1.Premessa
Il processo del lavoro sta per compiere cinquanta anni ma non li dimostra.
E’ un processo che ha grandi risorse e si è arricchito, negli ultimi anni, anche di uno strumento deflattivo, interno al processo – la proposta conciliativa, in linea con le ultime riforme della giustizia civile.
Certo tutto dipende dal giudice che dirige il procedimento, dal numero non troppo elevato di controversie da trattare, e conseguentemente, dalla conoscenza preventiva che il giudice ha dei singoli procedimenti.
Se concorrono queste condizioni, il rito è congegnato in modo tale che “rendere giustizia” in tempi rapidi ed effettivi sia una concreta possibilità.
Si sono accentuate, a mio parere, le ragioni che inducono a preservare la specialità del rito e la specialità del diritto del lavoro e della previdenza sociale rispetto al rito e al diritto civile.
In una società dove crescono le disuguaglianze, in cui il diritto ad un “lavoro decente” appare spesso vuota affermazione contenuta nelle carte dei diritti fondamentali, mentre il progresso tecnologico espone i lavoratori a nuove forme di sfruttamento se non di schiavitù, il diritto e il processo del lavoro mantengono pienamente la loro ragione di essere, nel contesto di un diritto europeo che anche distingue il ramo del labor law .
E’ chiaro che il nostro settore risente inevitabilmente di idee in qualche modo contrapposte, sia pure declinate con varie sfumature, che qui devo necessariamente semplificare.
La tesi da me ora esposta e condivisa di una perdurante vitalità del rito speciale e del diritto del lavoro, distinto dal diritto civile, parte ovviamente dall’idea che, nonostante la concorrenza globale, il lavoro, oltre ad essere il fondamento della Repubblica, costituisce un mezzo di realizzazione della persona umana; che le crescenti disuguaglianze e l’obiettivo di realizzazione di un lavoro decente incrementano le esigenze di tutela della parte debole del rapporto di lavoro attraverso una estensione del paradigma della subordinazione che si è in parte già realizzato con la figura del lavoro eterodiretto.
Chi, invece, vede comunque nelle garanzie del diritto del lavoro un eccesso di tutele che ostacolano gli investimenti produttivi e rallentano l’occupazione; chi si basa sulla dimensione economicistica delle regole in un mondo ormai globalizzato con imprese che agiscono su scala mondiale; chi pensa che sia giunto il momento di far rientrare il diritto del lavoro nel diritto civile, inteso come “mimesi del mercato”, in cui il diritto non deve alterare il corso del mercato, avverte nella specialità del diritto del lavoro e, quindi nel giudice del lavoro il sapore di un’epoca ormai tramontata, un residuo delle riforme degli anni ’70 e del novecento, superato dall’attuale fase del capitalismo avanzato.
E qualche spunto lo ha tratto nel recente passato anche dalla lentezza del processo, che, al tempo stesso, ha costituito una leva fondamentale per riforme che ridimensionano il ruolo del giudice del lavoro lento ed inefficiente. E’ vero che la lentezza del processo è fenomeno che riguarda tutto il settore civile oltre che il processo penale.
Ma nel nostro campo, a riprova della specificità rispetto al civile, la lentezza del processo ha esasperato, talvolta con serio fondamento, l’insofferenza del mondo produttivo e delle imprese verso il controllo giurisdizionale.
A prescindere dal ruolo svolto dai ritardi della giustizia del lavoro, la idea del diritto come mimesi del mercato, con la ovvia semplificazione qui di varianti di pensiero intermedie, è stata tendenzialmente alla base di quasi tutte le riforme del diritto del lavoro che si sono succedute nel nuovo millennio e che hanno cercato talvolta marginalizzare anche la figura del giudice del lavoro, con un processo in qualche modo inverso rispetto a quello degli anni ’60 e ’70 che ha portato al varo dello Statuto e alla legge 733/1973 sul processo del lavoro.
