Testo integrale con note e bibliografia
1.- Una nuova azione collettiva inibitoria per i lavoratori.
In materia di lavoro l’illiceità della condotta plurioffensiva tenuta dal datore può essere fatta valere in giudizio attraverso strumenti di carattere inibitorio volti all’ottenimento di provvedimenti della cui utilità possono giovarsi anche coloro che, pur non partecipando al processo, appartengono comunque alla categoria dei soggetti lesi dalla condotta stessa.
In questi casi, si parla in senso stretto di azioni collettive, in quanto promosse da enti esponenziali di interessi imputabili a una collettività di individui, i quali non necessariamente coincidono con i componenti degli enti stessi o sono legati a questi da rapporti giuridici. Il vincolo che promana dal provvedimento che accoglie la domanda opera tendenzialmente secundum eventum litis e consente ai membri della “collettività” di utilizzare il risultato in utilibus (se del caso, allorché decidano di far valere giudizialmente la propria posizione individuale).
La l. 31/2019 ha introdotto uno strumento nuovo (art. 840 sexiesdecies c.p.c.) di tipo inibitorio («cessazione o il divieto di reiterazione della condotta omissiva o commissiva») ed eventualmente ripristinatorio («le misure idonee ad eliminare o ridurre gli effetti delle violazioni accertate»), il cui ambito di applicazione («atti e comportamenti, posti in essere in pregiudizio di una pluralità di individui o enti») e la cui ampia apertura in punto di legittimazione attiva («chiunque abbia interesse» ovvero «le organizzazioni o le associazioni senza scopo di lucro i cui obiettivi statutari comprendano la tutela degli interessi pregiudicati dalla condotta», se iscritte in apposito elenco ministeriale) e passiva («imprese o di enti gestori di servizi pubblici o di pubblica utilità») sono idonei a comprendere – sia pure in via residuale («sono fatte salve le disposizioni previste in materia dalle leggi speciali»: art. 28 St. lav.; art. 44 d.lgs. 286/1998; art. 4, d.lgs. 215/2003, emanato in attuazione della direttiva 2000/43; d.lgs. 216/2003, emanato in attuazione della direttiva 2000/78/CE; l. 1° marzo 2006, n. 67, e succ. modif.; d.lgs. 11 aprile 2006, n. 198) – anche la tutela degli interessi collettivi dei lavoratori .
Invero, la locuzione “interessi collettivi” è alquanto ambigua poiché non corrisponde ad alcuna delle situazioni soggettive sostanziali suscettibili di tutela giurisdizionale di cui all’art. 24, 1° comma, Cost., che, infatti, contempla i diritti e gli interessi legittimi . Un esplicito riferimento in tal senso era contenuto nella prima versione del testo normativo regolante il contiguo (ma ben differente) istituto dell’azione di classe (l. 244/2007), poi eliminato nel 2009 (l. 99/2009), reinserito nel 2012 (d.l. 1/2012, conv. in l. 27/2012) e ancora presente nella disciplina dell’azione collettiva inibitoria di cui all’abrogato art. 140 cod. cons. .
La norma di più recente introduzione ha rinunciato a fare uso di questo riferimento di incerta definizione e collocazione sistematica, eppure ha conservato una buona dose di ambiguità nella parte in cui sembra aver dato preminenza all’aspetto soggettivo della tutela (gli «individui» e gli «enti» che la invocano) invece che a quello oggettivo (la situazione sostanziale da proteggere e attuare) e nella parte in cui, ancora una volta, ha riferito agli «interessi» il presupposto («pregiudizio») che giustifica il ricorso all’azione .
2.- L’accertamento della “questione comune”.
Orbene, la soluzione unitaria di una questione comune favorisce l’economia processuale e l’uniformità delle decisioni. Perciò essa è utile, in quanto idonea a costituire un punto fermo, un paradigma per la decisione delle altre liti che hanno ad oggetto la medesima questione, in funzione deflativa, semplificativa, preventiva.
Le tecniche per addivenire a tale risultato sono diverse. Oltre alla instaurazione di un processo di natura collettiva, il cui oggetto sia dato proprio dalla questione comune, vengono in rilievo:
a) il simultaneus processus di tutte le controversie, attuabile sia in via originaria, attraverso la proposizione congiunta di più domande, sia in via successiva, attraverso l’intervento in causa oppure la riunione dei procedimenti separatamente instaurati;
b) la decisione «in via pregiudiziale» della questione da parte dello stesso o di altro giudice.
