Testo integrale con note e bibliografia
E’ necessario, per la nostra analisi, partire da un dato normativo.
Il Decreto Legge 17 marzo 2020 n.18 all’art. 42, comma 2 18 dispone che «nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS CoV-2) in occasione di lavoro, il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’ Inail che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell'infortunato. Le prestazioni Inail, nei casi accertati di infezioni da coronavirus in occasione di lavoro, sono erogate anche per il periodo di quarantena o di permanenza domiciliare fiduciaria dell’infortunato con la conseguente astensione dal lavoro».
Tale disposizione, contenuta nel decreto “Cura Italia”, ha introdotto un elemento di chiarezza, eliminando ogni dubbio in ordine alla ripartizione di competenze tra Inail e Inps, riguardo all’indennizzo dovuto a ristoro del periodo di astensione dal lavoro, imposto dall’accertato stato di infezione da coronavirus.
Per quanto riguarda la possibilità di indennizzo, da parte di Inail, delle conseguenze lesive dell’integrità psicofisica, causate dall’infezione da coronavirus, la disposizione non ha carattere innovativo o costitutivo del diritto all’indennizzo, essendo lo stesso già previsto dal D.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124 e successive integrazioni e modificazioni.
Si riscontra, infatti, che, nell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali, la distinzione tra le due tipologie di eventi lesivi tutelati non è fondata sulle caratteristiche delle conseguenze patologiche causate dall’attività lavorativa, ma è, invece, riferita alla diversa azione dell’agente causale.
L’infortunio, infatti, è caratterizzato dalla “causa violenta”, cioè dall’azione concentrata nel tempo dell’agente causale, mentre la malattia professionale è caratterizzata dall’azione di un agente patogeno prolungata nel tempo.
Una broncopatia, ad esempio, è da inquadrare come infortunio sul lavoro se causata da una inalazione massiva di anidride solforosa in un momento determinato e ben definito, mentre è da inquadrare come malattia professionale se causata da esposizione allo stesso agente patogeno non particolarmente concentrata, ma prolungata nel tempo.
Nell’assicurazione obbligatoria contro gli infortuni sul lavoro, l’azione di fattori microbici o virali che, penetrando nell’organismo umano, ne determinino l’alterazione dell’equilibrio anatomofisiologico, costituisce causa violenta, anche quando i suoi effetti si manifestino dopo un certo tempo.
Pur quando, come spesso accade, non sia possibile acquisire la prova certa della specifica “causa violenta” che ha determinato l’infezione microbica o virale, il rapporto tra l’infezione e l’attività lavorativa può essere dimostrato anche mediante presunzioni semplici basate su conoscenze scientifiche, dati statistici, tipo di infezione contratta dall’interessato, caratteristiche dell’ambiente lavorativo e mansioni cui lo stesso era addetto.
L’infezione da agenti microbici o virali è, più specificamente, qualificata come malattia-infortunio. Ciò nel senso che, fermo restando l’inquadramento tra gli infortuni sul lavoro, si applicano gli stessi criteri probatori in vigore per l’accertamento dell’esposizione a rischio e del nesso di causalità vigenti per le malattie professionali.
Anche la sindrome da infezione da Sars CoV-2 (Covid-19) si qualifica come infortunio sul lavoro (malattia–infortunio). In questi casi, infatti, come già premesso, la causa virulenta è equiparata a quella violenta, atteso che l’azione traumatica coincide con il contatto e la penetrazione nell’organismo dell’agente patogeno. Il rischio di infezione da Sars-CoV-2 (Covid-19) è, in sé e per sé considerato, un rischio “generico”, essendovi esposta la generalità dei cittadini.
Detto rischio, tuttavia, può risultare “aggravato”, fino a divenire “specifico”, in relazione a determinate tipologie di attività lavorativa o a specifiche condizioni della stessa.
Con tutte le premesse indicate, si ritiene che, con riferimento alla predetta sindrome da infezione da Sars-CoV-2 (Covid-19), la presunzione di origine professionale possa ritenersi sussistente nei casi seguenti, in riferimento a :
1) operatori sanitari, quali soggetti ad un elevato rischio di contagio, in considerazione del contatto ravvicinato con il paziente al quale viene erogata la prestazione professionale. Tale presunzione risulta non suscettibile di prova contraria, considerata la rilevante probabilità che gli operatori sanitari siano venuti in contatto con soggetti infetti asintomatici o pauco sintomatici.
A fronte di tale elevata probabilità anche la prova, più o meno certa, di contatti con soggetti potenzialmente contagiosi, avvenuti al di fuori dell’ambiente di lavoro, non è sufficiente a superare la presunzione semplice di origine professionale.
2) lavoratori la cui attività comporta contatti con il pubblico. Per questi, la presunzione di origine professionale potrebbe essere superata dalla prova, pressoché impossibile, che il contatto utile per la trasmissione dell'agente patogeno sia stato privo di efficacia per la sistematica e costante adozione della “distanza sociale” o di efficaci mezzi di separazione tra il lavoratore e il pubblico, o ancora per la concreta impossibilità della trasmissione virale tramite contatto con superficie infette.
3) lavoratori diversi dagli operatori sanitari e da quelli con frequenti contatti con il pubblico e che abbiano avuto contatti con un collega di lavoro positivo/infetto o sintomatico. In questo caso l’origine professionale dell’infezione deve essere ritenuta provata in presenza di fonte di contagio accertata. La presunzione può essere superata soltanto dalla prova certa della mancanza di contatti efficaci alla trasmissione del contagio o dalla incompatibilità dei tempi di latenza tra il dedotto contatto e l’insorgenza della sintomatologia, clinicamente evidente.
