testo integrale con note e bibliografia
1. Premessa.
Potrebbe apparire non necessario ricordare il contenuto dell’art. 28 del d.lgs. 81 del 2008 (di seguito TU), ampiamente indagato , se non fosse funzionale a circoscrivere l’ambito della riflessione a quei rischi che in qualche modo possono definirsi ‘qualificati’ in quanto correlati a uno o più caratteri della persona che opera nei luoghi di lavoro: in questa ipotesi quelli connessi alla differenza di genere .
La norma stabilisce che il documento di valutazione dei rischi debba riguardare «tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori (…)ivi compresi quelli riguardanti gruppi di lavoratori esposti a rischi particolari, tra cui anche quelli collegati allo stress lavoro-correlato, secondo i contenuti dell'Accordo Europeo dell’8 ottobre 2004, accordo europeo dell’ 8 ottobre 2004, e quelli riguardanti le lavoratrici in stato di gravidanza, secondo quanto previsto dal d.lgs. n. 151 del 2001, nonché quelli connessi alle differenze di genere, all'età alla provenienza da altri Paesi e quelli connessi alla specifica tipologia contrattuale».
La mancata o incompleta redazione del documento di valutazione dei rischi, secondo quanto sopra prescritto, determina la responsabilità del datore di lavoro e l’applicazione della relativa sanzione penale .
Nonostante ciò, e pur a fronte di un apparato normativo che risale a quasi due decadi fa, i documenti di valutazione dei rischi, non di rado, si limitano a introdurre misure a tutela delle lavoratrici madri, ma non a valutare i rischi e le relative misure di prevenzione connessi alla differenza di genere .
L’ultimo rapporto Inail consegna le difficoltà operative nel valutare i rischi connessi alla differenza di genere, nonostante uomini e donne siano esposti a pericoli differenti nei vari ambiti lavorativi e possono anche reagire in modo diverso alla stessa esposizione a un rischio specifico .
Il sistema, malgrado le aspirazioni, stenta, pertanto, a trovare una effettiva applicazione.
2. Neutralità e differenza di genere
Se il d.lgs. n. 626 del 1994 non differenziava tra generi; tant’è che ambienti di lavoro, limiti di esposizione a sostanze pericolose, attrezzature, postazioni e i dispositivi di protezione individuale erano tutti progettati secondo un modello androcentrico, il TU «supera l’idea di lavoratore neutro» coltivato nel precedente impianto normativo.
Tale annotazione intercetta qualcosa di più sul piano assiologico; evocando la questione che ruota intorno alla relazione tra uguaglianza e differenza che qui agiscono come due valori complementari, situandosi a latere del diritto antidiscriminatorio, a sua volta, richiamato nel TU.
Il tema della differenza di genere, che si è sviluppato in diversi ambiti disciplinari , assume nel TU una specifica dimensione giuridica attraverso la definizione di regole, poggiate su una nozione liminale di ‘differenza di genere’.
Nel rinunciare a un enunciato stipulativo il legislatore opera mediante un rinvio ad altre discipline per ricavare la nozione di differenza di genere che sembra quasi porsi in antitesi alle più recenti acquisizioni del diritto antidiscriminatorio, il cui approccio neutrale e universale «elide ed elude la differenza» , quando genera un giudizio di disvalore con esiti sfavorevoli per la persona discriminata.
Traspare, qui soltanto accennando, di tale ultima prospettiva, la base teorica della performatività di genere tesa a scardinare la concezione del genere, quale dimensione precostituita, etero-normata in funzione di un ordine sociale.
L’uguaglianza, sul piano sostanziale, agisce attraverso il canone della neutralità che qualifica quasi tutta la produzione normativa antidiscriminatoria più recente secondo la quale l’obiettivo della parità può essere raggiunto emancipando i soggetti dagli svantaggi arrecati dai tratti (qui limitatamente alla dicotomia uomo-donna).