Nell’analisi che segue mi riporto alla mia esperienza trentennale del processo del lavoro a partire dal 1990 fino al 2020, sia pure in uffici diversi e con ruoli differenti.
Si è accennato prima al diverso punto di partenza di chi vede nel giudice del lavoro una funzione superata traendo spunto dalla lentezza del processo.
Il filo conduttore della analisi che segue riguarda anche questo nodo fondamentale.
Sotto tale profilo, è proprio la storia di questi ultimi trent’anni di processo del lavoro che dimostra come i tempi a volte biblici della giustizia abbiano inciso sulla tenuta delle garanzie e abbiano minato l’equilibrio tra le istanze di celerità del processo e quelle di giustizia sostanziale.
2. Gli anni 90
Ho iniziato la mia attività a partire dal 1990 del secolo scorso, presso la Pretura di Napoli sezione lavoro, ove sono arrivata più per caso, da un lato, per sfuggire ad un nuovo processo penale di cui intravedevo la farraginosità e, dall’altro, per cambiare ramo del diritto dopo circa dieci anni di attività nel settore penale. Mi sono trovata a mio agio nel ruolo del giudice del lavoro proprio per le similitudini con il processo penale. Processo snello, orale, caratterizzato da un confronto vivo tra le parti e dalla lettura del dispositivo come nel processo penale.
Tuttavia già negli anni ’90 il processo del lavoro si era trasformato, nella pratica, rispetto all’originario modello del 1973 e alla mia esperienza nel 1981 come uditore giudiziario (allora così si chiamavano i MOT).
Le prime privatizzazioni – Ferrovie e poi Poste (tra la seconda metà degli anni 80 e l‘inizio degli anni 90) hanno determinato un incremento di controversie di lavoro di centinaia di migliaia di cause, così come alcune sentenze della Corte costituzionale (in particolare la decisione del 1991 n. 156 sull’adeguamento della indennità di disoccupazione agricola) hanno generato piccoli tsunami di controversie seriali sul versante Previdenza ingolfando i ruoli dei giudici e rallentando il funzionamento della giustizia del lavoro soprattutto nel sud del paese.
I provvedimenti legislativi che hanno bloccato gli aumenti per il compenso del lavoro straordinario nel settore pubblico allargato nel 1992 hanno generato numerose controversie, con una formazione difficoltosa del diritto vivente, che ha comportato il perdurare di queste controversie per decenni. Ricordo ancora che la controversia sul compenso per il lavoro straordinario dei dipendenti delle Ferrovie dello Stato del 1994-95, decisa in quegli anni in Pretura, la ho ritrovata in Corte d’appello ben oltre il 2000.
Tanto è bastato per appesantire enormemente il processo del lavoro. E’ iniziato un notevole declino di efficienza già presente alla fine degli anni ’80. Il modello veloce ed agile, soprattutto in alcuni Tribunali del sud, si è trasformato nella realtà del processo-tartaruga.
Anziché individuare le cause del proliferare di controversie e conseguentemente di arretrati cercando di porvi rimedio, si è provveduto, alla fine degli anni ’90, con la riforma del pubblico impiego, ad affidare al giudice del lavoro le controversie sul rapporto di lavoro, senza contemporaneamente adeguare le piante organiche. A breve distanza, per effetto della riforma del giudice unico, sono state create le sezioni lavoro delle Corti d’appello, prive di organici, su cui si abbatterà in breve tempo un contenzioso notevole, con la inevitabile formazione di arretrati nel giro di pochi mesi. Giunta nella Corte di appello di Napoli nel luglio 2001 e, quindi, ad un anno e mezzo di distanza dal varo della nuova sezione di Corte d’appello, ho potuto constatare che ciascun consigliere aveva un ruolo di oltre 2000 cause a testa.
