TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA

I. Sicurezza sul lavoro e libertà economica: un dilemma apparente

Una particolare stagione è attraversata dall’obbligo di sicurezza che, nell’attuale emer-genza epidemiologica, assume su di sé il peso importante della gestione degli snodi più delicati del rapporto di lavoro ed impone una messa a fuoco di questioni nuove per i giuristi del lavo-ro.
Quasi inutile, si potrebbe dire, esaminare il tema dell’obbligo di sicurezza prendendo in considerazione i valori costituzionali rispetto ai quali viene in considerazione un necessario bi-lanciamento (una valutazione comparativa) tra il diritto alla salute e, a ben vedere, il diritto al-la vita, da una parte e la libertà di iniziativa economica privata dall’altra.
Eppure questa opzione si è rivelata di profonda attualità perché abbiamo potuto ap-prezzare la drammatica alternativa fra il rischio elevato di una diffusione del contagio del virus e la paralisi di ogni attività economica .
Si tratta di un’alternativa più apparente che reale.
In primo luogo perché la valutazione comparativa non può mai portare alla soccom-benza di un valore costituzionale rispetto ad un altro, dovendo ricercarsi faticosamente un de-licato e precario punto di equilibrio fra esigenze contrapposte.
In secondo luogo perché la valutazione comparativa sempre rivela nuove questioni proprio perché deve calarsi nella concretezza, nella realtà dell’applicazione e consente anche di portare alla luce la torsione di fattispecie che, pensate per uno scopo, si trovano, nel particola-re ed attuale contesto, a realizzarne un altro.
La sicurezza sul lavoro dell’emergenza infatti, lungi dal portare alla soccombenza la li-bertà organizzativa del datore di lavoro, si rivela idonea a plasmare di nuovi contenuti vari isti-tuti, alcuni già oggetto di specifici interventi normativi dettati dall’emergenza.
Valga il riferimento al lavoro agile che, da istituto finalizzato a realizzare la conciliazio-ne vita-lavoro e l’efficienza dell’organizzazione del datore di lavoro, assume, nell’emergenza, anche la funzione di tutelare la salute dei lavoratori salvaguardando, almeno in parte, la conti-nuità delle attività economiche .
Un discorso non dissimile può valere per gli ammortizzatori sociali concepiti per l’emergenza, che possono osservarsi come strumenti che hanno anche lo scopo di consentire la protezione della salute dei lavoratori.
Ciò avviene in un quadro nel quale la salute dei lavoratori viene vista, come non mai, in una dimensione collettiva che opera in stretto contatto con l’interesse generale di tutti i citta-dini, oltre la veste di lavoratori, imprenditori, lavoratori autonomi.
Accanto a quegli istituti già interessati dall’intervento legislativo emergenziale, vi sono poi fattispecie e temi che, sul piano della prassi e della stessa riflessione teorica, pure si pre-stano ad una torsione funzionale che operi nel quadro della tutela collettiva della salute: le fe-rie, l’orario di lavoro, il part time, le mansioni, la formazione, il potere di controllo del datore di lavoro.
A ben vedere il tratto innovativo di tale fase è rappresentato dalla circostanza che la si-curezza sul lavoro costituisce uno dei fattori fondamentali per superare l’emergenza epidemio-logica.
Emerge chiaramente che l’impatto socio-economico dell’applicazione delle misure di prevenzione: la sicurezza e la salute nei luoghi di lavoro è condizione necessaria (ma non suf-ficiente) per garantire la salute collettiva.
Vi è un legame fra la prima e la seconda che ricorda il nesso osmotico fra salute ed ambiente, un nesso poco indagato dalla dottrina .
Mai come in questo caso può dirsi che la salute è un fondamentale diritto dell’individuo ed un interesse della collettività: una sorta di drammatico inveramento dei due profili dell’art. 32 Cost. e la straordinaria emersione di una circolarità che porta la sicurezza sul lavoro ad essere un tassello della salute collettiva e quest’ultima ad essere la base necessa-ria della prima.
Come già messo in luce, ove si dia piena e concreta attuazione alle misure prevenziona-li, non viene a porsi un dilemma fra sicurezza sul lavoro e continuità dell’attività economica.
Ciò premesso, ipotizzando invece che un simile dilemma si ponga e che dunque sia ne-cessario scegliere fra prosecuzione dell’attività economica e salute e sicurezza dei lavoratori, quali sarebbero le strade percorribili?
L’interrogativo è etico prima che giuridico e, come già rilevato, non dovrebbe mai ve-nirsi a configurare il sacrificio definitivo di un valore costituzionale rispetto ad un altro.
La scelta ipotizzata, ove venga a porsi come un aut aut, si rivela tragica, come nel di-lemma del carrello ferroviario o Trolley Problem, ipotizzato da Philippa Foot, da cui si potrebbe trarre la conclusione che, dal punto di vista etico, la differenza fra agire ed omettere è nei fatti irrilevante, essendo molto complessa e sottile la distinzione fra permettere che qualcosa acca-da ed essere l’agente cui si può attribuire l’accaduto .
Ora l’alternativa che possiamo qui rappresentare è tra salute e sicurezza dei lavoratori e attività economica, ed è, come già rilevato, una alternativa apparente, come mi sembra dimo-strato dallo stesso dramma pandemico, un dramma nel quale, portando alle estreme conse-guenze il ragionamento, sembra impossibile individuare il luogo nel quale collocare la salute e la sicurezza (e la stessa vita) e quello destinato alla libertà economica.

