testo integrale con note e bibliografia
1. La sentenza 13806/2023: i punti salienti.
La sentenza della Cassazione 19 maggio 2023 n. 13806 riguarda una domanda di danno biologico del de cujus iure hereditatis e di danno patrimoniale e non patrimoniale iure proprio avanzata contro il datore di lavoro dagli eredi di un lavoratore deceduto per malattia professionale.
Essa ha cassato la sentenza d’appello che aveva fatto decorrere la prescrizione dalla pubblicazione della legge sul divieto di uso dell’amianto, per la sua carica morbigena.
Le sue affermazioni più importanti, e condivisibili, sono che la diffusione delle conoscenze scientifiche va riferita al personale sanitario, non al lavoratore, cui non può essere imputato il suo grado di istruzione o di intelligenza come colpa tanto grave da fargli perdere un diritto fondamentale, quale il diritto a rendita, e che la diligenza esigibile da costui è quella di rivolgersi a detto personale sanitario.
Ma per capire l’importanza di queste affermazioni, bisogna partire dall’inizio di questa lunga storia, e percorrerla per intero.
2. Da dove tutto è incominciato: l’art. 135 t.u. 1124 e l’intervento della Corte costituzionale.
Il problema della individuazione del momento di manifestazione della malattia professionale deriva dal carattere, lento, e spesso subdolo, della causa, dalla difficoltà di individuare il momento di raggiungimento del minimo indennizzabile, dal quale nasce il diritto alla prestazione previdenziale ed inizia a decorrere il relativo termine prescrizionale, a norma dell’art. 112 t.u., per far valere il diritto.
In principio vi era il combinato disposto degli artt. 112 e 135 t.u. 1124/1965, che faceva decorrere la prescrizione, per gli infortuni, dal giorno dell’evento; per le malattie professionali, dal primo giorno di completa astensione dal lavoro per malattia. In mancanza di astensione dal lavoro, l’art. 135, comma 2, individuava la manifestazione della malattia, con presunzione assoluta, nel giorno in cui l’interessato avesse presentato denuncia di malattia professionale, corredata di certificato medico, all’Istituto assicuratore.
Tale disciplina presenta molti aspetti positivi, ed alcuni negativi.
In positivo, gli artt. 112 e 135 t.u. dettavano un regime organico e coerente con le esigenze sia di certezza del diritto, sia di tutela del lavoratore assicurato, collocando la manifestazione della malattia in un evento esterno, e per ciò stesso oggettivamente incontrovertibile, e nello stesso tempo soggettivamente percepibile. Da tale giorno decorrevano sia il termine di prescrizione del diritto alle prestazioni previdenziali, sia l’inizio del procedimento amministrativo che comporta la sospensione della prescrizione stessa (art. 111 t.u.).
La decorrenza della prescrizione del diritto alle prestazioni per malattia professionale era quindi affidata, in ultima istanza, allo stesso assicurato. Una denuncia amministrativa tardiva, rispetto al raggiungimento del minimo indennizzabile, poteva far perdere i ratei pregressi, ma non pregiudicava il diritto alla rendita per il tempo futuro. In tal modo l’art. 135, comma 2, realizzava un sistema corrispondente a quello dei diritti previdenziali imprescrittibili .
In negativo si deve rilevare che il diritto alla rendita nasce con il raggiungimento del minimo indennizzabile. Se questo è successivo alla domanda amministrativa, la prescrizione, nel regime dell’art. 135 t.u., incominciava a decorrere da data anteriore alla nascita stessa del diritto, contro i fondamentali espressi dall’art. 2935 cc., per il quale la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere.
Inoltre, nei casi in cui la denuncia fosse presentata oltre il termine di indennizzabilità della malattia indicato nella colonna 3 delle tabelle, n. 4 e 5, dalla cessazione del lavoro, la presunzione assoluta avrebbe comportato la perdita del diritto, in quanto la malattia avrebbe dovuto essere considerata insorta oltre il termine in cui, con presunzione assoluta, si considera causata da un fattore lavorativo.