3. Giustizia del lavoro nel nuovo secolo.
Questo lo scenario quando è intervenuta la riforma dell’art.111 cost. e l’introduzione della ragionevole durata del processo. Principio sacrosanto se non altro perché un processo lento non può essere giusto. Ma la cui attuazione richiedeva uno sforzo organizzativo immediato per correggere il proliferare abnorme del numero dei processi.
Si è preferito, invece, limitarsi a varare un’ennesima legge, la legge Pinto, una sorta di cura omeopatica per una giustizia civile e del lavoro già allora elefantiache con numeri da capogiro; legge che ha infatti prodotto un numero enorme di cause, come da me previsto in un articolo dell’agosto 2002 scritto per il blog “la voceinfo”. Bastava guardare i numeri dei processi civili e quelli dei giudici per comprendere che il conto non tornava.
Le cause civili pendenti al 30 giugno 2000 erano oltre tre milioni (3.301.361), con una sopravvenienza annua di circa 1.500.000 di nuove cause in un anno, come indicato dal Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione all'inaugurazione dell'anno giudiziario 2002. Non esistevano dati certi sul numero dei magistrati addetti stabilmente alla giurisdizione civile, ma i giudici, nel loro complesso, (tra pubblici ministeri, magistrati del settore penale e magistrati del settore civile) erano circa 8.500, in buona parte destinati alle funzioni penali sia requirenti che giudicanti. Con questi numeri era evidente che si creasse un "effetto imbuto", con formazione di arretrati e buona pace del principio, appena esplicitato nella Costituzione, della ragionevole durata del processo.
Non mi fa piacere riconoscere che quanto scrissi nel 2002 si è verificato in modo puntuale con un abuso della legge Pinto, che ho vissuto in prima persona avendo curato centinaia di relazioni per l’avvocatura dello Stato sia come giudice di appello negli anni tra il 2003 ed il 2009 e sia come Presidente di sezione presso il Tribunale di Napoli dal 2010 al 2017.
La legge Pinto ha, dunque, generato altre centinaia di migliaia di controversie risarcitorie per l’irragionevole durata del processo, senza che siano intervenute riforme a costo zero che avrebbero potuto arginare il proliferare di cause quali per esempio, la revisione dell’accesso alla professione forense e la revisione delle piante organiche degli uffici calibrandole sulle sopravvenienze e/o pendenze effettive.
Il giudice del lavoro si è visto, inoltre, addebitare le crescenti disfunzioni del processo del lavoro.
La scarsa qualità professionale del giudice del lavoro è affermazione contenuta nel Libro Bianco del 2003 dopo il quale vi è stato il varo della legge 2003/30 e del decreto legislativo 2003/276. Fanno ingresso nel nostro ordinamento diverse forme flessibili di contratti di lavoro, tra cui la somministrazione di manodopera per favorire la segmentazione dell’attività produttiva e la esternalizzazione.
Si è detto prima che la lentezza del processo ha fatto da leva ad alcune riforme ed ha minato anche la fiducia nella giustizia del lavoro.
La flexicurity ovvero lo spostamento dell’asse centrale del welfare dal “rapporto di lavoro” al “mercato del lavoro” non poteva che passare attraverso un ridimensionamento del ruolo del giudice che per definizione è giudice del rapporto; ridimensionamento che allora si è limitato ad una critica contenuta nel libro Bianco.
In materia di flexicurity va ricordato anche il Libro Verde sulla modernizzazione del diritto del lavoro europeo del novembre 2006 in cui la legislazione italiana era espressamente criticata per un eccesso di tutele in tema di licenziamenti per ragioni economiche e per un eccessivo ruolo del giudice del lavoro. Nel Libro Verde si riprendeva il tema della necessità di spostare le tutele dal rapporto di lavoro al mercato del lavoro.
Prima ancora, nel 2001 era stata introdotta una nuova disciplina del contratto a tempo determinato, mentre l’accanimento contro l’art. 18 dello Statuto si era temporaneamente congelato per la protesta di piazza del 2002.