II. La sicurezza sul lavoro tra dinamismo delle fonti e “riscoperta” dell’autonomia collettiva.

L’emergenza epidemiologica ha portato grandi stravolgimenti sul terreno delle fonti, delineando uno scenario nel quale trova corso una sorta di diritto eccezionale, con funzioni regolative molto importanti e delicate affidate ad atti non aventi forza di legge; in particolare il riferimento va alla impressionante sequenza di D.P.C.M. che, sul piano generale, sono ricon-ducibili agli atti amministrativi o agli atti normativi “atipici” .
Sul punto sembra tuttavia opportuno rilevare che i D.P.C.M. emanati durante l’emergenza trovano la loro legittimazione nel Codice della protezione civile (d.lgs. 2 gennaio 2018 n. 1: in particolare si. v. l’art. 25) e hanno dato attuazione ai vari decreti legge emanati durante la fase pandemica : sebbene sia sommamente opportuno un atteggiamento di rigorosa prudenza per salvaguardare il principio di legalità, può affermarsi che la suddetta decretazione si è svolta in un quadro sufficientemente definito di garanzie.
Sempre sul terreno delle fonti emergono segnali di particolare importanza sul piano dell’intreccio tra atti normativi ed autonomia collettiva, intreccio che vede una forte valorizza-zione di quest’ultima.
Si consideri infatti che l’art. 2 del D.P.C.M. 11 giugno 2020 prevede che “tutte le attivi-tà produttive industriali e commerciali, fatto salvo quanto previsto dall'articolo 1, rispettano i contenuti del protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il con-tenimento della diffusione del virus covid-19 negli ambienti di lavoro sottoscritto il 24 aprile 2020 fra il Governo e le parti sociali di cui all'allegato 12, nonché, per i rispettivi ambiti di competenza, il protocollo condiviso di regolamentazione per il contenimento della diffusione del covid-19 nei cantieri, sottoscritto il 24 aprile 2020 fra il Ministro delle infrastrutture e dei trasporti, il Ministro del lavoro e delle politiche sociali e le parti sociali, di cui all'allegato 13, e il protocollo condiviso di regolamentazione per il contenimento della diffusione del covid-19 nel settore del trasporto e della logistica sottoscritto il 20 marzo 2020, di cui all'allegato 14” .
Come può notarsi il citato D.P.C.M. attribuisce al Protocollo del 24 aprile 2020 (inde: Protocollo condiviso) nonché agli altri accordi citati la funzione di individuare le misure pre-venzionali emergenziali applicabili in via generale al punto che gli stessi accordi costituiscono allegati del D.P.C.M. con un processo di recezione materiale nel testo normativo: la tecnica utilizzata, che potrebbe tradire una qualche somiglianza con la soluzione normativa adottata a suo tempo dalla legge Vigorelli, riflette, al di là delle implicazioni sulla questione qui esamina-ta, la ormai conclamata carenza dell’ordinamento già rilevata con riferimento alle discipline che devolvono all’autonomia collettiva importanti funzioni regolative .
Se davvero fosse fondata una assimilazione fra la tecnica utilizzata dal citato D.P.C.M. e quella della legge Vigorelli si potrebbe portare fino in fondo la comparazione e ritenere che, anche nell’attuale frangente, viene in gioco la transitorietà della soluzione normativa, una tran-sitorietà qui dettata dall’emergenza pandemica e non dall’esigenza di affrontare la “grave eva-sione contrattuale” .
A ben vedere, al di là della sfumatura vigorelliana, la suddetta interazione sembra met-tere in atto un processo di legificazione del Protocollo rispetto al quale è da ritenere che i datori di lavoro non iscritti alle associazioni sindacali che lo hanno sottoscritto difficilmente potrebbero invocare la libertà di non adottare le misure nello stesso contenute; per sostenere una simile ipotesi occorrerebbe individuare un diverso ed equivalente standard che, chi intende sottrarsi al Protocollo condiviso, dovrebbe comunque applicare per non incorrere nella viola-zione dell’obbligo di sicurezza .
Il Protocollo condiviso e gli altri accordi prima richiamati assumono sembianze concer-tative sebbene non individuino specifici impegni del Governo, che ha promosso l’incontro fra le parti sociali e favorisce, per quanto di sua competenza, la piena attuazione degli accordi stessi .
La citata previsione del D.P.C.M. mette dunque in risalto una rinnovata e virtuosa in-terazione fra pubblici poteri e parti sociali, che valorizza la salute come interesse della colletti-vità, in un quadro nel quale il sindacato partecipa a funzioni pubbliche.
Sullo sfondo rimane aperto il problema dell’efficacia soggettiva degli accordi richiamati dal citato D.P.C.M., problema che porta con sé i nodi irrisolti che appartengono alla nostra materia .
La centralità dei suddetti accordi sindacali sembra confermata dalla circostanza che l’art. 29-bis del d.l. n. 23/2020 conv. in l. n. 40/2020 (c.d. decreto Liquidità) ha previsto che “ai fini della tutela contro il rischio di contagio da COVID-19, i datori di lavoro pubblici e privati adempiono all’obbligo di cui all’articolo 2087 del codice civile mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione delle misure per il contrasto e il contenimento della diffusione del COVID-19 negli ambienti di lavoro, sotto-scritto il 24 aprile 2020 tra il Governo e le parti sociali, e successive modificazioni e integra-zioni, e negli altri protocolli e linee guida di cui all’articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, nonché mediante l’adozione e il mantenimento delle misure ivi previste. Qualora non trovino applicazione le predette prescrizioni, rilevano le misure contenute nei protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativa-mente più rappresentative sul piano nazionale” .
È dunque la legge a prescrivere al datore di lavoro – quale adempimento dell’obbligo ex art. 2087 cod. civ. – il rispetto del contenuto dei suddetti accordi: come può notarsi, nell’art. 29 cit. la tecnica normativa è diversa da quella indicata nel D.P.C.M. prima ricordato. L’argomento sarà ripreso ed approfondito nel paragrafo IV, subito dopo avere completato l’indagine sulle misure emergenziali.

 

III. Una ricognizione dei profili della sicurezza sul lavoro emergenziale.

È opportuno adesso osservare più da vicino le misure prevenzionali di natura emer-genziale che sono venute alla luce nell’attuale situazione epidemiologica, mettendo subito in rilievo che queste trovano un punto di riferimento importante nel Protocollo condiviso e negli altri accordi già prima richiamati, pur nel quadro di un processo di interazione con l’intervento del legislatore che si rivela necessario per dare forza e sostegno alla disciplina convenzionale.

III.1. L’aggiornamento del documento di valutazione dei rischi.