Ad entrambi gli inconvenienti ha inteso porre rimedio la Corte costituzionale, creando però, con le sue pronunce di illegittimità costituzionale, dei vuoti e delle fratture nel sistema, che la giurisprudenza di legittimità ha dovuto colmare e ricomporre in maniera da una parte organica ai principi generali, dall’altra coerente con le finalità espansive perseguite dalla Corte costituzionale, con un percorso travagliato ed altalenante cui Cass. 13806/2023 intende porre fine.
Con la sent. 8 luglio 1969, n. 116 , la Corte ha escluso che la nozione di manifestazione della malattia possa essere integrata da sintomi che non raggiungano il minimo indennizzabile.
Con la sent. 11/25 febbraio 1988, n. 206 , la Corte ha dichiarato illegittima la presunzione assoluta, al fine di evitare che una denuncia tardiva, successiva al periodo di indennizzabilità massima di cui alla tabella, colonna 3, potesse privare il lavoratore del diritto alle prestazioni previdenziali; essa è perciò lungi dal contestare l’esigenza di consapevolezza che la nozione di manifestazione implica. Infatti con la successiva sent. 17/31 gennaio 1991, n. 31 la Corte intende per manifestazione «ogni emersione della malattia, per segni o per sintomi, che sia univoca, e quindi idonea a rendere edotto l’assicurato dell’esistenza della malattia stessa e della sua incidenza sull’attitudine lavorativa, e a consentirgli quindi di poter utilmente far valere il proprio diritto».
3. Gli sbandamenti della giurisprudenza di merito.
Il venir meno della presunzione assoluta e delle certezze ad essa correlate ha indotto la giurisprudenza di merito, nella ricerca di nuovi ancoraggi, a privilegiare la manifestazione obiettiva, individuabile mediante valutazioni medico-legali, anche per la preoccupazione di evitare che una nozione di manifestazione della malattia esclusivamente soggettiva potesse condurre all’ammissibilità di domande ad libitum. Succedeva così che se la ctu medico legale disposta in corso di causa accertava che la malattia aveva raggiunto la soglia indennizzabile molti anni prima, il giudice del merito rigettava la domanda per intervenuta prescrizione .
4. La sistemazione di Cass. 5090/2001 e la sua chiave: il sistema delle presunzioni del codice civile.
La Corte di legittimità ha bocciato tale orientamento e, in sintonia con la Corte costituzionale, ha ricondotto il problema alla disciplina delle presunzioni semplici (artt. 2727 e 2729 c.c.).
Il merito della ricostruzione sistemica più completa va attribuito a Cass. 5090/2001, est. Prestipino.
Essa, e la copiosa giurisprudenza successiva, con formula ormai tralaticia, afferma: “La manifestazione della malattia professionale, rilevante quale dies a quo per la decorrenza del termine prescrizionale di cui all’art. 112 d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124, può ritenersi verificata solo quando la consapevolezza circa l’esistenza della malattia, la sua origine professionale ed il suo grado invalidante sia desumibile da eventi oggettivi ed esterni alla persona dell’assicurato, che costituiscano fatto noto ai sensi degli artt. 2727 e 2729 c.c., quali la domanda amministrativa (con valore di presunzione semplice), certificati medici che attestino l’esistenza ed il grado invalidante della malattia al momento della certificazione, od altri fatti noti dai quali sia possibile trarre presunzioni gravi, precise e concordanti circa lo stato soggettivo di consapevolezza dell’assicurato” .
Ed è proprio a questa giurisprudenza che la Corte costituzionale fa riferimento per legittimare la prescrizione triennale dell’art. 112 t.u. 1124, in quanto decorrente dalla piena consapevolezza dell’ assicurato dei propri diritti e dei fatti da cui quelli originano .