L’innesto di queste riforme del diritto del lavoro in un sistema improntato a maggiori pregresse tutele è stato accompagnato da una enfasi eccessiva sulle novità normative che hanno alimentato molto l’utilizzo di questi strumenti flessibili reclamizzati come innovazioni di grande impatto anche fuori dai limiti normativi. E qui va ricordato che una cosa è la law in action, altro la law in the code: le riforme, inserite nel sistema, hanno sempre un impatto minore di quello annunciato.
Ricordo la tanto declamata abrogazione del divieto di intermediazione di manodopera operata dalla legge 2003/30 che si è rivelata più apparente che reale essendo residuata nell’appalto di mere prestazioni di lavoro. Oppure la vicenda del contratto a tempo determinato.
La genesi politico sindacale della riforma del 2001 sul contratto a tempo determinato era già indicativa di un compromesso raggiunto tra contrapposte esigenze. In tale contesto la previsione della clausola generale delle ragioni tecnico-produttive e organizzative, ha posto il problema dei limiti del sindacato del giudice, già di per sé insito nella nozione stessa di clausola generale. Si è creato, quindi un divario di opinioni sul concetto di temporaneità delle esigenze aziendali. Inoltre il contratto a tempo indeterminato era considerato, sia nella fonte comunitaria che in quella interna, come regola rispetto alla eccezione del contratto a tempo determinato. La tendenza auspicata dalla parte confindustriale ad una interpretazione esile della temporaneità da parte del giudice ha alimentato l’idea che la norma avesse voluto introdurre una quasi totale liberalizzazione della facoltà di apposizione del termine.
E questo anche per una ragione più sottile connessa al ruolo del Diritto nel modello neoliberale in cui la regola giuridica viene concepita più come informazione per il mercato che come espressione della volontà generale.
Certamente è comunque passata l’informazione che l’assunzione a termine era più facile che in passato. Alla grande diffusione del contratto a tempo determinato si è accompagnato un notevole contenzioso, che, coniugato con la lentezza dei processi, ha dato luogo a cospicui importi risarcitori a carico delle imprese.
Nel settore pubblico il mantra della flessibilità coniugato con il contenimento della spesa pubblica e con il blocco delle assunzioni ha generato un eccessivo ricorso a questo strumento contrattuale nella convinzione che, esclusa la trasformazione nel contratto a tempo indeterminato in ipotesi di illegittimità del contratto a termine, per la regola costituzionale del pubblico concorso, nelle assunzioni del settore pubblico si potesse ricorrere al contratto a termine senza limiti.
In definitiva si è dato vita ad un esercito vero e proprio di giovani precari e ad una moltitudine di controversie.
Nel primo decennio del 2000 ho lavorato presso la sezione lavoro della Corte d’appello, partita come si è visto senza propri organici, e ricordo un’attività certamente rallentata dalla massa di controversie. Indico alcuni dati : i procedimenti nuovi iscritti nel 2006 sono stati 4615 di lavoro e 6621 di previdenza, per un totale di 11.236, con una leggera flessione rispetto al 2005, (11.720 totale di cui 4.377 lavoro) ma con numeri indomabili, se si considera che i procedimenti pendenti al 31.12.2005 erano 34.353 e che la media delle sentenze pro capite era di oltre 360 all’anno nel 2006. E questo dato, considerata la collegialità del rito, indicava una “produttività” oggettiva e sconsigliava chiunque dall’agitare il totem del “giudice fannullone”, per spiegare le pendenze e i ritardi.
Il giudice del lavoro, soprattutto in alcune sedi del sud, è stato obiettivamente schiacciato da una parte, da un numero crescente di cause, frutto talvolta anche dell’abuso del processo, soprattutto in materia previdenziale ed assistenziale e, dall’altra, dalla pressione dei tempi ragionevoli della giustizia e questo ha determinato, sia una crescente crisi della funzione svolta e, al tempo stesso, in alcuni casi, una tendenza alla sommarietà pur di raggiungere l’obiettivo di una rapida definizione dei processi.