A dimostrazione di quanto appena affermato la ricognizione prende le mosse proprio da un tema particolarmente delicato e di rilevanza preliminare sul quale il Protocollo condivi-so non è affatto intervenuto.
Molto si discute sulla necessità di aggiornare il documento di valutazione dei rischi (in-de, DVR) in relazione al rischio biologico legato al Coronavirus.
Alcuni autori sostengono che non sia obbligatorio procedere con l’aggiornamento del DVR in quanto, eccetto in alcuni casi, il rischio legato al Covid-19 non costituisce un rischio specifico dell’organizzazione lavorativa.
In effetti è fondamentale distinguere la classe dei rischi specifici, implicati cioè nel pro-cesso produttivo, da quella dei rischi generici, ai quali il lavoratore è esposto in quanto mem-bro della collettività.
Da tale distinzione deriva anche un’ulteriore differenza tra rischi endogeni ed esogeni: solo i primi rendono obbligatorio l’aggiornamento della valutazione dei rischi.
Muovendo da tale assunto, non sembra possibile affermare che qualunque fatto ester-no che si rifletta sull’organizzazione del lavoro possa essere tale da assurgere a rischio profes-sionale.
Secondo tale orientamento, il Covid-19 rappresenta un rischio biologico generico per il quale occorre adottare misure uguali per tutta la popolazione; dunque, la valutazione del ri-schio deve essere operata a monte dalla pubblica autorità .
Per tali ragioni il rischio di contagio da Covid-19 non presuppone un obbligo di aggior-namento della valutazione dei rischi, configurandosi quale rischio generico ed esogeno.
Tale conclusione non può riguardare le realtà aziendali in cui si ricorre all’utilizzo di agenti biologici – quali laboratori di ricerca microbiologica – oppure in cui sussiste una espo-sizione continua connaturata al tipo di attività svolta – come nel caso delle attività sanitarie – per le quali, invece, il rischio di contagio da Covid-19 diventa un rischio professionale: in tal caso si rende necessario procedere con l’aggiornamento della valutazione dei rischi .
A supporto di tale interpretazione viene invocato l’art. 29, comma 3, d.lgs. n. 81/2008 , che individua le quattro ipotesi che rendono obbligatoria la rielaborazione del DVR. Tali ipotesi si sostanziano in: a) modifiche del processo produttivo o dell’organizzazione del lavoro significative ai fini della salute e sicurezza dei lavoratori; b) evo-luzione della tecnica, della prevenzione o della protezione; c) verificarsi di infortuni significati-vi; d) emersione della necessità di aggiornare il DVR a fronte dei risultati della sorveglianza sanitaria.
Di diverso avviso, invece, chi ritiene che il datore di lavoro sia comunque obbligato ad aggiornare il DVR.
Occorre, tuttavia, rilevare che gli argomenti a sostegno di tale tesi sono diversi.
In primo luogo, è stato sostenuto che la necessità di aggiornamento derivi dall’art. 2087 cod. civ., norma di chiusura del sistema prevenzionistico e fonte di un obbligo per il datore di lavoro di adottare tutte le misure necessarie per tutelare la salute dei lavoratori .
Altri autori sono invece giunti a tale conclusione attraverso una lettura sistematica di alcune disposizioni del c.d. Testo Unico sulla Sicurezza nei luoghi di lavoro (d.lgs. n. 81/2008) .
In particolare, la lettura combinata degli articoli 15 e 28, commi 1 e 3, d.lgs. n. 81/2008 induce a ritenere che la valutazione dei rischi debba essere aggiornata ogniqualvolta un qual-siasi fattore di rischio, nuovo o diverso sul piano qualitativo e quantitativo rispetto al prece-dente assetto aziendale, renda indispensabile l’adozione di misure di prevenzione .
Tale dottrina pone inoltre l’accento sulla circostanza secondo cui anche in contesti non sanitari il rischio “esogeno” possa trasformarsi in rischio “interno” e dunque aziendale in re-lazione ai lavoratori particolarmente esposti a fronte delle mansioni svolte (ad esempio, in quanto eseguono attività che richiedono costante contatto con il pubblico) .
Secondo altri autori, invece, la necessità di aggiornare il DVR sarebbe frutto di una in-terpretazione estensiva dell’art. 267 d.lgs. n. 81/2008 in tema di definizione degli agenti biolo-gici, disposizione questa da applicare in relazione alla diffusione del coronavirus, soprattutto nel caso in cui sussista la probabilità di contagio all'interno dell'azienda .
Infine, è stato rilevato che l’esistenza del rischio impone di riconsiderare l’intera orga-nizzazione aziendale. L’esercizio dell’attività produttiva infatti è consentito laddove il titolare abbia adottato tutte le misure idonee allo svolgimento in sicurezza dell’attività, tra cui la misu-ra del distanziamento fisico. Secondo tale prospettazione, il DVR dovrebbe dunque essere ag-giornato giacché “l’implementazione della misura del distanziamento fisico determina una ri-levante modifica della organizzazione” .
Nella prassi, si registrano diversi orientamenti con riguardo alla qualificazione del ri-schio contagio da Covid-19 e alla necessità di procedere con l’aggiornamento del DVR.
L’Ispettorato Nazionale del Lavoro ha condiviso l’orientamento originariamente adot-tato dalla Regione Veneto circa la non obbligatorietà dell’aggiornamento del DVR, pur rite-nendo “utile” un piano di intervento o una procedura per un approccio graduale nell’individuazione e nell’attuazione delle misure di prevenzione.
Di contro, il Ministero della Salute ha previsto come necessaria una serie di azioni che andranno ad integrare il DVR, atte a prevenire il rischio di infezione da SARS-CoV-2 nei luo-ghi di lavoro contribuendo, altresì, alla prevenzione della diffusione dell’epidemia” .
Infine, anche L’Inail si è espressa a sostegno dell’obbligo di aggiornamento della valu-tazione dei rischi .
Alla luce dell’indagine condotta deve concludersi per la sussistenza dell’obbligo di ag-giornamento della valutazione dei rischi per il rischio Covid-19, aggiornamento da valutare in concreto, prendendo certamente in considerazione (a) le caratteristiche della prestazione lavo-rativa e (b) il contesto organizzativo del datore di lavoro, andando dunque a verificare, alla lu-ce di tali criteri se il rischio da generico possa divenire specifico: un simile preliminare proces-so di valutazione deve dunque rifuggire da ogni astratto pregiudizio secondo cui un determi-nato contesto lavorativo non possa comportare una moltiplicazione o un innalzamento del li-vello di esposizione al contagio.