Le motivazioni di tali sentenze offrono preziose precisazioni ed indicazioni:
a) per fatto noto si deve intendere un fatto indiscutibilmente certo (Cass. 5090/2001 cit.); nulla a che vedere quindi con il fatto notorio di cui all’art. 115, comma 2, c.p.c., e cioè con le nozioni di fatto che entrano nella comune esperienza, quali, ad es., le conoscenze scientifiche di un certo ambiente ad un determinato momento;
b) per questo motivo non si può porre a base del processo presuntivo un fatto la cui esistenza venga ricavata da un’altra presunzione, o da un giudizio di sola probabilità o possibilità; non è sufficiente la mera verosimiglianza che l’assicurato si sia reso conto della malattia, della sua origine professionale e del grado invalidante ;
c) il fatto noto, come si desume dall’analisi delle fattispecie esaminate, e dalla ratio del ragionamento, deve inerire alla persona dell’assicurato;
d) le presunzioni, a norma dell’art. 2929, devono essere gravi, precise e concordanti;
e) la consapevolezza, e cioè la conoscenza soggettiva dell’assicurato, per fondare un pronuncia di estinzione del diritto per avvenuta prescrizione, deve essere verificata senza alcun grado di incertezza;
f) per conoscibilità si deve intendere non la possibilità di conoscenza da parte di un ineffabile uomo medio, ma la soggettiva possibilità che i tre elementi del fatto siano conosciuti dal soggetto interessato .
In base a questi principi le sentenze successive hanno ritenuto elementi oggettivi ed esterni, costituenti presunzioni gravi, precise e concordanti da cui presumere la consapevolezza soggettiva:
- domanda amministrativa, recuperata dal testo originario dell’art. 135 come presunzione semplice, quale fatto noto per presumere la conoscenza della malattia professionale . Naturalmente, trattandosi di presunzione semplice, ove sia accertata la consapevolezza, nei termini sopra indicati, la prescrizione può decorrere da momento anteriore alla domanda amministrativa ;
- diagnosi medica, dal momento della sua comunicazione all’interessato, dalla quale la malattia sia riconoscibile per l’assicurato ;
- esami diagnostici, che vanno però distinti dal certificato medico, e ne va valutata la autonoma intelligibilità. Nel caso di un esame audiometrico, ad es., da esso può desumersi la consapevolezza se accompagnato da certificato medico che lo renda intelligibile anche al profano, o da altre circostanze del medesimo significato ;
-ctu espletata in diverso giudizio, instaurato dal lavoratore contro il datore di lavoro, che attesti i tre elementi: malattia, origine professionale, minimo indennizzabile .
5. Il ritorno dell’Inquisizione: la conoscibilità oggettiva e l’irrilevanza delle condizioni soggettive del lavoratore.
Eppure, nonostante la chiarezza dei principi sopra richiamati e la copiosa casistica applicativa accennata, alcune incertezze ed ambiguità rimangono, e sono accentuate nella giurisprudenza più recente, a partire dagli anni 10 di questo secolo.
Si deve riconoscere che la giurisprudenza ha sempre inteso la conoscibilità come percezione soggettiva che il diretto interessato ha dei tre elementi (malattia, raggiungimento del minimo indennizzabile, origine professionale), “o che potrebbe avere usando l’ordinaria diligenza”. È quella che si dice oggettiva conoscibilità.
Questa nozione è stata oggetto di diverse interpretazioni, alcune foriere di ingiuste negazioni di diritti fondamentali.
La circolare Inail 28 novembre 2005, n. 7187-bis (sulla prescrizione della rendita ai superstiti) intende per oggettiva conoscibilità “la possibilità di desumere, da fatti obiettivi, esterni al soggetto e liberamente provabili, la ragionevole consapevolezza della causa lavorativa del decesso”, in perfetta sintonia e richiamando la giurisprudenza di legittimità del tempo .
Ma, nell’esemplificare gli elementi da cui dedurre tale conoscibilità oggettiva, la stessa circolare equipara all’evento oggettivo ed esterno la inclusione della malattia nella tabella.
Alcune recenti sentenze poi specificano: la conoscibilità va intesa in senso oggettivo, ed è la possibilità che un determinato elemento sia riconoscibile in base alle conoscenze scientifiche del momento, e a tal fine non rileva il grado di conoscenza e di cultura del soggetto interessato dalla malattia, e neppure la mancata informazione da parte del datore di lavoro dei rischi esistenti nell’ambiente lavorativo . Altre, con formula più esoterica, affermano: la manifestazione è la forma oggettiva che assume il fatto, nel suo essere manifesto, e che consente al fatto stesso di essere conosciuto; in definitiva è l’oggettiva possibilità che il fatto sia conosciuto dal suo diretto interessato, e cioè la sua conoscibilità.