Ovviamente queste considerazioni valgono per la mia esperienza territoriale svoltasi nel distretto di Corte d’appello di Napoli.
Al tempo stesso va evidenziato come le critiche alle garanzie del diritto sostanziale si nutrivano anche della lentezza del processo del lavoro e della insofferenza per un giudice accusato di eccessivo interventismo nelle scelte imprenditoriali soprattutto relativamente al contratto a tempo determinato.
Di contro, dal mio punto di osservazione è stato evidente che le imprese hanno potuto licenziare masse di lavoratori “protetti”, assumendo giovani lavoratori a tempo determinato. E questo grazie alla procedura di licenziamento collettivo in cui il controllo viene esercitato ex ante dal sindacato e dall’amministrazione e senza alcun vero sindacato del giudice che valuta solo il rispetto delle procedure e la trasparenza delle scelte. Sono gli anni dei licenziamenti borsistici in cui il downsizing delle aziende era diventato una necessità per competere nel mercato globale.
Nel campo del lavoro pubblico, il blocco delle assunzioni ha comportato molte assunzioni a temine estendendo il fenomeno del precariato anche al settore pubblico. Questo ha generato molte controversie risarcitorie.
Ma il ruolo del giudice del lavoro è stato importante e devo dire che l’esperienza in appello, nonostante i numeri si svolgeva ancora in un clima in cui la qualità della revisione della sentenza di primo grado era obiettivo principale.
Forse anche perché non si era ancora affermata del tutto l’idea della “giustizia manageriale”, protagonista assoluta del secondo decennio del nuovo secolo.
4. L’ultimo decennio 2010-2020
Il secondo decennio si è caratterizzato dunque per la piena affermazione della giustizia manageriale, attraverso il varo dei “programmi di gestione” nel 2011.
Ma prima ancora, nel campo del diritto del lavoro, il decennio si inaugura con un provvedimento legislativo che prosegue il trend iniziato con le riforme del 2003. Questa volta direttamente nel testo della legge si è inibito espressamente al giudice del lavoro di sindacare il merito delle scelte imprenditoriali (art. 30 legge 2010/183).
Questa legge inoltre ha ridimensionato notevolmente il controllo giudiziale degli atti imprenditoriali di fatto perché ha introdotto il doppio termine di decadenza per l’impugnazione giudiziale e stragiudiziale di contratti di lavoro a tempo determinato e per altre fattispecie analoghe.
Tali disposizioni hanno indubbiamente accelerato le impugnative, rendendo al tempo stesso inoppugnabili, in breve tempo, gli atti imprenditoriali di gestione del rapporto di lavoro davanti al giudice.
La giustizia del lavoro, in questo decennio, anche grazie ad altre riforme quali quella sul contributo unificato per le cause di lavoro, ha registrato un calo notevole di procedimenti nuovi iscritti sia in primo grado che in secondo grado.
Io ho potuto seguire questa fase perché da fine 2009 a fine 2017 sono tornata al processo di primo grado come presidente di sezione e, passando nuovamente in appello nel 2018, ho potuto constatare, anche in secondo grado, una notevole diminuzione delle controversie nuove iscritte rispetto al decennio precedente.
L’introduzione di un rito per le controversie previdenziali ed assistenziali, a partire dal 1.1.2012 con l‘art. 445 bis c.p.c., attraverso l’accertamento tecnico preventivo obbligatorio, contrariamente a tutte le previsioni dottrinarie, ha effettivamente alleggerito il processo di primo grado con una netta diminuzione della domanda nel settore previdenziale ed assistenziale afflitto da notevoli fenomeni di abuso del processo nelle aree del sud del paese.
L’eliminazione dell’appello per queste controversie, attuando un suggerimento già affacciatosi nella dottrina nei decenni precedenti, ha ridotto molto le cause sopravvenute nelle Corti d’appello del sud molto gravate da questo contenzioso.
