevare come l’art. 840-bis c.p.c. e l’art. 196-ter disp. att. c.p.c. attribuiscano al decreto ministeriale una funzione per così dire “organizzativa”, limitata alla individuazione dei requisiti per l’iscrizione nonché dei criteri per la sospensione e la cancellazione dall’albo, ma non disegnano affatto una competenza “sostanziale” di definizione della fattispecie soggettiva di «organizzazioni e associazioni senza scopo di lucro» . Essa è talmente ampia da dovervi includere anche le associazioni politiche, professionali, sindacali e datoriali , per le quali la specifica esclusione dall’applicazione del Codice del Terzo settore deve risultare in quest’ambito priva di alcun rilievo. Con l’effetto che una diversa previsione regolamentare sarebbe nella migliore delle ipotesi non risolutiva, nella peggiore invece illegittima per contrasto con la norma primaria.
3.- Il problema del coordinamento con le altre azioni collettive.
Un secondo importante snodo, utile a delineare l’ambito effettivo di portabilità del nuovo strumento processuale, è quello del suo coordinamento con le altre azioni previste dal nostro ordinamento a tutela degli interessi dei lavoratori.
Se si escludono infatti le previsioni dedicate dal Titolo VIII-bis ai problemi di coordinamento interno (quali la dichiarazione della inammissibilità delle nuove azioni di classe sui diritti nascenti dai medesimi fatti, una volta che siano trascorsi 60 giorni dalla pubblicazione del primo ricorso o l’obbligo per il giudice di disporre la separazione delle controversie nel caso in cui l’azione inibitoria collettiva sia proposta congiuntamente all’azione di classe), il legislatore si è limitato a prevedere la salvezza «delle disposizioni previste in materia dalle leggi speciali» (art. 840-sexdecies, ultimo comma, c.p.c.).
Si tratta di una formulazione, invero, assai generica e pure ambigua e che può porre più di qualche problema, giacché l’ampiezza delle condotte lesive considerate dal procedimento speciale può far ritenere, almeno sotto il profilo oggettivo, la possibilità di ricorrervi in qualunque ipotesi di condotta plurioffensiva.
Il tema, ancora una volta, non è certo inedito per i giuslavoristi, che hanno osservato nell’ultimo decennio, a partire dal contenzioso legato al noto caso Fiat , la tendenziale convergenza dall’azione per la repressione della condotta antisindacale ex art. 28 St. lav. e quella per la tutela contro la discriminazione in ragione di convinzioni personali, e dunque anche sindacali ex art. 5, d.lgs. n. 216/2003, consentendo il dispiegarsi di “strategie” processuali diverse, determinate anche dalla convenienza di ricorrere ad azioni caratterizzate da un alleggerimento dell’onere probatorio . Si tratta, nondimeno, di una convergenza che incide sui fatti che danno origine alla controversia (ad es. la mancata assunzione di lavoratori vicini a un certo sindacato, o la previsione di una clausola cd. collarino in un accordo che riconosca ai dipendenti benefici nella misura e per tutto il tempo in cui l’azienda non “subisca” alcuna azione collettiva) e non sugli interessi protetti e dunque sulla causa petendi (e, per conseguenza, sul petitum).
Proprio con riferimento all’esempio proposto, la dottrina e la giurisprudenza sono allineate nel distinguere nell’art. 28 St. lav. una tutela dell’interesse collettivo dell’organizzazione sindacale (tout court, e non solo di quella nazionale, legittimata all’azione) «ad una libera esplicazione dell’organizzazione sindacale e di tutte quelle attività che sono ad essa strumentali» , mentre la norma antidiscriminatoria si riferisce a un interesse al rispetto del principio di non discriminazione, interesse che appartiene non solo al sindacato ma anche a tutti coloro che sono o possono essere destinatari del trattamento .
Sennonché, gli artt. 840-bis e l’840-sexdecies, parlano di «diritti individuali omogenei» e «atti e comportamenti, posti in essere in pregiudizio di una pluralità di individui o enti» e, pertanto, ben potrebbero annoverare tra questi tanto il diritto a non essere discriminati in base ai fattori riconosciuti dall’ordinamento, come la libertà sindacale e il diritto all’azione collettiva e allo sciopero. Il punto è allora accertare se alla prescrizione della salvaguardia delle azioni speciali preesistenti debba essere attribuito un significato cumulativo, così da consentire una pluralità di azioni a tutela della medesima posizione soggettiva (nella consapevolezza che tanto genererebbe innumerevoli problemi, a partire dalla competenza del giudice), o piuttosto alternativo, nel senso, cioè, che, laddove sia già utilizzabile altra azione speciale, il ricorso all’inibitoria collettiva sia da escludere.