Tutta questa enfasi oggettivistica, per evitare di cadere nella “pura soggettività”.
A noi sembra che debba essere esclusa in apicibus la ipotesi che la inclusione di una determinata malattia nella tabella valga ad istituire una presunzione di conoscenza. Questa tesi svuoterebbe di qualsiasi funzione la previsione dell’art. 135 t.u. 1124 e tutta l’elaborazione giurisprudenziale sopra riportata; è contraria alla stessa funzione della tabella, enunciata nell’art. 3 t.u., diretta ad istituire una presunzione legale relativa di origine professionale, al fine di liberare il lavoratore dall’onere della prova corrispondente, e così accrescere le sue tutele ex art. 38 cost. e t.u. 1124, e non, al contrario, privarlo, con la rilevanza della conoscenza oggettiva e cioè degli altri, di un diritto previdenziale fondamentale.
Il problema che si pone in pratica è quello dei lavoratori occupati in settori produttivi notoriamente soggetti a determinati rischi, ad es. produzione o impiego di amianto, o in ambienti rumorosi .
In questi casi il dilemma è: è necessario che la certificazione medica menzioni anche il nesso causale con l’attività morbigena, o si può pretendere che il lavoratore, usando l’ordinaria diligenza, si renda conto da sé della causa professionale della malattia diagnosticata? Ad es. perché ne hanno parlato i mezzi di informazione, o perché altri colleghi si sono già ammalati della stessa malattia. E in cosa dovrebbe consistere questa diligenza: nel coltivare le conoscenze scientifiche? E in caso di contrasti nel mondo scientifico? Nel seguire i mezzi di informazione, i famosi media? Di quale livello e affidabilità? nell’intuire che una determinata patologia, analoga a quella di colleghi, ha origine professionale, quando sono noti i processi di rimozione psicologica che perfino i medici subiscono per le più gravi patologie da cui possano essere affetti essi stessi? E con quale animo si può affermare l’irrilevanza delle condizioni culturali e sociali di una persona? E soprattutto, quali sono i criteri per la collocazione temporale di siffatta conoscenza del raggiungimento del minimo indennizzabile, da cui nasce il diritto ed inizia a decorrere la prescrizione estintiva dello stesso, con quel grado di certezza e obiettività richiesti per la decorrenza della prescrizione di diritti fondamentali?
6. La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo.
Ma a queste recenti preoccupazioni di pura soggettività risponde, meglio di noi, la Corte Europea dei diritti dell’uomo, che ricomprende nella garanzia di processo equo sancita dal primo comma dell’art. 6 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo anche la gestione di alcune limitazioni, quali la prescrizione e la decadenza. Questi istituti, presenti nella generalità degli ordinamenti degli Stati europei, non sono di per sé vietati dall’art. 6, ma sono consentiti nella misura in cui perseguano uno scopo legittimo, siano proporzionali allo scopo e non pregiudichino nella sostanza la effettiva tutela dei diritti. Sulla base di tali principi, la Corte ha statuito che vìola l’art. 6 in questione la legge sulla previdenza sociale della Confederazione svizzera, la quale fa decorrere la prescrizione del diritto alle prestazioni in un anno dal giorno in cui la parte lesa ha avuto conoscenza del danno e del suo autore (disposizione conforme all’art. 6) e comunque entro dieci anni dal fatto (disposizione difforme, perché non consente la tutela nel caso di malattie lungolatenti derivanti da esposizione ad amianto, come nel caso oggetto di giudizio).
