Testo integrale con note e bibliografia
1. Il contagio da coronavirus come infortunio sul lavoro e i presupposti dell’azione di regresso dell’INAIL
L’esplicita qualificazione legislativa del contagio da Covid-19 come infortunio sul lavoro ha sollevato numerose questioni sul piano giuridico. Inquadrando l’evento nella nozione di infortunio sul lavoro di cui all’art. 2 del d.p.r. n. 1124 del 1965 (T.U.), il legislatore non ha potuto esimersi, infatti, dal richiedere la sussistenza del requisito dell’occasione di lavoro ai fini dell’intervento della tutela previdenziale.
È inutile dire che l’art. 42, c. 2, del d.l. n. 18/2020, riferendosi ai «casi accertati di infezione da coronavirus (SARS- CoV-2) in occasione di lavoro», ha prodotto effetti ancora tutti da decifrare anche sul versante dell’azione di regresso dell’INAIL .
Come ho già argomentato altrove , l’unico significato che può essere ragionevolmente attribuito alla norma è quello di un accertamento presuntivo dell’occasione di lavoro che sarebbe peraltro coerente con il meccanismo delle assicurazioni sociali che definiscono l’evento protetto in funzione del bisogno presunto che la legge valuta come meritevole di protezione sociale.
La norma — come noto — è stata oggetto di una particolare lettura rispetto al significato dell’occasione di lavoro. Con le proprie circolari l’INAIL (n. 13 del 3 aprile 2020; n. 22 del 2 maggio 2020) ha introdotto una «presunzione semplice di origine professionale» dell’infezione per alcune categorie di lavoratori «esposti a un elevato rischio di contagio, aggravato fino a diventare specifico», precisando in seguito che la presunzione dell’occasione di lavoro richiede, comunque, anche per le attività più rischiose, «l’accertamento rigoroso dei fatti e delle circostanze che facciano fondatamente desumere che il contagio sia avvenuto in occasione di lavoro».
L’interpretazione dell’Inail ha finito così per identificare l’occasione di lavoro con l’esposizione ad un rischio qualificato, ponendosi nel solco del passato orientamento giurisprudenziale che condizionava l’indennizzabilità dell’evento al presupposto della gravità del rischio.
Ma la gravità del rischio non equivale all’imputabilità dell’evento sul piano civilistico e ancora meno su quello penalistico, sicché per comprendere gli spazi di esercizio del regresso in caso di infortunio-contagio è necessario interrogarsi sui presupposti di tale azione secondo la più recente rilettura offerta dai giudici di legittimità e in particolare dalla nota pronuncia della Cassazione n. 12041 del 2020 , la quale ha chiarito che l’accertamento incidentale in sede civile del fatto che costituisce reato, sia nel caso di azione proposta dal lavoratore, sia nel caso dell’azione di regresso proposta dall’I.N.A.I.L., deve essere condotto secondo le regole comuni della responsabilità contrattuale, anche in ordine all’elemento soggettivo della colpa ed al nesso causale fra fatto ed evento dannoso.
I giudici di legittimità sono pervenuti a questo risultato, muovendo, da un lato, dalla configurazione del regresso come diritto originario ed autonomo dell’ente previdenziale che agisce nei confronti del datore di lavoro e i suoi dipendenti per la soddisfazione di un proprio credito derivante dalla sussistenza della fattispecie di reato , e, dall’altro, dalla completa equiparazione dei presupposti di esercizio delle due azioni sancite dagli artt. 10 e 11 T.U., desumendo dall’espansione dei limiti dell’azione risarcitoria del lavoratore un’automatica e corrispondente dilatazione anche dei confini di esercizio dell’azione di regresso dell’I.N.A.I.L .
Ma a deporre in questo senso è soprattutto la funzione deterrente rispetto alla violazione delle norme in materia di sicurezza del lavoro che verrebbe inevitabilmente frustrata ove il regresso fosse sottoposto ad oneri probatori più gravosi rispetto all’azione risarcitoria dell’infortunato .
Il regresso in caso di contagio è dunque certamente agevolato dall’applicabilità delle presunzioni civilistiche derivanti dal combinato disposto di cui agli artt. 2087 e 1218 cod. civ. ma la questione non si esaurisce a tali aspetti.
