TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1. Cenni sistematici e del contratto
La complessità del rapporto subordinato ben si percepisce anche solo osservando la ricchezza delle obbligazioni che accompagnano “causa” e “oggetto” del contratto tipico, essenzialmente rinvenibili, come noto, nel lavoro retribuito.
In particolare, perseguendo interessi non meramente patrimoniali bensì concernenti, anche diritti inviolabili della persona, quali integrità psico-fisica (art. 32 Cost.) e dignità personale (artt. 2, 4 e 32 Cost.) del lavoratore , si è pervenuti, per il tramite dell’art. 2087 c.c., all’intenzionale integrazione del sinallagma , allocando sulla figura del datore di lavoro uno vero proprio “debito” - recte obbligazione - di sicurezza.
Ragion per cui, nel penetrante disegno di tutela, trascendente, dunque, l’ambito dei rapporti economici, pur nel necessario bilanciamento con essi , la suddetta attribuzione di responsabilità sta a confermare il ripudio di una concezione “patrimonialistica” dell’individuo, ponendo, al contrario, quale “centro di gravità del sistema”, proprio la persona del lavoratore , sancendo così un equilibrio “antropocentrico” nei rapporti collettivi, che trova oggi esplicito riscontro nel dettato costituzionale, essendo la libertà d’impresa indefettibilmente piegata al limite di «non […] recare danno alla salute» (art. 41 Cost.).
Sicché, dall’angolazione prettamente contrattuale, all’interno di un modello “collaborativo” , cioè condiviso fra una pluralità di “soggetti” , fra cui lo stesso prestatore subordinato, il quale, peraltro, irradiato dal precetto di auto-responsabilità (ma, si badi bene, non di auto-protezione) e dalla soggezione al potere direzionale (art. 2104 c. 2 c.c.), assorbe nella propria sfera debitoria esplicite obbligazioni funzionali alla sua salvaguardia , è il datore di lavoro ad assurgere alla c.d. “posizione di garanzia”.
Ruolo e funzione risolti nel concetto di “area di rischio”, che il medesimo, in qualità di “gestore”, è chiamato a valutare preventivamente (artt. 28 e ss. d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81), al fine di organizzare un sistema atto a prevenire, in modo efficace, l’inverarsi del pregiudizio di matrice professionale .
Tanto è vero, che l’ampissima estensione (v. infra § 2.) del perimetro di ipotizzabile pericolo affidato al titolare del contratto, pur senza coincidere con l’utopia del “rischio zero” , si arresta, esclusivamente, innanzi a condotte del lavorare del tutto estranee all’esecuzione del rapporto ossia nel caso in cui, egli stesso si dimostri artefice dell’alea.
Nello specifico, una consolidata tassonomia giurisprudenziale ravvisa questa evenienza in occasione di due macro-categorie di comportamenti: “abnormi”, cioè a tal punto negligenti e/o sconsiderati, da travalicare le cautele datoriali propriamente finalizzate a gestire, anche la condotta imprudente e generando in tal modo il c.d. rischio “eccentrico” ; “esorbitanti” o “personalissimi” , vale a dire avulsi dall’esercizio della prestazione e volontariamente intrapresi per ragioni, assolutamente soggettive e al di fuori dell’attività lavorativa nonché da essa prescindendo , attivando un rischio c.d. “elettivo”.
2. Segue: Il “contenuto” dell’obbligazione
Da ciò discende la natura atipica e residuale del “contenuto” dell’obbligazione ex art. 2087 c.c., il quale si materializza in un intreccio indissolubile di fattori di “fare” e di “non fare”, a cui il datore deve provvedere con l’obbiettivo di garantire che lo svolgimento del rapporto non si riveli fonte di pregiudizio per il lavoratore .
Segnatamente, avuto riguardo delle particolarità del lavoro in concreto svolto dai dipendenti , il soggetto a capo dell’impresa, oltre a dover integralmente conformarsi alle prescrizioni di legge , dovrà inoltre predisporre misure altre, c.d. “innominate” ossia suggerite, non solo dall’esperienza maturata con riferimento alla specifica lavorazione coinvolgente i lavoratori, ma anche, in ossequio al principio di “massima sicurezza tecnologicamente possibile” , in ragione delle tecniche o conoscenze sperimentali al momento disponibili .