Sennonché, queste due ulteriori tecniche presentano rilevanti punti critici.
3.- Il processo congiunto.
Il processo congiunto, in qualsiasi maniera attuato, consente di addivenire a una pronuncia unitaria con la partecipazione di tutti i soggetti interessati, ma non sempre si presta ad assicurare l’agevole e razionale gestione delle controversie, soprattutto quando il numero di tali soggetti è molto elevato.
Di certo benefiche sono le ricadute in termini di economia processuale, dal momento che: si impegna un solo giudice per più cause; si evita la moltiplicazione di atti e di prove; si riducono le spese legali. Come anche positivi sono gli effetti in termini di uniformità dei giudicati e delle decisioni nel rispetto del diritto di difesa di tutti i soggetti interessati.
Tuttavia, vanno considerati anche gli inconvenienti che ne possono derivare sul piano della trattazione e dell’istruzione probatoria.
Per questa ragione – cioè per l’eventuale eccessiva gravosità del processo simultaneo – l’art. 103, 2° comma, c.p.c. consente la successiva separazione delle cause originariamente cumulate tra più parti e connesse, come in questo caso, anche solo per mera identità di questioni dalla cui risoluzione dipende, totalmente o parzialmente la decisione (connessione impropria) e per la stessa ragione l’art. 151 disp. att. c.p.c., come modificato dal d.lgs. n. 40 del 2006, con specifico riferimento alle cause cin materia di lavoro (e di previdenza e di assistenza), che presentino profili di connessione, nel prevedere la riunione ex art. 274 c.p.c., fa salva l’ipotesi in cui essa «renda troppo gravoso o comunque ritardi eccessivamente il processo».
Sta di fatto che, almeno con riguardo al tenore letterale di quest’ultima disposizione, ove le cause si trovino nella stessa fase processuale la riunione «deve essere sempre disposta». Da ciò discende che il simultaneus processus non possa essere evitato. Un risultato questo più che accettabile ove si tratti di cause puramente documentali o che non coinvolgano numerose (troppe) parti, ma inappagante ove sussista la necessità di articolare un’attività istruttoria lunga e complessa.
4.- L’accertamento pregiudiziale della efficacia, validità e interpretazione dei contratti e accordi collettivi nazionali di lavoro.
Anche l’«accertamento pregiudiziale» della questione relativa alla efficacia, validità e interpretazione dei contratti o accordi collettivi, disciplinato dapprima con riferimento alle controversie di lavoro pubblico (v. l’art. 68 bis d.lgs. n. 29 del 1993, inserito dal d.lgs. n. 80 del 1998, successivamente trasfuso nell’art. 64 d.lgs. n. 165 del 2001) e poi anche a quelle di lavoro privato (v. l’art. 420 bis c.p.c., introdotto dal d.lgs. n. 40 del 2006), presenta inconvenienti, poiché, da un lato, non è in grado di soddisfare pienamente il valore della certezza e uniformità del diritto, dall’altro, rischia di frustrare l’esigenza di economia processuale.
Secondo tale istituto, la questione è risolta in base al seguente schema: in prima battuta, è il giudice di merito a compiere un accertamento con sentenza non definitiva, che, a sua volta, è strumentale a quello relativo al diritto dedotto nel giudizio individuale, mentre soltanto in seconda ed eventuale battuta entra in gioco la definizione da parte della Cassazione, in sede di ricorso “immediato” avverso quella sentenza, con una pronuncia dall’efficacia vincolante per il solo giudizio in corso e destinata a svolgere un ruolo di mero «paradigma» per le cause la cui definizione dipende dalla medesima questione. L’operatività del meccanismo decisorio è assistita dall’accorgimento tecnico della sospensione, automatica nel primo caso e facoltativa nel secondo.
Nel peculiare contesto del lavoro pubblico, peraltro, la decisione della questione pregiudiziale può avvenire in via negoziale. L’Aran verifica la possibilità di un «accordo sull’interpretazione autentica del contratto o accordo collettivo, ovvero sulla modifica della clausola controversa»; se l’accordo viene raggiunto, le parti che vi aderiscono possono chiedere che sia applicato al rapporto controverso. La sostituzione della clausola oggetto di discussione «sin dall’inizio della vigenza del contratto» risolve la controversia (v. art. 49, d.lgs. 165/2001). In relazione a tale disciplina, apparentemente lineare, sono stati sollevati dubbi di legittimità costituzionale, che la Consulta ha respinto, ritenendoli, volta a volta, inammissibili o infondati . Il che, tuttavia, non ha impedito il permanere di più di una perplessità in ordine alla tenuta della disciplina in parola almeno rispetto agli art. 24, 39 e 101, Cost. .