2. L’imputabilità del contagio e la prova dell’inadempimento del datore di lavoro
Una volta chiarita l’applicazione di tali presunzioni anche all’azione di regresso dell’INAIL, rimane il problema dell’imputabilità dell’evento che presuppone non solo l’inadempimento del datore di lavoro ma anche la prova del nesso di causalità con il danno.
Con particolare riguardo all’inadempimento occorre tornare brevemente all’interpretazione dell’art. 42 del d.l. n. 18 del 2020.
La scelta di limitare la tutela indennitaria alle attività connotate presuntivamente da un maggior rischio aveva prestato il fianco alle critiche di quanti avevano ravvisato nella qualificazione del contagio come infortunio una presunzione di responsabilità del datore di lavoro.
Le critiche erano ovviamente infondate e strumentali giacché i due rimedi rispondono ad obiettivi e presupposti distinti, non potendosi confondere l’occasione di lavoro con l’imputabilità dell’evento, avendo anzi la prima proprio la storica funzione di superare i limiti della responsabilità civile per garantire protezione contro qualunque evento occasionato dal lavoro.
Una delle ragioni, se non la principale, della polemica risiedeva nel tentativo di sollevare strumentalmente il problema dell’imputazione del contagio per rivendicare l’esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile e penale in caso di infezione del lavoratore .
È di tutta evidenza, tuttavia, come una siffatta previsione avrebbe non solo sollevato fondati sospetti di incostituzionalità, ma si sarebbe posta altresì in controtendenza rispetto all’evoluzione della vera e propria regola dell’esonero già prevista in materia assicurativa dall’art. 10 del T.U. che è andata incontro ad un lungo processo di erosione fino quasi al suo completo superamento .
Un “nuovo” esonero riferito al rischio di contagio avrebbe peraltro finito per favorire i datori di lavoro che non avevano osservato le misure di prevenzione rispetto a quanti le avevano applicate scrupolosamente.
Sennonché, le richieste di una limitazione della responsabilità del datore di lavoro hanno comunque prodotto un qualche effetto, inducendo il legislatore ad intervenire con una disposizione che in realtà si limita a ribadire quanto poteva già desumersi dal rapporto tra norma generale e previsioni negoziali in materia di prevenzione del rischio da contagio .
Si tratta dell’art. 29-bis del d.l. n. 23/2020, introdotto in sede di conversione dalla l. n. 40/2020, il quale dispone che, limitatamente alla «tutela contro il rischio di contagio da Covid-19», «i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni» e «l’adozione e il mantenimento delle misure» previste nel Protocollo del 24.4.2020 e negli altri protocolli e linee guida nazionali e regionali, mentre ove gli stessi non trovino applicazione «rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale ove tali previsioni non trovino applicazione».
A differenza di alcuni emendamenti presentati in sede di conversione del decreto, la norma non prevede alcun esonero dalla responsabilità civile e tantomeno penale, chiarendo semplicemente che l’osservanza dei protocolli negoziali e delle linee guida definisce il livello di diligenza richiesto ai fini dell’adempimento dell’obbligo di sicurezza previsto dall’art. 2087 cod. civ.
L’art. 29-bis sembra così assumere una valenza meramente esplicativa del rapporto tra la norma generale codicistica e i protocolli di origine negoziale, i quali, tipizzando le misure innominate desumibili dalla prima, contribuiscono a definirne il contenuto e a individuare la condotta imposta al datore di lavoro. Ciò invero non significa che la prima sia stata sostituita da questi ultimi dal momento che non si comprenderebbe altrimenti il testuale riferimento all’adempimento dell’obbligo di cui all’art. 2087 cod. civ. che risulta così espressamente confermato dall’art. 29-bis.
Non pare corretto neppure ritenere che a causa del riferimento ai protocolli negoziali l’obbligo sancito dall’art. 2087 cod. civ. abbia perduto la sua intrinseca elasticità, dovendo il suo adempimento essere semplicemente valutato in funzione del parametro di diligenza costituito dalle misure previste dai protocolli anche ai fini dell’esercizio dell’azione di regresso dell’INAIL.