A titolo esemplificativo di tale approccio si può considerare da ultimo la Direttiva Europea n. 1558 del 2019 in materia di equilibrio vita e lavoro. Per migliorare la partecipazione femminile nel mercato del lavoro, compromessa dai compiti di cura, tradizionalmente affidati alla donna, la Direttiva promuove una riallocazione della relazione filiale anche sull’altro genitore, coltivando la genitorialità, a prescindere dal genere (femminile e maschile). In questi termini, discostandosi dalla ratio della prima legislazione in materia, la differenza femminile costruita sul materno assume una connotazione negativa, avendo, come risulta anche dai dati statistici, contribuito alla scarsa partecipazione delle donne al mercato del lavoro. Le misure adottate non sono, pertanto, più rivolte alle lavoratrici, ma valorizzano la presenza dell’altro genitore sul quale si tenta di ridistribuire i compiti di cura.
L’ approccio universalista e neutro rischia di risultare, tuttavia, almeno rispetto a determinati contesti tecnici, non idoneo a perseguire lo stesso obiettivo rincorso .
Né è una dimostrazione il TU che opera nel senso di accreditare la differenza di genere; è innegabile, infatti, come del resto segnalato anche dal Rapporto Inail che ispirarsi a un ‘falso neutro’- tradizionalmente declinato al maschile- produrrebbe uno svantaggio per la categoria sottorappresentata, tradizionalmente quella femminile.
Quando si parla di differenza di genere – è necessaria una brevissima indicazione- ovviamente si fa riferimento sia al genere maschile, sia al genere femminile.
È tuttavia, altrettanto dimostrato che è il genere femminile ad aver subito in molti ambiti, non solo nella materia della sicurezza privata del nuovo TU, una sottorappresentazione .
Il TU restituisce, diversamente, una idea di eguaglianza intesa come parametro mobile, in cui la differenza funge da parametro per il conseguimento dell’obiettivo della tutela della salute, non costituendo un dis-valore, ma, viceversa, un criterio selettivo su cui edificare la parità.
Il decreto, nel riconosce le differenze non solo connesse al genere, ma anche ad altri fattori come l’età e la provenienza , - fattori che, in ogni caso, si intersecano con la differenza di genere -, assolve al compito di promuovere la tutela della salute, senza poggiare su valutazioni astratte e universalistiche che produrrebbero una omologazione della lavoratrice al paradigma maschile, ma distinguendo la valutazione dei rischi e la predisposizione delle misure, ove necessario. Ciò mostra come resti aperta la questione della differenza, del resto come lascia intendere anche la teoria della performatività di genere , e che il percorso verso l’uguaglianza non passa necessariamente soltanto attraverso la neutralizzazione delle differenze.
2.1. Il linguaggio di genere nel TU
Indicazioni in questo senso sono ben visibili nel TU già nel linguaggio giuridico adottato che fa uso della differenza. Orienta le misure di prevenzione che il datore di lavoro deve predisporre facendo esplicito riferimento ai ‘lavoratori’ e alle ‘lavoratrici’.
Il dibattito sul rapporto lingua, genere e diritto oggi occupa anche l’agenda pubblica e istituzionale, con esiti non sempre incoraggianti, presentato, erroneamente, come un’acquisizione recente .
Tenuto conto delle resistenze sociali, sorprende, dunque, che il TU fa della lingua giuridica uno strumento per scardinare abiti culturali e atteggiamenti di sottorappresentazione del femminile, introducendo norme che, non sono neutre, ma valorizzano la differenza di genere.
Il TU rinvia esplicitamente a due identità, marcando, attraverso la parola, la differenza uomo-donna, e segnalando, mediante l’attento uso del linguaggio, che un approccio neutrale impedisce e limita una rivelazione dei rischi e l’elaborazione di misure che in uno specifico contesto organizzativo, possano essere effettivamente a tutela della salute della popolazione aziendale.