Dunque, una fattispecie decisamente aperta quanto dinamica, tanto che il datore di lavoro, da una parte, non può limitarsi a predisporre le misure di sicurezza ritenute necessarie e a informare i dipendenti delle stesse, ma deve, altresì, attivarsi e controllarne, con prudente e continua diligenza, la puntuale osservazione ; dall’altra e in ogni caso, le stesse devono, comunque, assicurare l’incolumità dei prestatori, anche rispetto a rischi derivanti dall'azione di fattori “esterni”, non direttamente collegati al ciclo lavorativo .
3. La fattispecie della responsabilità risarcitoria: la problematica “causale”
Sin qui giunti, è bene evidenziare come le linee normative regolanti i rapporti fra salute del lavoratore e attività d’impresa seguano, come ratio e nel concreto, due connessi percorsi: l'uno, già cennato, volto a identificare, preventivamente, le regole di condotta che il datore di lavoro deve osservare a salvaguardia della sicurezza del prestatore, onde prevenire danni a beni fondamentali della persona; l'altro, che opera posteriormente, nel caso in cui tali danni si verifichino, inteso a delineare la fattispecie della responsabilità, in chiave riparatoria .
In tale prospettiva, occorre rifarsi, in prima battuta, alle regole proprie del diritto civile e, segnatamente, quale caposaldo della teoria del risarcimento del danno , alla problematica “causale” ovvero la relazione intercorrente tra condotta - quale premessa costitutiva di responsabilità - ed evento di danno, c.d. causalità “materiale” nonché tra quest’ultimo e le conseguenze risarcibili, c.d. causalità “giuridica”.
Dunque, una duplice correlazione che nel giudizio civile postula una valutazione in termini di collegamento naturalistico tra fatti, accertato sulla base delle cognizioni scientifiche del tempo e su basi logico-inferenziali .
In dettaglio, quanto al primo (danno - evento) dei due “momenti”, l’apprezzamento, di assodata matrice penale , risulta avvinto al criterio di c.d. “regolarità” causale o causale “adeguata”, sulla base del quale, all'interno della serie determinate, occorre dar rilievo solo a quegli eventi che non appaiano - ad una valutazione ex ante - del tutto inverosimili, nel solco della regola di preponderanza dell'evidenza o del “più probabile che non” .
Sicché, l’accertamento del nesso tra l’omissione/commissione del “gestore di rischio” (§ 1.) e l’evento pregiudizievole, passa attraverso un doveroso vaglio controfattuale ovverosia quell'operazione logica che, eliminando dalla realtà (contro i fatti) la condizione costituita da un determinato comportamento umano, verifica se il fatto oggetto del giudizio sarebbe egualmente accaduto .
Rispetto al secondo invece (danno - conseguenza), per quel che interessa qui , l’identificazione del legame è informato al criterio della conseguenzialità immediata e diretta del fatto lesivo (art. 1223 c.c.).
4. Segue: la “colpa” come criterio di imputazione
A chiusura del discorso, è poi da osservare come ogni forma di responsabilità contrattuale sia, per verità, connotata da una congiunzione di causalità e imputazione , intesa quest’ultima come necessità di giustificare in ragione di quale criterio, un certo evento risulta attribuibile a uno o più soggetti e perché costui o costoro siano chiamati al risarcimento dell’alterazione.
Per quanto attiene all’obbligazione ex art. 2087 c.c., occorre osservare come questa rientri fra le ipotesi di c.d. responsabilità per colpa “presunta” ossia nelle quali opera una presunzione, iuris tantum, di implicazione, alla quale comunque resta possibile, per il debitore, fornire prova contraria.
Tant’è che consolidata esegesi giurisprudenziale, peraltro sostenuta da precetti comuni alla disciplina delle obbligazioni , è ferma nell’escludere che, in specie, si verta di responsabilità oggettiva, propendendo piuttosto per una soluzione definitoria in termini di inadempimento “soggettivizzato” o, per così dire, “colpevolizzato” .
Ciò sta a significare che, una volta accertato il nesso eziologico tra attività lavorativa ed evento dannoso, il giudizio sull’imputabilità dell’infortunio sarà guidato dal criterio della colpa, intesa, sia sul versante oggettivo, cioè incentrato sulla condotta posta in essere in rapporto alla norma cautelare, sia sul versante soggettivo ossia rispetto alla concreta possibilità di esigere l’osservanza della stessa .