III.2. L’adozione di un protocollo anti-contagio

Il Protocollo condiviso contiene linee guida per agevolare le imprese nell’adozione di protocolli di sicurezza anti-contagio.
La prosecuzione delle attività produttive deve, infatti, avvenire in presenza di condizio-ni che assicurino alle persone che lavorano adeguati livelli di protezione. Il mancato raggiun-gimento di adeguati livelli di protezione può determinare la sospensione dell’attività fino al ri-pristino delle condizioni di sicurezza.
Nel Protocollo condiviso emerge la necessità di favorire il confronto preventivo con le rappresentanze sindacali presenti nei luoghi di lavoro, mentre per le piccole imprese il con-fronto deve svolgersi con le rappresentanze territoriali affinché le misure previste nel proto-collo di regolamentazione per il contrasto e il contenimento della diffusione del virus siano re-se più efficaci dal contributo di esperienza delle persone che lavorano, in particolare degli RLS e degli RLST, tenendo conto delle specificità delle singole realtà produttive e delle situazioni territoriali.
Il protocollo anti-contagio deve contenere tutte le misure da adottare per limitare al massimo il rischio di contagio. Esso deve rivolgersi sia ai dipendenti e collaboratori dell’impresa sia ai terzi che a vario titolo intendano effettuare l’accesso nei luoghi di lavoro.
Nella specie, il protocollo deve adeguarsi alla realtà aziendale, disciplinando l’uso delle postazioni individuali, degli spazi e degli strumenti comuni, prevedendo, ove necessario, l’uso di specifici dispositivi di protezione individuale (guanti, mascherine etc).
Nel dibattito pubblico si è discusso fin da subito sulla necessità da parte del datore di lavoro di condividere il protocollo anti-contagio con le rappresentanze sindacali. Mentre le or-ganizzazioni sindacali hanno auspicato un confronto con la parte datoriale, le imprese hanno sostenuto il bisogno di adottare un codice di autoregolamentazione, più elastico e privo di sanzioni.
Come rilevato in dottrina , tra le due opzioni sembra prevalere quella della condivi-sione di tali protocolli, anche alla luce degli obblighi di partecipazione sindacale previsti nel Protocollo condiviso .

III.3. I nuovi dispositivi di protezione individuale

La necessità di contrastare la diffusione del Coronavirus ha imposto l’adozione di spe-cifici dispositivi di protezione individuale (inde: DPI) cui viene dedicato il punto 6 del Proto-collo condiviso.
I DPI di maggiore utilizzo sono le mascherine, le quali devono essere utilizzate in con-formità a quanto previsto dalle indicazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Sul punto deve rilevarsi che l’art. 16 del d.l. 17 marzo n. 18 (c.d. decreto Cura Italia) conv. in l. 24 aprile 2020 prevede che, fino al termine dello stato di emergenza, per i lavoratori che nello svolgimento della loro attività sono oggettivamente impossibilitati a mantenere la di-stanza interpersonale di un metro, le mascherine chirurgiche reperibili in commercio sono da considerarsi dispositivi di protezione individuale di cui all’articolo 74, comma 1, del decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 .
In relazione a particolari contesti lavorativi, l’uso delle mascherine deve associarsi ad altri dispositivi di protezione (guanti, occhiali, tute, cuffie, camici) nel caso in cui il lavoro im-ponga di lavorare a distanza interpersonale inferiore a un metro e non siano possibili altre so-luzioni organizzative.
Resta inteso che l’adozione dei DPI è strettamente connessa alla tipologia di attività svolta in azienda e all’organizzazione aziendale; nel caso di condivisione di spazi comuni è previsto l’utilizzo della mascherina chirurgica.

III.4. L’informazione ai lavoratori

Il Protocollo condiviso (punto 1) prevede particolari obblighi di informazione a carico dei datori di lavoro.
In particolare, il datore di lavoro ha l’obbligo di informare tutti i lavoratori e i terzi nel modo più idoneo ed efficace circa le disposizioni attualmente vigenti, mediante consegna e/o affissione all’ingresso e nei luoghi maggiormente visibili dei locali aziendali appositi depliants informativi sulle regole da seguire.
Nella specie, le informazioni devono riguardare: a) l’obbligo di rimanere al proprio do-micilio in presenza di febbre (oltre 37,5°) o di altri sintomi influenzali e di chiamare il medico di famiglia e l’autorità sanitaria preposta; b) l’accettazione dell’impossibilità di fare ingresso o di permanere nel luogo di lavoro in caso di insorgenza o di sussistenza di condizioni c.d. di pericolo anche successivamente all’ingresso nel luogo di lavoro (sintomi influenzali, prove-nienza da zone a rischio, aumento della temperatura corporea, contatto con persone positive nei quattordici giorni precedenti e in generale in tutti i casi in cui i provvedimenti dell’autorità impongono di informare il medico di famiglia e l’autorità sanitaria); c) l’impegno a rispettare tutte le disposizioni dell’autorità e del datore di lavoro nel fare ingresso nel luogo di lavoro; d) l’impegno a informare con sollecitudine il datore di lavoro della comparsa di sintomi influen-zali, avendo cura di rimanere ad adeguata distanza dalle persone presenti.
Inoltre, il datore di lavoro fornisce una informazione adeguata sulla base delle mansioni e dei contesti lavorativi, avuto particolare riguardo per le misure cui il personale deve attenersi e in particolare sul corretto utilizzo dei DPI per contribuire a prevenire ogni possibile forma di diffusione di contagio.