L’introduzione del pagamento del contributo unificato nel luglio del 2011 e la riforma in materia di compensazione delle spese varata nel 2014 hanno avuto un effetto deflattivo.
Quest’ultima, a mio avviso, ha però comportato una forzatura, almeno sino all’intervento correttivo della Corte Costituzionale del 2018, perché ha ignorato la differenza tra le parti che sussiste nel processo del lavoro riflesso di quella disuguaglianza tra le parti del contratto da cui nasce proprio il diritto del lavoro in deroga al diritto civile delle obbligazioni.
Seguendo le indicazioni della premessa di questo breve scritto, è evidente che chi ritiene che questa situazione di disparità sia non più rilevante e degna di tutela, trova coerente che non sia stata prevista una disposizione particolare per le controversie di lavoro e che sia stata ridotta tout court la discrezionalità del giudice nella compensazione delle spese.
Credo si siano avute in quel periodo molte condanne alle spese della parte attrice soccombente – che è quasi sempre in primo grado il lavoratore - seguendo il criterio rigido della soccombenza senza considerare che appunto molte controversie nascono non sempre per abuso del processo, ma più spesso per aspettative di tutela soprattutto nelle controversie di lavoro.
Anche le oscillazioni della giurisprudenza di legittimità, giustificate spesso da una legislazione farraginosa, contribuiscono a creare aspettative di tutela.
L’affermazione piena della giustizia manageriale ha inciso grandemente sul ruolo del giudice del lavoro sempre più pressato dalla necessità di rapidità della decisione.
Nel decennio trascorso vi sono state numerose altre riforme, prima fra tutte la riforma del mercato del lavoro del 2012 che ha realizzato la annunciata e richiesta modifica dell’art. 18 Statuto innestando tutele alternative indennitarie alla tutela reale. La modifica ha inserito anche il nuovo rito specifico con la corsia preferenziale che, secondo me, ha retto bene nel senso che la rapidità di decisione è stata tendenzialmente assicurata anche nel giudizio di legittimità.
Va anche detto che, contrariamente ad altre precedenti riforme, questa riforma ha dimostrato maggiore fiducia nella funzione del giudice del lavoro, con la previsione, non senza critiche dottrinarie, di notevoli poteri interpretativi collegati alle diverse tutele relative al licenziamento illegittimo.
Si è giunti poi alle riforme che vanno sotto il nome del Jobs act che ha prima di tutto saldato il conto apertosi nel 2001 sulla causale del contratto a tempo determinato liberalizzandola.
E’ poi intervenuto sulla disciplina dei licenziamenti sterilizzando ulteriormente l’art. 18 e creando una diversità di tutele tra gli assunti prima e dopo il 7.3.2015.
Il ruolo della giurisprudenza del lavoro è stato rilevante in questa opera interpretativa delle nuove norme, che proprio rispondendo alle critiche di una eccessiva discrezionalità giudiziale collegata alla riforma del 2012, ha creato automatismi risarcitori poi bocciati nel 2018e nel 2020 dalla Corte costituzionale.
A conferma della perdurante importanza del giudice del lavoro ricordo appunto le questioni sollevate davanti al giudice delle leggi e quelle promosse alla corte UE della diversità di tutele fondata sulla data di assunzione.
La specializzazione del giudice del lavoro è un dato quindi importante per cogliere la coerenza interna dell’ordinamento giuridico in questo settore, proprio per il continuo legiferare che oltre a creare di per sé incertezza, insegue il mercato, perdendo di vista il sistema giuridico fondato anche sul bilanciamento dei diritti.
L’esame dell’ultimo decennio della mia esperienza di giudice del lavoro non sarebbe completo senza un cenno alle grandi novità organizzative rappresentate dall’ingresso del processo civile telematico che ha portato, soprattutto inizialmente, novità positive per i procedimenti speciali quali decreti ingiuntivi ed ATPO. In generale negli uffici napoletani già la informatizzazione dei registri di cancelleria, avvenuta a ridosso del nuovo decennio tra il 2007 ed il 2009, ha generato novità positive sul versante dell’abuso del processo evitando il cd “forum shopping” per le controversie seriali.