Sicché, il contenuto ampio (§ 2.) dell’obbligazione di sicurezza finisce col riflettersi su quello della prova liberatoria , la quale, per il datore di lavoro, in caso di omissione di misure di sicurezza espressamente previste dalla legge o da altra fonte vincolante (c.d. “nominate”), si esaurirà nella negazione degli stessi fatti adotti dal lavoratore; diversamente, ove le cautele debbano ricavarsi direttamente dall'articolo 2087 c.c. (c.d. “innominate”), sarà correlata alla quantificazione della misura di diligenza (art. 1176 c.c.) ritenuta esigibile nonché concretamente incidente dal punto di vista causale, secondo il già citato metodo controfattuale (§ 3.).
5. L’assetto degli oneri probatori: il principio di diritto
I tratti inerenti a causalità e imputazione, così come sopra delineati, emergono con evidenza anche dalla configurazione dell’assetto degli oneri probatori composto, nel tempo, dalla giurisprudenza di legittimità.
In particolare, pur con qualche variazione semantica, la Corte di Cassazione si è, con costanza, pronunciata affermando «che il riparto degli oneri probatori nella domanda di danno da infortunio sul lavoro si pone negli stessi termini dell'articolo 1218 c.c., circa l'inadempimento delle obbligazioni, da ciò discendendo che il lavoratore il quale lamenti di aver subito un danno […] deve allegare e provare l'esistenza dell'obbligazione lavorativa, l'esistenza del danno ed il nesso causale tra quest'ultimo e la prestazione, mentre il datore di lavoro deve provare la dipendenza del danno da causa a lui non imputabile […]» .
Avendo poi cura di puntualizzare come «la parte danneggiata è comunque soggetta all'onere di allegare e dimostrare […] anche le regole di condotta che assume essere state violate, provando che l'asserito debitore ha posto in essere un comportamento contrario o alle clausole contrattuali che disciplinano il rapporto o a norme inderogabili di legge o alle regole generali di correttezza e buona fede o alle misure che, nell'esercizio dell'impresa, debbono essere adottate per tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro» .
Così addossando, per intero, sul lavoratore, la dimostrazione del danno-evento ossia l’onere di allegare e provare la specifica misura cautelare pretermessa dal datore di lavoro.
Tuttavia, più di recente, la posizione assunta dalla Suprema Corte ha trovato ulteriore e radicata composizione, in un ricorrente principio di diritto (art. 384 c.p.c.) che compendia il carico probatorio del soggetto pregiudicato dall’attività professionale nel dover «provare, oltre all'esistenza di tale danno, la nocività dell'ambiente di lavoro, nonché il nesso tra l'una e l'altra, e solo se il lavoratore abbia fornito tale prova sussiste per il datore di lavoro l'onere di provare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno e che la malattia del dipendente non è ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi» .
6. Segue: L’equivoco sulla nocività dell’ambiente di lavoro
Sicché, anche solo da una rapida lettura dell’inciso giurisdizionale testé, immediati e percepibili emergono i passaggi testuali, fonte di potenziale equivoco interpretativo: da una parte, l’utilizzo del verbo «provare», indirizzato, come detto, al prestatore subordinato e che assume un significato ben preciso ovvero l’incombenza, a suo carico, di fornire elementi dimostrativi e/o conoscitivi di “fatti”, idonei a fondare il convincimento del giudice nel momento della decisione ; dall’altra e oggetto dell’onere che precede, l’introduzione della locuzione, a-tecnica, di «nocività dell’ambiente di lavoro», lasciando quindi più d’una perplessità circa il suo reale contenuto.
Speculazione tutt’altro che teorica e testimoniata dall’ormai cospicuo novero di recenti pronunciamenti nomofilattici, nei quali, pur confermando la fraseologia del summenzionato principio di diritto, quale espressione - a dire della stessa Cassazione - dei corretti postulati in tema di distribuzione degli oneri probatori, si bollano come «errore di diritto» le decisioni delle Corti inferiori, tutte fondate sulla ragione che i lavoratori ricorrenti non avessero fornito prova sufficiente, della sussistenza di specifiche omissioni datoriali nella predisposizione di misure preventive e/o protettive, suggerite dalla particolarità del lavoro, dall'esperienza, dalla tecnica e necessarie a evitare il danno.
Con l’esito che tali, censurabili, argomentazioni non potevano che essere destinate al “rinvio” in quanto «[finivano] con il porre a carico del lavoratore la dimostrazione della violazione da parte del datore di lavoro di specifiche misure antinfortunistiche - anche innominate- laddove il lavoratore era tenuto solo a dimostrare il nesso di causalità tra le mansioni espletate e la nocività dell'ambiente di lavoro restando a carico del datore di lavoro la prova di avere adottato tutte le misure (anche quelle cd. innominate) esigibili in concreto» .