Un esempio utile per far comprendere come l’effettività della norma può essere sostenuta anche dal linguaggio adottato, soprattutto quando si introduce con quella disposizione un cambiamento che è, ancora prima, un cambiamento culturale, si rinviene nella Direttiva Europea n. 1558 del 2019, prima menzionata, se pur in una prospettiva opposta. Per rafforzare il concetto di genitorialità la Direttiva sostituisce delle acquisizioni dell’ordinamento interno- prima il riferimento quasi esclusivo alla madre lavoratrice, poi anche al padre- il termine ‘genitore’ che distoglie l’attenzione sulla dimensione sessuata dei destinatari delle disposizioni.
In entrambi i casi considerati, dunque, se pur con obiettivi distinti, il legislatore introduce e fissa nuovi significati, servendosi anche di altre parole.
2.2. Il concetto di salute di genere
Questo primo passaggio consente di inquadrare la nozione di salute recepita nel TU che riprende, come noto , la definizione offerta dall’Organizzazione mondiale della sanità.
Secondo l’art. 2 del d.lgs. n. 81 del 2008 la salute corrisponde a «uno stato di totale benessere fisico, mentale e sociale» e non una semplice «assenza di malattie o infermità». La dualità insita nel concetto di salute già implica in sé due profili: la materialità dei corpi e i tratti essenziali che caratterizzano la condizione umana a loro volta declinati secondo la differenza di genere.
La nozione di salute - come emerge dalle altre disposizioni del TU- deve, essere, completata con la definizione di ‘medicina di genere’ offerta nel 2008 dall’OMS, che integra il precedente concetto di salute, intendendo «lo studio dell’influenza delle differenze biologiche (definite dal sesso) e socio-economiche e culturali (definite dal genere) sullo stato di salute e di malattia di ogni persona».
Entro tale assetto, il tema della salute viene affrontato secondo una duplice direttrice che riconosce la differenza, oltre come dato fisiologico e morfologico della persona - tradizionalmente intesa come ‘differenza’-, nel genere quale complesso di caratteristiche socialmente e culturalmente declinate al femminile e/o maschile.
Si può dire, in altri termini, che il TU, attraverso tale concettualizzazione, predispone una regolamentazione in cui la differenza, che è fisica, ma anche sociale ed economica, diviene criterio selettivo su cui costruire una corretta valutazione dei rischi, là dove, altrimenti l’uso di una accezione ‘neutra’ del diritto ricadrebbe sul raggiungimento dell’obiettivo della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro.
3. Profili applicativi. I richiami alla differenza di genere
A questo proposito, il TU richiama la differenza di genere già all’art. 1 in base al quale le finalità del decreto legislativo devono essere attuate, garantendo l’uniformità della tutela delle lavoratrici e dei lavoratori sul territorio nazionale attraverso il rispetto dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, anche con riguardo alle differenze di genere.
Prosegue il TU, stabilendo che ai lavori della Commissione consultiva permanente per la salute e sicurezza sul lavoro, istituita presso il Ministero del lavoro e delle politiche sociali, possono altresì partecipare rappresentanti di altre amministrazioni centrali dello Stato in ragione di specifiche tematiche inerenti alle relative competenze, con particolare riferimento a quelle relative alle differenze di genere .
Inoltre, tra le sue funzioni, la Commissione deve promuovere la considerazione della differenza di genere in relazione alla valutazione dei rischi e alla predisposizione delle misure di prevenzione.
Le funzioni della Commissione consultiva nazionale appaiono particolarmente utili per sviluppare linee guida coerenti con il dettato normativo e sollecitare una specifica preparazione su tale tematica anche attraverso il coinvolgimento dei rappresentanti di altre amministrazioni, come ad esempio il personale del Ministero delle pari opportunità, ma anche le Consigliere delle pari opportunità che potrebbero contribuire a orientare la valutazione dei rischi e le misure di prevenzione in tal senso.