A parere di chi scrive questa seconda soluzione è l’unica sostenibile, a patto però che ci si intenda sulla portata dell’alternatività. In altri termini, perché l’azione speciale preesistente nell’ordinamento processuale funga da sbarramento e da canale esclusivo di tutela, vi dovrà essere piena coincidenza con riferimento tanto al profilo oggettivo (l’individuazione della fattispecie protetta) quanto a quello soggettivo (il titolare dell’interesse collettivo protetto), in modo così da garantire una gestione efficiente del processo, senza compromettere l’obiettivo di allargamento delle tutele individuabile nella riforma operata con la l. n. 31/2019.
Siano consentite due esemplificazioni.
Dal momento che ai sensi dell’art. 28 St. lav. la condotta antisindacale punibile è solo quella realizzata dal datore di lavoro nelle relazioni aziendali, l’inibitoria collettiva non potrà essere esperita per la medesima fattispecie né dall’associazione sindacale nazionale già legittimata, e perciò “obbligata”, allo speciale procedimento, né da altro sindacato (non nazionale); al contrario, un ricorso per ottenere l’inibitoria ex art. 840-sexdecies potrà essere proposto da entrambi in relazione a comportamenti che impediscono o limitano l’esercizio della libertà e dell’attività sindacale al di fuori del contesto aziendale o quando posti in essere da associazioni datoriali (in quest’ultimo caso, infatti, il riferimento al soggetto agente imprese non può non includervi anche le loro rappresentanze).
Analogamente, l’esistenza di un’azione speciale contro la discriminazione collettiva di genere (art. 37, co. 2 e 4, d.lgs. n. 198/2006) non può oggi impedire all’organizzazione sindacale di cercare la difesa dell’interesse collettivo al rispetto del principio di non discriminazione, attraverso l’azione inibitoria così come quella di classe: la previsione del Codice delle pari opportunità, infatti, attribuendone la titolarità alla sola Consigliera di parità , disegna un’azione “oggettivamente” collettiva, ma non “soggettivamente” tale.
4.- La possibile forza dirompente dell’azione di classe e dell’azione inibitoria collettiva nella tutela degli interessi del lavoro.
Sulla scorta di queste osservazioni, si può provare sinteticamente a tracciare almeno tre linee di sviluppo dell’utilizzo dell’azione collettiva da parte delle organizzazioni sindacali.
In primo luogo, essa può servire a dare una (positiva) svolta alla “tormentata” configurabilità come antisindacale della violazione della parte normativa del contratto collettivo. Come è noto, essa è stata quasi unanimemente respinta dalla dottrina e dalla giurisprudenza, salvo che la violazione del datore presenti i caratteri di sistematicità e reiterazione, tali da attentare all’ordine contrattuale nel suo complesso . Il difetto di un interesse ad agire ex art. 28 St. lav. non impedirebbe oggi di attivare il nuovo rimedio (inibitorio e risarcitorio) per tutelare iure proprio le posizioni economiche e normative dei lavoratori, essendo coessenziale all’organizzazione sindacale la difesa degli interessi dei lavoratori rappresentati. Tanto consentirebbe congiuntamente non solo di accertare la violazione (plurima) dei diritti derivanti dal contratto collettivo (con la condanna al risarcimento del danno e alle restituzioni, secondo la lettera dell’art. 840-bis, secondo comma, c.p.c.) ma anche di inibire la reiterazione della stessa violazione.
In secondo luogo, il procedimento collettivo potrebbe “provocare” il riallineamento delle distanze oggi esistenti tra le previsioni che misurano irragionevoli differenze nella legittimazione attiva in materia antidiscriminatoria . Per le ragioni già richiamate, e nei limiti della alternatività con l’azione civile contro la discriminazione ex art. 28, d.lgs. n. 150/2011, è difficile non riconoscere una legittimazione dell’organizzazione sindacale alla difesa dei lavoratori colpiti o potenzialmente lesi da comportamenti discriminatori datoriali. Si pensi a quale effetto potrebbe avere mettere al centro dell’azione sindacale (processuale) lo slancio verso l’inclusione e l’eguaglianza sostanziale delle lavoratrici (anche nell’ottica del gender pay gap) e dei migranti.
Da ultimo, il rimedio introdotto nel 2019 può estendere la tutela processuale oltre le maglie della subordinazione, garantendo la libertà sindacale dei lavoratori non subordinati (e non solo dei riders): Mentre la giurisprudenza si interroga sull’applicabilità dell’art. 28 St. lav. ai rapporti di collaborazione eterorganizzata – ove cioè l’art. 2, d.lgs. n. 81/2015, assimilando questi al lavoro subordinato, ne estenda la disciplina di carattere processuale oltre che sostanziale – l’art. 840-sexdecies c.p.c. potrebbe “riflettere” in sede processuale la tutela sostanziale già riconosciuta ai lavoratori parasubordinati dalla giurisprudenza più lungimirante .
In questo, come negli altri casi, non si tratta di riconoscere diritti inediti, ma di “riannodare” la dimensione collettiva del loro riconoscimento alla giusta tutela in sede giudiziale.