6. Segue: Una soluzione di compromesso
Ciononostante, del tutto evidente è che la ferma negazione della sussistenza di un onere probatorio in capo al dipendente danneggiato circa le asserite omissioni cautelari del caso concreto, non risolve, comunque, la questione di “cosa”, allora, debba «provare» il medesimo ovvero, come anticipato, a cosa si alluda con la locuzione «nocività dell’ambiente di lavoro».
Cosicché, una possibile soluzione di compromesso, si rinviene indagando un recente filone interpretativo, formatosi in seno alla giurisprudenza di legittimità e sostanzialmente inaugurato con la sentenza di Cassazione del 25 ottobre 2021, n. 29909 .
L’analisi degli approdi in questione né evidenza, innanzitutto, il pregio di considerare il problema nella sua interezza, muovendo il ragionamento dalla natura e dagli effetti, sul contratto di lavoro, dell’art. 2087 c.c. e inquadrando - a parere di chi scrive, correttamente (§ 1. e 2.) - la disposizione codicistica, nella prospettiva del datore di lavoro, alla stregua di una vera e propria obbligazione da adempiere.
Ragion per cui, rifacendosi a consolidata esegesi della giurisprudenza civile , una prima e rilevante conseguenza è quella di appurare come, in verità, trovandosi il lavoratore nella condizione contrattuale di “creditore” - di sicurezza -, sul medesimo, almeno per quanto attiene al “danno-evento” (§ 3.), non possa certo gravare alcun onere probatorio, bensì, semmai, di allegazione.
A ben vedere, riscontri su tale convincimento, provengono anche dalla giurisprudenza lavoristica formata su specifici ambiti di tutela, i quali, ancorché mediatamente, rappresentano pur sempre una violazione dell’art. 2087 ovvero nelle ipotesi di “demansionamento” o “superlavoro” .
Effettivamente, in entrambe le fattispecie, approdi assolutamente maggioritari esplicitano, con chiarezza, come il prestatore «che lamenta un inesatto adempimento altrui rispetto a tale obbligo di sicurezza […] è tenuto ad allegare [e non “provare”] rigorosamente tale inadempimento, evidenziando i relativi fattori di rischio» .
E proprio il “fattore di rischio”, ritenuto dalla corrente esegetica in parola quale reale concetto celato dietro al termine “nocività dell’ambiente di lavoro” , consente di dirimere, almeno in parte, anche l’altro dubbio rimasto ossia il “contenuto” dell’allegazione anzidetta.
Infatti, se nelle fattispecie di “demansionamento” o “superlavoro”, così come in ipotesi di inosservanza di cautele c.d. “nominate”, l’essenziale deduzione attorea della fonte dalla quale scaturisce l’obbligo sarà, per il prestatore, relativamente semplice, risolvendosi la questione con la puntuale indicazione della norma/misura asseritamente violata, evidentemente diversa è l’evenienza in cui si verta di prescrizioni c.d. “innominate”.
In questo caso, il formante giurisprudenziale, muovendo dalla costatazione che l’onere di allegare il “fattore di rischio”, «consiste nel [dedurre la] presenza nell'ambiente di lavoro di un fattore morbigeno o di un elemento di pericolo per la integrità fisica del lavoratore, che in sé costituisce violazione dell'obbligo di protezione di cui all'articolo 2087 c.c.» , sostiene che lo stesso debba essere modulato - potrebbe leggersi anche attenuato - «a seconda delle concrete circostanze e della peculiarità e complessità della situazione che ha determinato la esposizione a pericolo del lavoratore, causalmente collegata al danno sofferto» .
Questo, per almeno due ordini di ragioni: di natura tecnico-processuale, essendo che, assodato l’onere datoriale di provare l’assenza di sua colpa, dimostrando di aver adottato tutti i comportamenti da lui esigibili, opinare diversamente ovvero, in sostanza, rovesciarne l’aspetto “descrittivo” in capo al prestatore, si tradurrebbe in una ingiustificata divaricazione fra incombenze di allegazione e prova ; e di natura “sostanziale”, poiché una volta che la concreta situazione di fatto, descritta dal lavoratore, «reca[…] in sé l'allegazione della nocività dell'ambiente di lavoro e consent[e] di individuare agevolmente la regola di condotta violata», vincolare il medesimo, ai fini dell’azione risarcitoria, alla specifica «individuazione delle condotte che astrattamente potevano pretendersi dal soggetto datore di lavoro[,] finirebbe per assumere un rilievo meramente formalistico, in contrasto con la esigenza di effettività di tutela e con la stessa natura primaria degli interessi coinvolti.» .