A valle e, dunque, nei singoli contesti lavorativi, un ruolo determinante lo svolge il medico competente che, a sua volta, il medico competente, nell’ambito della Sorveglianza Sanitaria, entro il primo trimestre dell’anno successivo all’anno di riferimento deve trasmettere ai servizi competenti per territorio le informazioni, elaborate evidenziando le differenze di genere, relative ai dati aggregati sanitari e di rischio dei lavoratori, sottoposti a sorveglianza sanitaria .
3.1. DVR e differenza del materno.
Entro questa cornice, il TU impone che il datore di lavoro nella redazione del documento di valutazione dei rischi tenga distinte due ipotesi: la prima riguarda il materno, la cui differenza non ha soltanto una dimensione biologica, ma si esprime nella relazione filiale; la seconda guarda alla differenza di genere, a prescindere dalla maternità.
L’art. 28 deve essere integrato con il capitolo II del d.lgs. n. 151 del 2001 sulla ‘tutela della salute della lavoratrice’ che riguarda le donne durante il periodo di gravidanza e fino a sette mesi di età del figlio e le lavoratrici che hanno ricevuto bambini in adozione o in affidamento fino al compimento di sette mesi di vita. La disposizione in esame consente fin da subito di liberare il concetto di maternità dal dato strettamente biologico della gestazione che non può dirsi sotteso all’art. 37 Cost., ove, al momento dell’entrata in vigore della Costituzione, il Codice civile aveva già introdotto, l’istituto dell’adozione agli artt. 291 c.c.
Secondo l’art. 11 del decreto, il datore di lavoro deve valutare specificamente i rischi per la sicurezza e la salute delle lavoratrici gestanti e puerpere (cioè, durante il periodo di gravidanza e fino a sette mesi di età del figlio), in particolare tenendo conto dei rischi di esposizione ad agenti fisici, chimici o biologici, dei processi o delle condizioni di lavoro tassativamente elencati.
Tuttavia, come affermato dalla giurisprudenza, il rischio valutabile non è soltanto attuale e prescinde dall’età della lavoratrice . Nella sentenza richiamata il Giudice ha affermato che il datore di lavoro non fosse esonerato dal valutare tale rischio, anche in assenza di lavoratrici in età diversa da quella che la scienza definisce riproduttiva. A tale conclusione si giunge in considerazione dell’art. 6 del d.lgs. 151 del 2001 secondo il quale le misure per la tutela della sicurezza e della salute delle lavoratrici durante il periodo di gravidanza e fino a sette mesi di età del figlio sono estese alle lavoratrici che hanno ricevuto bambini in adozione o in affidamento, fino al compimento dei sette mesi di età.
Ne deriva che l’età, fattore di rischio indicato dall’art. 28 del d.lgs. 81 del 2008, rafforzato dall’art. 5 del d.lgs. n. 29 del 2024 , non rileva nella dimensione del materno.
Se l’età interseca il genere (femminile e maschile) per attivare misure idonee a prevenire i rischi, ciò non avviene in rapporto alla maternità non confinata all’età produttiva, ma espressione di una relazione filiale, a prescindere dalla gestazione.
Tra l’altro, ne segue, a questi fini, anche la poca utilità del rapporto biennale sulla situazione del personale maschile e femminile alle aziende pubbliche e private che il datore di lavoro è obbligato a elaborare ai sensi dell’art. 46 d.lgs. n. 198 del 2006, modificato dalla l.n. 162 del 2021 di redigere. Il rapporto può senz’altro essere funzionale all’elaborazione del documento di valutazione dei rischi, in quanto consente una mappatura, distinta per generi, della popolazione aziendale. Tra le informazioni richieste, come previsto, dal Decreto interministeriale del 29 marzo 2022 vi è anche la percentuale di richiesta dei congedi di maternità, paternità e parentale, l’assenza di persone nella suddetta condizione di esercizio del diritto, non esonera il datore di lavoro di valutare il rischio sotteso. Non lo è, per quanto accennato, con riferimento all’adozione delle misure legate alla maternità.