4) lavoratori che abbiano contratto l’infezione da coronavirus per avere utilizzato mezzi di trasporto pubblico. Anche in questo caso, considerata la maggiore intensità e frequenza del contatto sociale riscontrabile nei mezzi di trasporto pubblico, una volta comprovata la necessitata utilizzazione degli stessi per finalità lavorative, non sembra possa escludersi l’applicabilità della presunzione semplice di origine professionale. Ciò in considerazione del carattere pandemico e ubiquitario di tale infezione, ufficialmente dichiarato dall’Organizzazione mondiale della sanità, e l’elevata probabilità di una rilevante numerosità di soggetti infetti asintomatici o pauco sintomatici che fa passare, in secondo piano, le differenze di concentrazione epidemiologica nei diversi territori delle persone con accertata infezione da coronavirus.
I criteri della ragionevolezza e della coerenza sistematica impongono che, per gli infortuni in itinere, diversi da quelli consistenti nell’aver contratto l’infezione a causa dell’utilizzo dei mezzi di trasporto pubblico, cioè di quelli “normalmente” causati dalla circolazione stradale, comportanti menomazioni dell’integrità psicofisica conseguenti all’evento traumatico, sia precisato che l’utilizzo del mezzo di trasporto privato, fino alla cessazione dell’attuale situazione di emergenza, sia, comunque, da considerare necessitato, perché costituente comportamento conforme a quelli suggeriti dalle competenti autorità per il contenimento e il contrasto del diffondersi del virus Covid-19.
In merito alle categorie di lavoratori che hanno diritto alla tutela Inail, il D.L. n. 18/2020 non ha introdotto alcuna innovazione. In assenza di interventi correttivi, l’Inail sarà costretto ad applicare l’art. 5 D.Lgs. n.38/2000. Tale norma definisce i lavoratori parasubordinati, oggetto della tutela, individuandoli mediante riferimento all’art. 49, comma 1, lett. a Testo unico delle imposte sul reddito, ora art. 50, comma 1, lett. c-bis, che dispone l’assimilazione, ai fini fiscali, del reddito prodotto dalle attività di collaborazione coordinata e continuativa ivi elencate a quello da lavoro subordinato.
La disposizione sopra richiamata, peraltro, esclude la predetta assimilazione quando la collaborazione coordinata e continuativa abbia ad oggetto l’esercizio dell’arte o professione. Non rientrano, pertanto, nell’ambito soggettivo della tutela, ad esempio, i medici e gli infermieri professionali che prestano la propria attività con rapporto di collaborazione coordinata e continuativa.
Pare evidente, a parere di chi scrive, l’incostituzionalità di una disposizione che, a parità di rischio, discrimina i lavoratori in ragione di una disciplina dettata a fini fiscali .
La perpetuazione di tale discriminazione determinerebbe un ingiustificabile vuoto di tutela, proprio in danno di coloro che oggi sono esposti in prima linea nel contrasto alla diffusione del contagio e nella cura di coloro che hanno contratto l’infezione.
Sarebbero, quindi, esclusi dalla tutela tutti i medici di base e gli altri medici e infermieri che prestano la loro attività con rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, ivi compresi i 200 medici specialisti e 100 infermieri che l’Inail, ai sensi dell’art. 10 D.L. n. 18/2020, è autorizzato ad acquisire, conferendo incarichi di lavoro autonomo, anche di collaborazione coordinata e continuativa, proprio per contrastare l’emergenza causata dall’infezione da coronavirus.
Rimarrebbero esclusi, altresì, non pochi operatori sanitari che, senza essere titolari di un sottostante rapporto di lavoro subordinato, hanno risposto all’appello della Protezione civile e dato la disponibilità a prestare la propria opera, presso strutture sanitarie in condizione di criticità, per la particolare intensità del contagio.
Si auspica che il legislatore voglia superare tale palese iniquità con un intervento di carattere sistematico e strutturale disponendo l’abrogazione dell’art.5 D.Lgs. n.38/2000 e la modifica dell’art. 4, comma 1, n. 1, D.P.R. n.1124/1965, aggiungendo dopo le parole «opera manuale retribuita» le parole «o prestano attività lavorativa coordinata e continuativa».
Con l’abrogazione dell’art.5 D.Lgs. n.38/2000 verrebbe anche eliminato il regime contributivo dallo stesso dettato, in forza del quale un terzo del relativo onere è attualmente posto a carico del lavoratore.
Si sottolinea, infine, che la paventata iniqua discriminazione non sarebbe evitata neppure laddove fosse approvata la proposta di equiparare gli operatori sanitari che abbiano contratto o contrarranno l’infezione da coronavirus alle vittime del dovere.
Ciò non soltanto perché la speciale elargizione prevista dalla vigente legislazione in favore delle vittime del dovere offre una tutela molto meno intensa di quella contro gli infortuni e le malattie professionali.
Occorre anche considerare che detta elargizione si fonda su presupposti e risponde a finalità diversi da quelli posti a base della tutela antinfortunistica, sicché è con quest’ultima cumulabile.
Permarrebbe, pertanto, la disparità di trattamento tra gli operatori sanitari titolari di un rapporto di lavoro subordinato, che avrebbero legittimamente diritto ad ambedue le tutele, e quelli che, in ragione di una diversa qualificazione giuridica del rapporto, avrebbero diritto esclusivamente alla speciale elargizione prevista per le vittime del dovere.