III.5. Le limitazioni dell’accesso per i terzi

Il Protocollo condiviso contiene specifiche misure per limitare l’accesso ai locali azien-dali ai soggetti terzi (punto 3).
In primo luogo, si precisa che per l’accesso di fornitori esterni occorre individuare pro-cedure di ingresso, transito e uscita mediante modalità, percorsi, e tempistiche predefinite, al fine di ridurre le occasioni di contatto con il personale in forza.
Inoltre, gli autisti devono rimanere a bordo del mezzo di trasporto e, in presenza di operazioni di carico e scarico, dovranno attenersi alla rigorosa distanza di un metro. Ai tra-sportatori non è in nessun caso consentito l’accesso agli uffici.
I fornitori e trasportatori non possono utilizzare i servizi igienici destinati ai dipendenti, ma appositi servizi ad essi dedicati che dovranno essere puliti quotidianamente.
L’accesso ai visitatori esterni (ad esempio, imprese di pulizie e manutentori) deve esse-re ridotto al massimo. Tali soggetti devono inoltre rispettare le regole aziendali, comprese quelle per l’accesso ai locali aziendali.
Nel caso in cui il datore di lavoro abbia adottato un servizio di trasporto occorre ga-rantire e rispettare la sicurezza dei lavoratori lungo ogni tragitto.
Nella parte in cui si occupa dell’accesso ai soggetti terzi esterni, il Protocollo condiviso prevede anche l’ipotesi della presenza delle imprese in appalto che organizzano sedi e cantieri permanenti o provvisori all’interno dei siti e delle aree produttive: in tal caso si estendono le previsioni contenute nel Protocollo; peraltro, in caso di lavoratori dipendenti da imprese terze che operano nello stesso sito produttivo e che risultino positivi al tampone, l’appaltatore do-vrà informare il committente ed entrambi dovranno collaborare con l’autorità sanitaria per fornire elementi utili all’individuazione di eventuali contatti stretti.
Infine, l’impresa committente è tenuta a dare all’impresa appaltatrice completa infor-mativa dei contenuti del protocollo aziendale e deve vigilare affinché i lavoratori dell’azienda e dei terzi che operino a vario titolo nel perimetro aziendale ne rispettino integralmente le di-sposizioni.

III.6. La gestione degli spazi comuni

In base al Protocollo condiviso (punto 7) il datore di lavoro deve contingentare l’accesso agli spazi comuni quali le mense aziendali, le aree fumatori, gli spogliatoi, i distribu-tori di bevande e snack. Tali locali devono comunque essere continuamente ben ventilati, puliti e periodicamente sanificati. La sosta in tali locali deve essere garantita per un tempo ridotto e gli occupanti devono mantenere sempre la distanza di sicurezza di almeno un metro.
Occorre poi adottare particolari cautele nell’organizzazione degli spazi all’interno degli spogliatoi, al fine di garantire ai lavoratori condizioni igienico-sanitarie adeguate e appositi luoghi per il deposito degli indumenti da lavoro.
Al fine di evitare assembramenti e contatti negli spazi comuni devono essere favoriti orari di ingresso e uscita scaglionati. Ove possibile, occorre individuare una porta di entrata e una porta di uscita dai locali comuni, installando, se del caso, dispenser con gel detergenti.

III.7. La sanificazione periodica dei locali aziendali

Secondo quanto previsto dal Protocollo condiviso (punto 4) il datore di lavoro deve as-sicurare la pulizia giornaliera e la sanificazione periodica dei locali, degli ambienti, delle posta-zioni di lavoro e delle aree comuni e di svago.
La pulizia e la sanificazione nonché la ventilazione devono essere effettuate secondo le disposizioni di cui alla circolare 22 febbraio 2020 del Ministero della Salute in caso di presenza all’interno dei locali aziendali di una persona affetta da COVID-19.
A fine turno deve essere garantita la pulizia delle tastiere, dei mouse e degli schermi touch e periodicamente deve essere garantita la sanificazione di tali apparecchi. Il Protocollo prevede inoltre la possibilità per le aziende di organizzare interventi particolari/periodici di pulizia ri-correndo agli ammortizzatori sociali anche in deroga.

 

III.8. La sorveglianza sanitaria eccezionale

Il rischio di contagio da Covid-19 ha posto il problema di preservare con particolare cura la salute dei lavoratori considerati fragili .
Il Protocollo condiviso, al punto 12, prevede che il medico competente segnala al dato-re di lavoro situazioni di particolare fragilità e patologie attuali o pregresse dei dipendenti e il datore di lavoro provvede alla loro tutela nel rispetto della privacy.
L'art. 83 d.l. 19 maggio 2020, n. 34 (c.d. decreto Rilancio) convertito in l. 17 luglio 2020 n. 77 ha introdotto la sorveglianza sanitaria eccezionale per quei lavoratori maggiormente espo-sti a rischio di contagio, in ragione dell'età o di una condizione di rischio riguardante lo stato di salute (ad esempio, immunodepressione, presenza di patologie oncologiche, svolgimento di terapie salvavita etc).
La disposizione ha previsto, inoltre, la possibilità per i datori di lavoro privati, che non siano tenuti alla nomina del medico competente, di provvedervi per il periodo dell'emergenza oppure di rivolgersi ai servizi territoriali Inail per effettuare la sorveglianza sanitaria ecceziona-le per i lavoratori maggiormente esposti al rischio contagio.
Ai sensi del terzo comma del citato art. 83, un eventuale giudizio di inidoneità alla mansione non può giustificare in ogni caso il recesso da parte del datore di lavoro, imponen-dosi qui, con previsione eccezionale, la permanenza del vincolo contrattuale che, oltre a porre qualche dubbio di legittimità costituzionale sul versante della libertà organizzativa del datore di lavoro (art. 41 Cost.), è tale da comportare non pochi disagi, considerata l’ipotesi in cui non sia possibile utilizzare la prestazione di lavoro del dipendente cui non possano essere assegna-te mansioni diverse, anche inferiori o l’ipotesi in cui non sia possibile, per le caratteristiche della prestazione, fare ricorso al lavoro agile.
La disposizione non è del tutto chiara su come debba svolgersi tale particolare modali-tà di sorveglianza sanitaria.
Occorre soggiungere che il sopraggiunto d.l. 30 luglio 2020 n. 83 (art. 1, comma 4) ha stabilito che il sopra citato art. 83 cessi di produrre i suoi effetti dal 1° agosto 2020.
È tuttavia chiaro che, essendo invece operante il Protocollo condiviso (e dunque anche il già ricordato punto 12), permane l’obbligo previsto in tale disposizione e non potrà certa-mente pretermettersi la valutazione concernente l’eventuale fragilità dei dipendenti anche alla luce delle indicazioni che saggiamente provengono dalla circolare 4 settembre 2020 n. 13 del Ministero del lavoro e del Ministero della salute.
Risulta evidente che, in relazione a tale particolare tema, un ruolo chiave è rappresenta-to dal medico competente. In questo quadro sembra ragionevole ipotizzare che il datore di la-voro debba informare tutti i dipendenti della possibilità di mettersi in contatto con il medico competente per segnalare la presenza di fattori di rischio connessi all’età o alla diagnosi di par-ticolari patologie.
Una volta rilevata dal medico competente la presenza di fattori di rischio, il datore di lavoro, nel rispetto della privacy, potrà adottare ogni può opportuno accorgimento per garanti-re la salute dei lavoratori coinvolti (ad esempio, l’attivazione smart working).