3.2. DVR e differenza di genere.
La differenza di genere nel TU non riguarda tuttavia soltanto l’esperienza del materno, ma l’art. 28 impone la valutazione di tutti i rischi per la sicurezza e la salute dei lavoratori, ivi compresi quelli connessi alle differenze di genere.
È forse questa l’ipotesi più complessa da considerare nel documento di valutazione dei rischi e in qualche modo meno verificata, in quanto impone l’individuazione dei rischi secondo una ottica specifica che è quella della differenza uomo -donna non soltanto sul piano della condizione fisica .
Tuttavia, come rilevato da una recente indagine Inail, allo stato, la valutazione dei rischi, di rado, viene effettuata, salvo che per alcuni rischi specifici .
Erroneamente si ritiene che la valutazione della differenza di genere si esaurisca nella predisposizione di misure relative alla condizione del materno, tra l’altro specificate, in raccordo con l’art. 28, nel d.lgs. 151 del 2001 come prima evidenziato.
Non si considera ancora che l’esposizione ai rischi può essere diversa tra uomo-donna, così come gli strumenti adottati e gli ambienti di lavoro non tengono spesso conto della suddetta differenza. Si pensi, a titolo esemplificativo, ai dispositivi di protezione individuale o alla previsione di limiti all’esposizione di sostanze pericolose, fatta eccezione per quanto sopra riferito in merito alla maternità, di solito, elaborati secondo un archetipo maschile ben radicato nella società del lavoro.
Indicazioni importanti, ai fini della redazione del documento sulla valutazione dei rischi, arrivano dalla medicina di genere che, come sopra anticipato, ha integrato il concetto di salute.
Anche tale scienza ha subito, se pur in merito a ragioni diverse, al pari delle disposizioni del TU, un qualche ritardo nell’affermarsi.
Soltanto con la legge n. 3 del 2018 il Ministero della Salute, in cooperazione con l’Istituto Superiore di Sanità, ha riconosciuto la necessità di coltivare una strategia sanitaria orientata verso una Medicina di Genere e procedere all’identificazione, alla promozione e alla divulgazione di best practices medico-sanitarie per l’inserimento in tutti i percorsi clinici dei pazienti, la valutazione delle differenze tra uomini e donne.
Il 13 giugno 2019 è stato emanato dal Ministro della Salute il decreto con cui viene adottato il Piano per l’applicazione e la diffusione della Medicina di Genere, previsto dall’art. 3 della l n. 3/2018 con il fine di garantire in modo omogeneo sul territorio nazionale la “centralità del paziente” e la “personalizzazione delle terapie” e delle prestazioni erogate dal SSN.
Nel 2021, viene istituto l’Osservatorio sulla Medicina di Genere che ha la funzione di monitorare l’attuazione delle azioni di promozione, applicazione e sostegno alla Medicina di Genere previste nel Piano per l’applicazione e la diffusione della Medicina di Genere predisposto dal Ministero della Salute e dal Centro di riferimento per la medicina di genere dell’Istituto Superiore di Sanità (ISS) con la collaborazione di un Tavolo tecnico-scientifico di esperti regionali e dei referenti per la medicina di genere della Rete degli Istituti di ricovero e cura a carattere scientifico (Irccs), nonché dell’Agenzia italiana del farmaco (Aifa) e dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (Agenas) .
Se pur tali indicazioni riguardano l’ambito sanitario, la medicina di genere può considerarsi, in ogni caso, anche in ambienti diversi, strumento fondamentale per la stesura del documento di valutazione dei rischi perché indica i parametri in base al quale poter individuare i rischi in base alle differenze biologiche (definite dal sesso) e socioeconomiche e culturali (definite dal genere) nell’organizzazione del lavoro.