In precedenza la stessa Corte aveva sanzionato la norma dell’ordinamento turco che precludeva, per prescrizione, il risarcimento danni nel caso di un militare, coinvolto in un conflitto a fuoco, che aveva scoperto dopo 17 anni dal fatto la presenza nel proprio organismo di un proiettile, ignorato dai precedenti esami; in tale occasione la Corte ha enunciato il principio che nelle questioni di lesione dell’integrità fisica, la parte lesa deve aver il diritto di agire quando è personalmente ed effettivamente in grado di valutare il danno subito .
Da queste ed altre sentenze la dottrina ha dedotto che il suggerimento che proviene dall’Alta Corte è di preferire, alla fissità delle impostazioni tradizionali, la mobilità del dies a quo dei termini prescrizionali, sulla base di una valutazione caso per caso, da effettuare con il parametro della equità e della ragionevolezza.
A ben vedere, la stessa indicazione aveva già dato, nel 1988, la nostra Corte costituzionale con la sentenza 206 abolitiva della presunzione assoluta dell’art. 135 t.u. 1124.
7. L’inquadramento delle Sezioni unite del tema generale dei danni lungolatenti.
Il medesimo ordine di considerazioni è alla base dell’assetto giurisprudenziale relativo alla prescrizione di diritti diversi, per i quali la giurisprudenza di legittimità ha svolto una energica rivisitazione delle norme codicistiche in modo da assicurare una maggiore protezione del danneggiato dalla tagliola della prescrizione del suo diritto .
La prescrizione è un evento , in quanto comporta l’estinzione istantanea di un diritto; il termine prescrizionale è un periodo, che deve iniziare correlativamente da un evento, una data, un dies a quo, un giorno, come si esprime l’art. 2935 c.c. per il quale la prescrizione comincia a decorrere dal giorno in cui il diritto può essere fatto valere.
Le Sezioni Unite, affrontando una fattispecie di risarcimento del danno alla salute causato da emotrasfusione con sangue infetto, hanno collocato il tema nel quadro più ampio dei danni lungolatenti, ed hanno operato un duplice passaggio (o, per usare i termini della sentenza, ribaltamento degli schemi degli artt. 2935 e 2947 del 1942)): dal verificarsi del danno alla sua manifestazione esteriore; dalla manifestazione alla consapevolezza soggettiva dell’interessato della rapportabilità causale del danno; detta consapevolezza non costituisce un impedimento soggettivo all’esercizio del diritto, come tale irrilevante, bensì una oggettiva mancanza di conoscenza . Esse hanno statuito: Il diritto al risarcimento del danno da parte di chi assume di aver contratto patologie causate da HBV, HCV o HIV per fatto doloso o colposo di un terzo è soggetto al termine di prescrizione quinquennale, che decorre, a norma dell’art. 2935 c.c. e art. 2947 c.c., comma 1, non dal giorno in cui l’evento determina la modificazione causativa del danno o dal momento in cui la malattia si manifesta all’esterno, bensì da quello in cui tale malattia viene percepita o può essere percepita, quale danno ingiusto conseguente al comportamento del terzo, usando l’ordinaria diligenza e tenendo conto della diffusione delle conoscenze scientifiche.
E come per le malattie professionali, anche per queste lungolatenze gli indici più sicuri della consapevolezza dell’interessato e di percezione della malattia, da cui far decorrere la prescrizione, sono la certificazione medica e la domanda amministrativa .
Ancora: ai fini dell’individuazione dell’“exordium praescriptionis”, una volta dimostrata dalla vittima la data di presentazione della domanda amministrativa di erogazione dell’indennizzo previsto dalla l. n. 210 del 1992, spetta alla controparte dimostrare che già prima di quella data il danneggiato conosceva o poteva conoscere, con l’ordinaria diligenza, l’esistenza della malattia e la sua riconducibilità causale alla trasfusione anche per mezzo di presunzioni semplici, sempre che il fatto noto dal quale risalire a quello ignoto sia circostanza obiettivamente certa e non mera ipotesi o congettura, pena la violazione del divieto del ricorso alle “praesumptiones de praesumpto” .