III.9. I profili relativi alla privacy.

Misure quali la rilevazione della temperatura corporea, il rilascio di una dichiarazione attestante la non provenienza da zone a rischio o l’assenza di contatti con soggetti a rischio o, ancora, la sottoposizione a test sierologici o a tamponi dei lavoratori hanno posto un ulteriore problema con riferimento alla tutela della privacy dei soggetti coinvolti .
Il contemperamento tra fondamentali esigenze di prevenzione del contagio nel contesto lavorativo e il diritto alla privacy dei lavoratori nella fase emergenziale trova il proprio equili-brio nell’art. 17-bis del d.l. 17 marzo 2020 n. 18 (c.d. decreto Cura Italia) conv. in l. 24 aprile 2020 n. 27 con un chiaro riferimento all’utilizzazione dei dati personali “nei casi in cui risulti-no indispensabili ai fini dello svolgimento delle attivita' connesse alla gestione dell'emergenza sanitaria in atto” (comma 2).
Sul tema si è pronunciato anche il Comitato europeo sulla protezione dei dati personali, concludendo per la legittimità del trattamento dei dati sanitari per tutelare la salute e sicurezza sul lavoro nonché gli interessi generali connessi alla sanità pubblica, purché all’interessato sia fornita una previa informativa e sia rispettato il principio di proporzionalità .
Una simile affermazione è coerente con quanto previsto dall’art. 9, lett. g) del GDPR in base al quale non si applica il divieto di trattamento quando questo “è necessario per motivi di interesse pubblico rilevante sulla base del diritto dell'Unione o degli Stati membri, che deve essere proporzionato alla finalità perseguita, rispettare l'essenza del diritto alla prote-zione dei dati e prevedere misure appropriate e specifiche per tutelare i diritti fonda-mentali e gli interessi dell'interessato”; Entro questa cornice si colloca anche la lett. i) del citato art. 9 in base al quale il divieto di trattamento non si applica quando “questo è necessa-rio per motivi di interesse pubblico nel settore della sanità pubblica, quali la protezione da gravi minacce per la salute a carattere transfrontaliero o la garanzia di parametri elevati di qualità e sicurezza dell'assistenza sanitaria e dei medicinali e dei dispositivi medici, sulla base del diritto dell'Unione o degli Stati membri che prevede misure appropriate e specifiche per tutelare i diritti e le libertà dell'interessato, in particolare il segreto professionale”.
Alla luce di tali indicazioni sembra vi siano elementi sufficienti per garantire le fonda-mentali esigenze di prevenzione del contagio pur nel rispetto di necessarie garanzie per la pri-vacy del lavoratore che attengono, essenzialmente, ad una adeguata informativa da fornire ai lavoratori interessati e al principio di proporzionalità .
Una questione particolare attiene ai dispositivi dotati di sistemi di contact tracing ve-nendo qui in considerazione l’utilizzo di applicazioni che consentono il tracciamento che si so-stanzia in un’attività di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori.
I c.d. wearable device possono tendenzialmente essere annoverati tra gli strumenti di cui all’art. 4, comma 1, stat. lav.: in tal caso, non sembra possano sorgere dubbi sulla necessità che tali dispositivi siano utilizzati solo per garantire la sicurezza dei lavoratori e sulla base di un preventivo accordo con le organizzazioni sindacali o dell’autorizzazione amministrativa .

 

III.10. La misurazione della temperatura corporea.

Il Protocollo condiviso ha previsto (punto 2) la possibilità per il datore di lavoro di ef-fettuare all’ingresso dei luoghi di lavoro la misurazione della temperatura corporea attraverso strumenti non invasivi e nel rispetto della privacy dei dipendenti, costituendo questo un tratta-mento di dati personali.
Infatti, il Protocollo ha precisato che il lavoratore deve ricevere adeguata informativa, anche solo orale, sul trattamento di dati personali.
Tuttavia, a fronte della delicatezza del tema in oggetto, sembra corretto e ragionevole ritenere che l’informativa debba avere forma scritta e che l’interessato, debba prestare il pro-prio consenso alla rilevazione.
La finalità del trattamento consiste nella prevenzione da contagio COVID-19, mentre la base giuridica del trattamento è individuata nell’implementazione dei protocolli di sicurezza anti-contagio.
Si precisa, altresì, che la temperatura corporea può essere registrata solo laddove sia superiore a 37,5°, dunque tale da non consentire l’accesso nei luoghi di lavoro.
Inoltre, il dato rilevato deve essere adeguatamente conservato e non può essere diffuso o comunicato a terzi, ad eccezione delle ipotesi espressamente previste dalla legge (ad es. au-torità sanitarie).
La dottrina si è interrogata sulle possibili conseguenze connesse all’eventuale rifiuto del lavoratore di sottoporsi all’accertamento datoriale cui non si applicherebbe l’art. 5 stat. lav.
Secondo alcuni il lavoratore sarebbe obbligato a sottoporsi alla rilevazione della tempe-ratura ai sensi dell’art. 2104 cod. civ. e dell’art. 20, comma 2, lett. i) d.lgs. n. 81/2008, disposi-zione quest’ultima che impone al lavoratore di sottoporsi a controlli sanitari non solo nei casi previsti dalla normativa ma in tutte le ipotesi in cui tali controlli siano disposti dal medico competente in ragione dell’esposizione a un rischio per la salute e comunque in conformità ad un apposito protocollo sanitario .
Secondo tale ricostruzione un eventuale rifiuto del lavoratore potrebbe persino divenire fonte di responsabilità disciplinare ex art. 7 st. lav. o, ancora, potrebbe dar luogo a contrav-venzione ai sensi dell’art. 59, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 81/2008 .

III.11. I test sierologici e i tamponi per la diagnosi di infezione da Covid-19.