Da questo versante i protocolli negoziali rivelano, a ben vedere, una elasticità di contenuti che non sembra irrigidire in alcun modo il significato della norma codicistica. È sufficiente esaminare le previsioni contenute nel Protocollo del 24 aprile 2020 per rendersi conto che lo stesso impone al datore di lavoro l’adozione di una serie di misure – informazione ai lavoratori, modalità di accesso al luogo di lavoro, sanificazione degli ambienti, distanze di sicurezza, dispositivi di protezione individuale, gestione degli spazi comuni, spostamenti interni, organizzazione aziendale, etc. – che non solo devono essere sottoposte a verifica ed aggiornamento mediante l’obbligatoria costituzione in azienda di un comitato, al quale partecipano le r.s.a. e i r.l.s., ma anche ulteriormente specificate attraverso i protocolli aziendali.
È ragionevole allora supporre che, stante la previsione dell’art. 29-bis, il controllo giudiziale sull’adempimento dell’obbligo di sicurezza dell’art. 2087 cod. civ. si concentrerà sull’osservanza delle misure dettate dai protocolli generali e aziendali.
Questi ultimi e le relative previsioni non sembrano allora lasciare molto spazio ad eventuali ed ulteriori misure desumibili dall’art. 2087 cod. civ. . Se la norma codicistica impone, infatti, l’adozione non soltanto delle misure di sicurezza nominate ma anche di quelle innominate ricavabili da nozioni di comune esperienza, occorre altresì ammettere che i protocolli assumono un contenuto che non è statico ma dinamico, imponendo il costante aggiornamento delle relative misure di prevenzione, con l’effetto che qualunque misura innominata ritenuta necessaria può diventare nominata mediante il relativo recepimento nelle previsioni negoziali.
Per quanto, in linea di principio, non possa escludersi l’eventuale esistenza di ulteriori misure desumibili dall’art. 2087 cod. civ., pare ragionevole al contempo ritenere che le previsioni dei protocolli, ove puntualmente osservate e applicate, possano rappresentare un sicuro indice del puntuale adempimento dell’art. 2087 cod. civ., con inevitabili riflessi anche sul piano dell’autotutela del lavoratore rispetto alla loro effettiva osservanza.
Se l’osservanza dei protocolli negoziali costituisce adempimento dell’obbligo di sicurezza, occorre allora concludere che la relativa violazione costituirà inadempimento dell’art. 2087 cod. civ., integrando così uno dei presupposti richiesti ai fini dell’esercizio anche dell’azione di regresso dell’INAIL.
3. La prova (quasi impossibile) del nesso di causalità tra inadempimento e contagio
L’altro presupposto ai fini dell’imputazione civilistica dell’evento è costituito dal nesso di causalità ed è su questo piano che emergono i maggiori problemi tenuto conto dell’indimostrabilità scientifica dell’origine del contagio.
È vero che la giurisprudenza è solita mitigare il relativo onere probatorio, ammettendo, ove non sia possibile raggiungere la certezza scientifica dell’eziologia della malattia, che la causalità possa risultare da un criterio statistico in modo da «tradurre la conclusione probabilistica in certezza giudiziale» . È altrettanto vero, però, che il criterio di probabilità qualificata, implicando un confronto tra il contagio nell’ambiente esterno e quello nell’ambiente lavorativo, potrebbe agevolare la prova dell’eziologia lavorativa solo ove l’incidenza del contagio nel luogo di lavoro risulti superiore a quella dell’ambiente esterno, con il risultato che nelle aree geografiche con maggiore diffusione dell’epidemia la prova probabilistica del nesso causale potrebbe rivelarsi più difficoltosa o addirittura impossibile.
Non stupisce allora che a distanza di oltre due anni dall’inizio dell’epidemia e dopo oltre 270 mila denunce di infortunio da contagio , non sia emerso ancora un diffuso contenzioso in materia tanto dal versante delle azioni risarcitorie del lavoratore, quanto da quello delle azioni di regresso dell’ente previdenziale.
Il diffuso timore di una imputazione oggettiva dell’infezione in capo al datore di lavoro si è così rivelato del tutto infondato a conferma ancora volta delle molte «illusioni percettive» che hanno accompagnato l’intero dibattito sulla qualificazione del contagio come infortunio sul lavoro e sui relativi riflessi sul piano risarcitorio.