Rilevante è anche la sent. Corte cost. 9 febbraio 2023 n. 35, che ha dichiarato la illegittimità costituzionale dell’art. 3, comma 1, legge 210/1992, nella parte in cui, al secondo periodo, dopo le parole “conoscenza del danno” non prevede “e della sua indennizzabilità”. Si tratta di questo: la legge 210/1992, dopo avere introdotto, su impulso della stessa Corte costituzionale (sent. 307/1990) l’obbligo per lo Stato di un’equa indennità a favore dei soggetti danneggiati da complicanze di tipo irreversibile a causa di vaccinazioni obbligatorie ed emotrasfusioni, ha posto per la presentazione della domanda un termine perentorio di tre anni nel caso di vaccinazioni o di dieci anni nei casi di infezioni da HIV, decorrenti dal momento in cui l'avente diritto risulti aver avuto conoscenza del danno. Con altre sentenze la stessa Corte ha esteso l’obbligo di indennizzo anche a diverse altre vaccinazioni, semplicemente raccomandate , in data successiva al triennio dalla conoscenza del danno, sicché l’interessato risultava fuori tempo per ottenere l’indennizzo. Di qui la sentenza 35/2023, per la quale non basta la conoscenza del danno, ma occorre altresì la conoscenza di tutti gli elementi relativi alla sua rilevanza giuridica ed azionabilità .
Questa sentenza ci sembra rilevante per il tema in esame, perché pone la persona al centro della disciplina delle concrete condizioni per l’esercizio del suo diritto alla sicurezza sociale.
E la giurisprudenza, sia ordinaria sia amministrativa, ha applicato tali principi nelle varie branche del diritto e delle prestazioni previdenziali ed assistenziali:
-Per l’equo indennizzo la giurisprudenza amministrativa pretende, ai fini del decorso del termine di prescrizione o di decadenza del diritto, la piena conoscenza, da parte del pubblico dipendente, della natura della contratta infermità, della gravità delle sue conseguenze invalidanti, e del nesso causale con il servizio .
-Per il diritto alla rivalutazione contributiva ex art. 13, comma 8, l. n. 257 del 1992 (sulla cessazione dell’impiego dell’amianto, con connesi benefici pensionistici per il pensionamento anticipato), la giurisprudenza di legittimità e quella della Corte dei Conti hanno statuito che, trattandosi di eventi dannosi di tipo lungolatente, il dies a quo della prescrizione del diritto al riconoscimento della rivalutazione contributiva non può decorrere se non dal momento in cui il titolare abbia avuto conoscenza della titolarità del diritto.
-per l’azione risarcitoria nei confronti del datore di lavoro per responsabilità contrattuale ex art. 2087 c.c. per danno da malattia professionale, la prescrizione decennale decorre dal momento in cui il danno si è manifestato, divenendo percepibile e riconoscibile dal danneggiato .
8. La coerenza con tali ultimi precedenti di Cass. 13806/2023 ed il suo valore aggiunto.
Cass. 13806/2023 premette che al danno biologico, oggetto specifico della causa, si applicano, in tema di prescrizione, i medesimi criteri dell’azione diretta a conseguire la rendita da inabilità permanente nei confronti dell’Inail, come già affermato a partire da Cass. 10441/2007, e cioè che la prescrizione decorre dal momento in cui uno o più fatti concorrenti forniscano certezza della conoscibilità da parte dell'assicurato dello stato morboso, della sua eziologia professionale e del raggiungimento della misura minima indennizzabile. E lo stesso vale per i superstiti (punto 18).
Esamina poi congiuntamente i primi tre motivi di ricorso, che attengono alla questione del dies a quo del termine di prescrizione dell’azione risarcitoria proposta dagli eredi del lavoratore per i danni conseguenti alla malattia professionale dal medesimo contratta nel corso del rapporto e che ne ha causato il decesso.
La sentenza d’appello aveva individuato, quale dies a quo, l'entrata in vigore del d.lgs. n. 277/91, che ha predisposto cautele per i lavoratori esposti all'amianto, ed ha collegato a tale evento legislativo la possibilità degli eredi di percepire la malattia del de cuius “come conseguenza del comportamento del datore di lavoro che aveva esposto il dipendente all'inalazione di polveri così pericolose da esserne vietata la lavorazione (la famosa conoscibilità).