Particolarmente delicata è la questione concernente la possibilità per il datore di lavoro di sottoporre i dipendenti ai test sierologici e i tamponi per la diagnosi di infezione da Covid-19.
I primi consentono di verificare se il lavoratore è entrato in contatto con il virus. In ca-so di positività, occorre però distinguere tra chi risulta ancora infetto e sicuramente portatore del virus (in quanto viene rilevata la presenza di anticorpi IgM) e chi invece è solo probabil-mente infetto o lo abbia debellato (in quanto viene rilevata la presenza di anticorpi IgG).
I secondi prevedono l’analisi molecolare del nuovo Coronavirus per confermare o escludere l’infezione .
Tali test, i primi presentando un non trascurabile margine di errore , potrebbero costi-tuire un valido strumento per garantire la sicurezza nei luoghi di lavoro, consentendo di moni-torare e circoscrivere possibili focolai.
La dottrina ha ritenuto che, allo stato, non sia possibile per il datore di lavoro effettua-re direttamente sui propri dipendenti i test sierologici; si tratterebbe di un accertamento sani-tario non consentito dall’art. 5 stat. lav. Tuttavia, al fine di garantire un accesso sicuro al luo-go di lavoro, favorendo l’effettuazione di tutti i controlli sanitari utili per prevenire la diffusio-ne del Coronavirus, è stata auspicata una modifica dell’art. 5 cit., oppure una deroga alla di-sposizione con il controllo e la mediazione delle organizzazioni sindacali .
Analoghe considerazioni possono estendersi ai tamponi per la diagnosi dell’infezione da Covid-19.
Inoltre, è stato condivisibilmente rilevato che “l’attestazione da parte del medico com-petente della presenza di anticorpi che segnalano che il lavoratore è entrato in contatto con il virus (IgM ed IgG) – che comporta l’immediato divieto di accesso del lavoratore al luogo di lavoro – dovrebbe costituire di per sé certificazione dello stato di malattia. Il medico compe-tente dovrebbe poi comunicare alla ASL il dato raccolto per permettere un controllo incrocia-to da parte delle strutture pubbliche tramite esami di laboratorio (tamponi nasali)” .
Anche il Garante Privacy in una faq pubblicata in data 24 aprile 2020 ha preso posi-zione in merito alla possibilità per il datore di lavoro di effettuare test sierologici con conside-razioni che sembra possano riguardare anche i tamponi.
Il medico competente è l’unica figura abilitata a stabilire la necessità di particolari esa-mi clinici e biologici e a suggerire l’adozione di mezzi diagnostici utili al contenimento della diffusione del virus.
Il Garante ha rimarcato che il datore di lavoro può solo trattare i dati relativi al giudi-zio di idoneità alla mansione specifica e alle eventuali prescrizioni o limitazioni che il medico competente può stabilire come condizioni di lavoro, mentre non può trattare le informazioni relative alla diagnosi o all’anamnesi familiare del lavoratore, salvi i casi espressamente previsti dalla legge.
Il datore di lavoro può comunque proporre ai propri dipendenti, anche sostenendone in tutto o in parte i costi, di sottoporsi ai test sierologici o a tamponi presso strutture sanitarie pubbliche o private, senza poter tuttavia conoscere l’esito dell’esame.

III.12. Sulla presenza di un collaboratore sintomatico nel luogo di lavoro

Il riferimento principale sul tema è contenuto nel Protocollo condiviso (punto 11) se-condo cui “nel caso in cui una persona presente in azienda sviluppi febbre e sintomi di infe-zione respiratoria quali la tosse, lo deve dichiarare immediatamente all’ufficio del personale”. Successivamente si dovrà procedere al suo isolamento in base alle disposizioni dell’autorità sanitaria e all’isolamento degli altri presenti dai locali.
Il datore di lavoro procede immediatamente ad avvertire le autorità sanitarie competen-ti e i numeri di emergenza per il Covid-19 forniti dalla Regione o dal Ministero della Salute e deve collaborare con le autorità sanitarie per la definizione degli eventuali “contatti stretti” di una persona presente nel luogo di lavoro che sia stata riscontrata positiva al tampone Covid-19, così da permettere alle autorità di applicare le misure di quarantena.
Nel periodo dell’indagine, il datore di lavoro potrà chiedere agli eventuali possibili con-tatti stretti di lasciare cautelativamente il luogo di lavoro, secondo le indicazioni dell’Autorità sanitaria.
In caso di presenza di persona con sintomi o confermata positività al virus, il datore di lavoro dovrà provvedere alla sanificazione dell’ambiente di lavoro.
Occorre tenere conto anche di quanto indicato nella circolare del Ministero della Salute n. 5443 del 22 febbraio 2020.
Nella citata circolare si prevede che, nel caso di stazionamento nei luoghi di lavoro di una persona con sintomi, occorre effettuare un intervento straordinario di sanificazio-ne/decontaminazione dei locali frequentati, compreso il locale utilizzato per l’isolamento del soggetto.
L’intervento degli operatori per la sanificazione deve essere preceduto da un’aerazione completa dei locali.
A causa della possibile sopravvivenza del virus nell’ambiente e sulle superfici per diver-so tempo, le aree frequentate dalla persona, nonché le attrezzature utilizzate e le superfici toc-cate di frequente, dovranno essere sottoposte a completa pulizia con acqua e detergenti co-muni prima di essere utilizzate nuovamente.

III.13. Il ricorso al lavoro agile.