Soprattutto sotto tale ultimo profilo, molti studi evidenziano come le lavoratrici siano maggiormente esposte ai rischi psicosociali derivanti «da una progettazione, organizzazione e gestione carenti, nonché da un contesto sociale del lavoro inadeguato e possono determinare esiti psicologici, fisici e sociali negativi» . Secondo l’Agenzia Europea per la sicurezza e la salute (EU-OSHA) tra le condizioni di lavoro «che possono generare rischi psicosociali vi sono i lavori eccessivi: richieste contrastanti e mancanza di chiarezza sul ruolo; mancanza di coinvolgimento nell’adozione di decisioni che interessano il lavoratore; mancanza di influenza sul modo in cui viene svolto il lavoro; cambiamenti organizzativi mal gestiti; precarietà del lavoro; comunicazione inefficace; mancanza di supporto da parte dei dirigenti o dei colleghi; molestie psicologiche e sessuali (…)».
Nella complessità dell’individuazione delle diverse fattispecie di rischio che, tra l’altro, hanno denominazioni diverse, tutte prevalentemente riconducibili alle dinamiche delle relazioni interne all’azienda, qui, soltanto accennando, ci si limita ad osservare che alcuni rischi legati al contesto si verificano in percentuale maggiore nei confronti delle lavoratrici .
Anche in questo caso la differenza di genere restituisce la condizione culturale e sociale della lavoratrice che, in ordine all’emersione dei rischi psicosociali, assume una particolare evidenza.
La difficoltà di realizzare un effettivo equilibrio tra vita privata e professionale, a causa di una organizzazione del lavoro mal gestita, influisce notevolmente sulla condizione di salute della lavoratrice.
L’adozione di un approccio olistico alla tutela della salute diventa, pertanto, determinante soprattutto nella gestione dei rischi psico-sociali che possono verificarsi quando l’esercizio del potere organizzativo si pone in contrasto con le disposizioni che lo regolano. Si pensi, a titolo esemplificativo, all’organizzazione dei tempi di lavoro , all’uso delle clausole elastiche previste per il contratto a tempo parziale , all’impossibilità di accedere all’esercizio dei diritti alla genitorialità e/o previsti per i caregivers . Sono tutte ipotesi che possono influire, non solo sul tasso di rappresentazione delle donne nel mercato di lavoro, ma anche sullo stato di salute, soprattutto di coloro che, a causa del doppio ruolo di lavoratrici e di assistenti non retribuite (dei figli o di altri membri della famiglia e della casa), sono sottoposti a un maggiore carico fisico e psicologico che può comportare un aumento del rischio di sviluppare problemi di salute fisica e mentale .
Nella Risoluzione del Parlamento europeo del 12 dicembre 2023 si afferma che anche il divario retributivo di genere, a discapito del lavoro delle donne, costituisca una causa di maggior stress .
La medicina di genere rappresenta, dunque, un valido supporto per la redazione del DVR, così come la sorveglianza sanitaria costituisce un mezzo fondamentale per monitorare le risposte della persona al contesto di lavoro, in base al genere consentendo un intervento preventivo a tutela (anche) delle lavoratrici.
A questi si affiancano, in estrema sintesi, i suggerimenti dell’Unione Europea che, per garantire la sicurezza e la salute dei lavoratori e delle lavoratrici, anche in sede di valutazione dei rischi sul lavoro, insistono sulla necessità di riconoscere la diversità, comprese le differenze e le disuguaglianze di genere, proponendo tra le azioni volte a evitare pregiudizi di genere: a) la rappresentanza di genere nelle consultazioni dei lavoratori, avendo le donne meno probabilità degli uomini di parlare dei rischi per la salute legati al lavoro e di essere ascoltate, perché sono meno rappresentate degli uomini nei comitati direttivi per la SSL delle aziende ; b) una formazione adeguata alla situazione personale dei dipendenti .