A questo punto approfondisce la nozione di conoscibilità, ed a questo scopo parte proprio dalle Sezioni Unite 576/2008 per applicare i medesimi principi da essa enunciati in generale per i danni lungolatenti ed in particolare per i danni da emotrasfusione al tema specifico delle malattie professionali.
Ribadisce che la malattia non è idonea di per sé a concretizzare il fatto che l’art. 2947 c.c. comma 1, individua quale esordio della prescrizione, e che la sentenza n. 576 non dà rilievo, ai fini della decorrenza della prescrizione, alla mera conoscibilità soggettiva del danneggiato, ma àncora il citato termine a due parametri obiettivi, l'uno interno e l'altro esterno al soggetto: da un lato al parametro dell'ordinaria diligenza, dall'altro al livello di conoscenze scientifiche dell'epoca, riferiti però non alla persona del lavoratore, come affermato erroneamente dalle sentenze citate a nota 16, bensì al personale ed alla struttura sanitaria. Il giudice del merito dovrà accertare se la riconducibilità di una determinata patologia a specifiche condizioni nocive dell’ambiente di lavoro fosse nota alla comunità scientifica.
Posta questa pietra miliare, la sentenza precisa che la mancata conoscenza della malattia e del rapporto di causalità della stessa con l’attività lavorativa costituisce un impedimento giuridico all'esercizio del diritto, e non consente quindi il decorso della prescrizione.
Precisa ancora che il difetto di ordinaria diligenza si risolve in un giudizio di colpevolezza sulla inerzia del lavoratore (o dei suoi eredi) nell’accedere a queste benedette conoscenze scientifiche e comprendere il proprio stato di malattia e gli altri elementi della triade, che possa essere imputata al medesimo (punto 25).
Giunti a questo punto del percorso ricostruttivo, dobbiamo rilevare che la giurisprudenza, enunciato il principio generale dell’onere di diligenza, non indica specifici comportamenti che la integrino; dà comunque preziose indicazioni alla dottrina sulle fattispecie, che sono quelle che contano, e da cui dedurre i principi: non integra negligenza la mera, quand’anche continua, frequentazione di ambienti sanitari o medici, né sussiste un onere per il danneggiato (o, nella specie, per i genitori del contagiato minorenne affetto da talassemia fin da tenerissima età) di rivolgersi a soggetti tecnicamente qualificati, per acquisire idonea consapevolezza anche della rapportabilità causale della malattia alle trasfusioni, dovendo a tal fine il giudice del merito verificare, in base alla storia clinica del leso, se e in quale momento o fase del suo sviluppo siano stati acquisiti od acquisibili elementi specifici sul punto, legati alla sua situazione personale, in base a specifici ulteriori diagnosi od accertamenti clinici cui egli sia stato sottoposto nel corso della sua vita dopo il riscontro dell’avvenuto contagio.
Forse questa è la chiave risolutiva: la storia clinica del leso (leggi, nella nostra materia delle malattie professionali, del tecnopatico). Ma la storia clinica è fatta di documenti clinici, e ritorniamo così all’impostazione originaria di Cass. 5090/2021: elementi obiettivi ed esterni.
Per quanto riguarda la conoscibilità del nesso causale della malattia con l’ambiente morbigeno può essere utile la proposta basata sull’art. 36 d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81, il quale impone al datore di lavoro di fornire a ciascun lavoratore adeguata informazione sui rischi per la salute, specificando che il contenuto della informazione deve essere facilmente comprensibile per i lavoratori e deve consentire loro di acquisire le relative conoscenze; e certo non è mai stato sostenuto che questo obbligo possa essere sostituito dal fatto notorio . E nella stessa direzione va la direttiva (UE) 2019/1152 del Parlamento europeo e del Consiglio del 20 giugno 2019, relativa a condizioni di lavoro trasparenti e prevedibili, recepita nel nostro Paese dal d.lgs. 27 giugno 2022, n. 104, il cui art. 4 impone al datore di lavoro di fornire al lavoratore informazioni precise anche sulla sicurezza.