Grande impulso alla velocità del processo è stata data attraverso l’introduzione dei cd “programmi di gestione” nei quali annualmente si prevedono, da parte dei dirigenti degli uffici, le modalità di eliminazione degli arretrati. Tuttavia anche questi strumenti, incluso il varo del PCT, vanno guardati con obiettività e senza trionfalismi. La lettura degli atti in via telematica soprattutto quando scarseggia la sintesi, si presta a gestioni superficiali del processo così come l’eccessiva insistenza sul pedale della velocità della decisione può aver effetti negativi sulla tutela dei diritti e sul ruolo fondamentale del processo.
Ed infatti come ho detto in apertura di questo paragrafo, il decennio appena conclusosi, potrebbe essere denominato il decennio della giustizia manageriale.
La previsione dei programmi di gestione da parte dei capi degli uffici giudiziari ha impresso alla giustizia una vera e propria ossessione dello smaltimento che sembra doversi accentuare con i piani del PNRR, dopo la pandemia che ha nuovamente rallentato la giustizia.
5. Conclusioni
Riprendendo il tema della premessa sulle innovazioni tecnologiche e della vitalità del diritto e del processo del lavoro, va osservato che nel campo del lavoro sulle piattaforme digitali si è vista l’importanza della specializzazione.
Vi sono state decisioni giudiziali di merito e di legittimità che hanno compreso, grazie anche ad una letteratura estesa sull’argomento, la specificità del lavoro con le nuove tecnologie.
Mi riferisco alle decisioni riguardanti il lavoro dei riders che si svolge non in una fabbrica ma sul territorio attraverso la geolocalizzazione e l’intervento di algoritmi che si comportano come middle manager. Queste decisioni giudiziali, analoghe a quelle che sono state emesse anche da giudici del lavoro di altri paesi UE, intervenute negli ultimi anni, hanno dimostrato l’importanza della specializzazione del giudice oltre che degli avvocati e la rilevanza della professionalità del giudice e della conoscenza delle innovazioni tecnologiche che da sempre costituiscono l’oggetto della tutela nei confronti della tecnica predisposta dal diritto del lavoro fin dal suo apparire alla fine dell’800.
Allora, nel 1800 si trattava di protezione dagli infortuni del lavoro minorile e femminile, favorito dall’introduzione delle macchine, e di stabilire dei tetti all’orario di lavoro dopo la scoperta dell’energia elettrica.
Oggi si tratta di controllare adeguatamente gli algoritmi e gli strumenti tecnologici della geolocalizzazione in modo da evitare che si realizzino lesioni di diritti (quali il diritto di sciopero) e controlli dell’attività lavorativa al di fuori dei limiti consentiti.
La giurisprudenza di merito – mi riferisco alla nota decisione del Tribunale di Bologna sull’algoritmo FRANK, di cui ha parlato anche questa rivista – ha, in un certo senso anticipato quanto previsto nella proposta di direttiva UE del 9.12.2021 sul miglioramento delle condizioni di lavoro nelle piattaforme. In tale proposta di direttiva si promuove il criterio della trasparenza e controllabilità della gestione algoritmica. Nel caso giudiziario dell’algoritmo FRANK, eliminato dall’azienda nelle more del giudizio, il giudice ne ha sancito la illegittimità attraverso il parametro della discriminazione.
Resta quindi dimostrata non solo la perdurante vitalità del diritto del lavoro e dei giudici del lavoro e la necessità di mantenere ferma la specialità di questo ramo dell’ordinamento, ma anche la sua rinnovata importanza per il raggiungimento degli obiettivi di tutela della persona e di coesione sociale sempre più complessi nel nuovo millennio.