7. Brevi annotazioni conclusive
Ordunque, stante complessità e incertezze - in precedenza riassunte - del tema trattato, paiono opportune alcune brevi annotazioni conclusive a sostegno della bontà della soluzione adottata dalla giurisprudenza e in questa sede indagata.
In primo luogo, rispetto alla decrittazione di un principio di diritto assai nebuloso e che pare realmente viziato dalla non del tutto logica menzione della “prova”, riferita al lavoratore, nel segmento del danno-evento, pur discutendo in specie (art. 2087 c.c.), come detto, di una obbligazione contrattuale da adempiere.
Certo, versante datoriale, non si negano le implicazioni , processuali e di “sostanza”, derivanti dall’assorbimento pratico della causalità “materiale” nell’inadempimento ossia che, in tal modo, riguardo al reciproco gravame probatorio, al prestatore resti solo la dimostrazione della causalità “giuridica” (“danno-conseguenza”) .
Tuttavia, avvallare una simile ricostruzione, non solo, come esplicitato, risulta del tutto conferente alla monolitica regolazione dell’azione risarcitoria in ambito civile, ma trova anche e comunque un proprio temperamento nel requisito della, necessariamente, “rigorosa” allegazione.
In altri termini, soprattutto in casi, decisamente non infrequenti, in cui le supposte omissioni non trovino genesi nelle fonti primarie, non vi è dubbio che il ricorso introduttivo debba essere, comunque, sufficientemente circostanziato, tanto da realizzare una compiutezza assertiva o, perlomeno, quelle “piste probatorie” utili ad attivare i poteri istruttori del giudice, al noto fine di addivenire alla c.d. “verità materiale” della vicenda.
Cosicché, nello spazio “coperto” dalla norma del codice civile, questa visione dell’assetto del gravame probatorio, consente anche di meglio comprendere - e metabolizzare - recentissimi approdi di legittimità, intervenuti su domande di mobbing, sostanzialmente derubricate a straining e nelle quali la questione qualificatoria viene agevolmente superata, proprio in ragione dell’ampiezza degli elementi d’indagine comunque disponibili nel giudizio di cognizione.
Per vero, secondo i giudici di legittimità «se anche le diverse condotte denunciate dal lavoratore non si ricompongano in un unicum e non risultano, pertanto, complessivamente e cumulativamente idonee a destabilizzare l'equilibrio psico-fisico del lavoratore o a mortificare la sua dignità, ciò non esclude che tali condotte o alcune di esse, ancorché finalisticamente non accumunate, possano risultare, se esaminate separatamente e distintamente, lesive dei fondamentali diritti del lavoratore, costituzionalmente tutelati» di guisa che il loro accertamento «non può considerarsi impedito dall'eventuale originaria prospettazione della domanda giudiziale in termini di danno da mobbing [spettando] quindi, alla Corte territoriale accertare se le condotte denunciate fossero lesive dei diritti del lavoratore e verificare se vi fossero stati danni da stress-lavoro correlato, potendo, anche d'ufficio, modificare la originaria impostazione della domanda e valutare se, dagli elementi dedotti [id est “allegati”] - per caratteristiche, gravità, frustrazione personale o professionale, altre circostanze del caso concreto - potesse presuntivamente risalirsi (quanto meno) al fatto ignoto dell'esistenza di questo più tenue danno» .
A conclusione e anticipando le perplessità non fugabili sulla sostenibilità nonché valenza sistematica del ragionamento promosso, vale solo la pena far notare come, in fin dei conti, guardando anche a precedenti e altrettanto ingarbugliate vicende interpretative , le esplicitate ragioni di “effettività” della tutela del lavoratore” , quale parte contrattuale affetta da intrinseca debolezza e denotanti la vera “specialità” di disciplina e rito del lavoro, non di rado conducono a sintesi giurisdizionali che, ancorché non tecnicamente ineccepibili e, talvolta, financo creative, trovano, sostanzialmente, in detta unicità le vera e ultima ragion d’essere.