L’applicazione di questo strumento non sembra aver dato frutti particolarmente significativi rispetto agli obiettivi prefissati . Soprattutto, è stata denunciata l’inutilità e dannosità della sospensione automatica, che sicuramente costituisce un intralcio e una perdita di tempo (e, quindi, si rivela inidonea a soddisfare l’obiettivo perseguito di accelerazione e semplificazione) .
5.- La soluzione della “questione comune” a livello aziendale.
Ciò detto, vale la pena segnalare una proposta avanzata in dottrina diversi anni or sono, elaborata nell’ottica della semplificazione e deflazione del contenzioso, nonché nel rispetto della dialettica giurisprudenziale, che, nonostante l’apprezzabile sforzo di addivenire a una soluzione di questioni comuni superindividuali, non è condivisibile sotto il profilo degli strumenti individuati per raggiungere lo scopo.
L’idea è quella di generalizzare l’efficacia della pronuncia giudiziale a livello aziendale, cioè nei confronti dei lavoratori addetti ad unità produttive della stessa impresa collocate nel circondario del giudice adito, senza eccedere «l’ambito soggettivo coincidente con la competenza per territorio del giudice investito della controversia» . A tal fine, indispensabile sarebbe una forma di comunicazione, diversa dalla macchinosa notificazione per pubblici proclami, che assicuri a tutti i lavoratori interessati la conoscenza della esistenza e dei termini della lite, lasciando, comunque, aperta ai lavoratori non dipendenti dall’azienda (almeno all’epoca della formazione della cosa giudicata) la possibilità di rimettere in discussione il risultato del processo con riguardo specifico alla questione interpretativa ivi risolta.
Inoltre, la proposta prevede di ottenere il riequilibrio tra natura individuale della controversia e rilevanza collettiva attraverso la presenza sindacale nel processo .
Essa, tuttavia, non pare in grado di superare le gravi perplessità riguardanti: a) la previsione di un inammissibile giudicato sull’interpretazione del contratto collettivo; b) l’eccessiva accentuazione del profilo pubblicistico ed efficientistico; c) la compressione del principio della domanda e della libertà di scelta del singolo lavoratore in ordine al se e al quando far valere in giudizio il proprio diritto; d) il sacrificio della dialettica giurisprudenziale .
6.- I modelli di procedimento collettivo.
In conclusione, la tecnica del procedimento collettivo sembra più efficace delle altre ai fini della risoluzione di questioni comuni .
Sotto questo profilo, senza considerare l’esperienza tedesca del processo «modello» e quella inglese della Group Litigation , vala la pena sottolineare che anche l’azione risarcitoria di classe – il cui ampio ambito di applicazione ne consente l’esperibilità in materia di lavoro – disciplinata dagli art. 840 bis ss. c.p.c. può concludersi con la definizione di una “questione”, che, come nell’azione collettiva inibitoria di cui all’art. 840 sexiesdecies c.p.c., riguarda l’accertamento della condotta antigiuridica del soggetto convenuto.
La differenza riposa, tuttavia, nel fatto che tale accertamento rappresenta il livello minimo, al quale possono accedere sia gli enti collettivi accreditati sia il singolo componente della classe che faccia valere il diritto individuale omogeneo, consentendo l’opt in agli altri possibili titolari di diritti individuali omogenei. La tutela processuale offerta da tale istituto, infatti, è multilivello e ad oggetto variabile. In particolare, al secondo livello, costituito dalla condanna al risarcimento del danno e alla restituzione di cose, quegli stessi enti collettivi accreditati non possono accedere, essendo esso riservato al componente della classe ricorrente. In ogni caso, l’azione assume una rilevanza collettiva. Il senso e la portata dell’accertamento della responsabilità della condotta, però, non sono identici, poiché, quando ad agire sia l’ente esponenziale, l’accoglimento della domanda giudiziale si risolve, appunto, nell’accertamento di una questione e non di un diritto individuale omogeneo rientrante nella classe .
Ciò detto, anche con la nuova azione inibitoria, nonostante l’ambiguità del tenore letterale, si risolve la medesima questione comune, che trascende l’interesse del singolo, solo che l’accertamento della responsabilità del resistente è funzionale al conseguimento di un ordine di cessazione della condotta plurioffensiva.