Ma nessuna conoscibilità e ordinaria diligenza può essere invocata per quanto riguarda il raggiungimento del minimo indennizzabile, uno dei tre elementi fondamentali della triade: per questo elemento, essenziale per il decorso della prescrizione, solo la storia clinica documentale può dare una risposta.
9. Conclusioni.
Ci sono tre circostanze che rendono la sentenza 13806/2023 particolarmente importante.
La causa, inizialmente assegnata alla sezione stralcio, per la sua apparente semplicità, è stata da questa trasmessa alla sezione IV, per la trattazione in pubblica udienza, il che disvela la consapevolezza dell’esistenza di un problema di nomofilachia.
Il collegio risulta presieduto dal presidente titolare della sezione lavoro, già presidente della Corte europea dei diritti dell’uomo che ha emesso le due sentenze indicate al par. 6.
La sua ampia, approfondita ed esaustiva motivazione esprime la volontà di mettere un punto fermo sulla annosa questione della decorrenza della prescrizione del diritto a rendita per malattia professionale, in applicazione della politica organizzativa attuale di affidare in via prioritaria alle singole sezioni della Corte i conflitti interni alle stesse.
E ciò fa risalendo alle origini delle Sezioni unite 576 e prendendo posizione netta sulle ambiguità sorte successivamente che affermano essere sufficiente la oggettiva conoscibilità: non è sufficiente la mera consapevolezza della vittima di ‘stare male’, bensì occorre che quest'ultima si trovi nella possibilità di apprezzare la ‘gravità’ delle conseguenze lesive della sua salute anche con riferimento alla loro ‘rilevanza giuridica… in “tutta una serie di casi… la vittima, senza sua negligenza, si trova ad ignorare la causa del suo stato psicofisico o, al massimo, può sul punto formulare mere ipotesi, prive tuttavia di riscontri sufficientemente oggettivi” (punto 14).
Abbiamo detto sopra del dato esperienziale di quei medici che, presi dalla passione di curare gli altri, trascurano sé stessi, e rimuovono psicologicamente, o sottovalutano, o comunque non approfondiscono i primi sintomi del malessere, magari all’inizio silente, finché non si risolvono a fare un esame che disvela la gravità del male, a volte allo stadio terminale. Li accuseremo di difetto di ordinaria diligenza per questa condotta di vita, e chi avrà l’animo di negar loro un diritto previdenziale fondamentale, per tale comportamento?
Ma, più radicalmente, la ordinaria diligenza nell’acquisire le conoscenze scientifiche, privata dalla sentenza in commento del suo riferimento alla persona dell’assicurato, diventa altresì priva di autore e di oggetto. Così miniaturizzata come onere di rivolgersi ad un sanitario, depositario delle conoscenze scientifiche, diventa qualcosa di impalpabile, incommensurabile, per mancanza di parametri imperativi di riferimento, ed anche un pò paranoico. Quante volte, figliuolo, una volta l’anno, ogni sei mesi? E se uno non si sente niente? O è uno stoico?
L’unico caso possibile di inerzia colpevole e perciò imputabile ci sembra quello dell’assicurato che, in possesso di dati documentali da cui risulti la famosa triade, non si attivi per chiedere la prestazione. Ma in tal caso è ovvio che la prescrizione decorra dalla data del dato clinico obiettivo ed esterno, del quale l’interessato abbia avuto conoscenza, e non c’è bisogno di ulteriori strumenti concettuali.
La categoria dell’onere della ordinaria diligenza nell’accedere alle conoscenze scientifiche e nel conseguente attivarsi per chiedere la prestazione ci sembra perciò una superfetazione indefinibile, inutile e pericolosa.
Così reinterpretato il quadro normativo dopo l’abolizione della presunzione assoluta, sulla scia di Cass. 5090/2001, S.U. 576/2008 e Cass. 13806/2023 in commento, da una parte permangono inalterate quelle esigenze di certezza che la presunzione assoluta voleva garantire, dall’altra viene fugato ogni timore di imprescrittibilità del diritto o di pura soggettività.