Come si è già messo in luce (paragrafo I), l’emergenza epidemiologica ha sottoposto ad una sorta di torsione funzionale il lavoro agile che, da istituto finalizzato a realizzare la conci-liazione vita-lavoro e l’efficienza dell’organizzazione del datore di lavoro, ha assunto anche la funzione di tutelare la salute dei lavoratori salvaguardando, almeno in parte, la continuità delle attività economiche.
Il ricorso al lavoro agile è stato promosso dal Protocollo condiviso che, fin dalla pre-messa, prevede che ne sia attuato il massimo utilizzo da parte delle imprese per le attività che possono essere svolte al proprio domicilio o in modalità a distanza. Nel medesimo senso si è espresso il Governo nella lunga sequenza di D.P.C.M. che si sono succeduti nel corso del tempo, prevedendosi, come è noto, una particolare regolamentazione del c.d. smart working unilaterale (“anche in assenza di accordi individuali”) .
Oltre a rappresentare una possibile strategia di gestione dell’emergenza epidemiologica, il lavoro agile può anche atteggiarsi come un percorso obbligato quando non sia possibile ri-correre alla cassa integrazione guadagni (per Covid-19) o, ancora, ad una gestione emergenzia-le delle ferie o, comunque, ad ipotesi di sospensione del rapporto di lavoro.
In mancanza di una fattispecie sospensiva e in tutte le ipotesi in cui non sia possibile consentire la presenza dei dipendenti nel luogo di lavoro senza violare le misure per la preven-zione del contagio, il ricorso al lavoro agile diventa l’unica via percorribile dalle parti per dar corso allo svolgimento dell’attività lavorativa, con il limite, fortemente critico, che si pone ove le caratteristiche della prestazione siano incompatibili con tale modalità di svolgimento del rapporto .
Il legislatore ha poi codificato un diritto al lavoro agile per i lavoratori con l’art. 39 del d.l. 17 marzo n. 18 (c.d. decreto Cura Italia) conv. in l. 24 aprile 2020.
Il primo comma del citato art. 39 sancisce il diritto per i lavoratori dipendenti grave-mente disabili o che abbiano nel proprio nucleo familiare una persona affetta da grave disabili-tà a svolgere la prestazione di lavoro in modalità agile fino alla cessazione dello stato di emer-genza epidemiologica da COVID-19. Tale diritto è accordato a condizione che lo smart working sia compatibile con le caratteristiche della prestazione.
Il secondo comma della suddetta disposizione riconosce ai lavoratori del settore priva-to affetti da gravi e comprovate patologie con ridotta capacità lavorativa la priorità nell'acco-glimento delle istanze di svolgimento delle prestazioni lavorative in modalità agile e, infine, il comma 2-bis estende le previsioni dei commi precedenti ai lavoratori immunodepressi e ai fa-miliari conviventi di persone immunodepresse.
Il tema è stato poi ripreso dall’art. 90 del d.l. 19 maggio 2020, n. 34 (c.d. decreto Rilan-cio) convertito in l. 17 luglio 2020 n. 77 il quale prevede che il diritto al lavoro agile è ricono-sciuto, sulla base delle valutazioni dei medici competenti, anche ai lavoratori maggiormente esposti a rischio di contagio da virus SARS-CoV-2, in ragione dell'età o della condizione di ri-schio derivante da immunodepressione, da esiti di patologie oncologiche o dallo svolgimento di terapie salvavita o, comunque, da comorbilità che possono caratterizzare una situazione di maggiore rischiosità accertata dal medico competente, nell'ambito della sorveglianza sanitaria di cui all'articolo 83 dello stesso decreto Rilancio, a condizione che tale modalità sia compati-bile con le caratteristiche della prestazione lavorativa.
Complesse e delicate si rivelano le questioni poste da tali disposizioni , soprattutto avuto riguardo alla questione, già segnalata, dell’incompatibilità del lavoro agile con le concre-te caratteristiche della prestazione di lavoro.

IV. L’obbligo di sicurezza fra regole ordinarie e regole emergenziali.

Giunti a questo punto occorre chiarire se le regole prevenzionali di natura emergenzia-le appena esaminate si sostituiscano alle regole ordinarie in tema di sicurezza sul lavoro , an-dando a costituire un corpus normativo temporaneo determinato dalla particolare situazione epidemiologica o se, invece, tali regole semplicemente coesistano con quelle ordinarie, rappre-sentandone una transitoria specificazione con riferimento al tema del contagio da Covid-19.
Per chi scrive non pare possano sorgere dubbi sulla validità della seconda opzione giacché un (seppur transitorio) meccanismo di “sospensione” delle regole ordinarie priverebbe di senso le stesse regole temporanee che, da un lato, necessitano di una cornice generale nella quale collocarsi e, dall’altro, non hanno il pregio dell’esaustività.
Come già accennato (paragrafo II), l’art. 29-bis del d.l. n. 23/2020 conv. in l. n. 40/2020 (c.d. decreto Liquidità) sembra voler indicare una specifica delimitazione dell’obbligo di sicu-rezza, prevedendo che l’applicazione (nonché l’adozione ed il mantenimento) delle prescrizioni contenute nel Protocollo condiviso rappresentino adempimento “dell’obbligo di cui all’art. 2087 del codice civile”.
Pur nel quadro di criticità già segnalate (paragrafo II), si tratta di una soluzione innova-tiva giacché il legislatore, per l’individuazione delle misure emergenziali da adottare nei luoghi di lavoro, rinvia all’autonomia collettiva che assume una vera e propria funzione normativa su un terreno decisamente inedito (quello della sicurezza sul lavoro) rispetto ad una pur ricca tradizione.
Da notare che il primo rinvio all’autonomia collettiva è fisso, contemplando il richiamo ad uno specifico accordo – il Protocollo condiviso del 24 aprile 2020 – mentre, nella parte fi-nale della disposizione, qualora non trovino applicazione le “suddette prescrizioni” il rinvio è ai “protocolli o accordi di settore stipulati dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparati-vamente più rappresentative sul piano nazionale”.
Per quanto riguarda l’ultima parte della disposizione, deve notarsi che se la selezione dell’agente negoziale ha connotazioni classiche ed è ben collaudata, è invece decisamente par-ticolare, considerata la materia della sicurezza sul lavoro, il riferimento indeterminato ad ac-cordi che conterrebbero previsioni di cui invece si ignora il contenuto: in questa ipotesi il legi-slatore ha dunque totalmente demandato alle parti sociali la funzione di individuare con quali modalità debba ritenersi adempiuto l’art. 2087 cod. civ. per contenere la diffusione del Covid-19.
Considerati gli adempimenti anche di natura tecnica che si riconnettono all’obbligo di sicurezza, la soluzione normativa, operante in via residuale, di demandare in bianco alle parti sociali l’individuazione delle misure di prevenzione suscita non poche perplessità per la sua genericità. Per altro verso la circostanza che il legislatore contempli l’ipotesi che le prescrizioni dei vari protocolli richiamati non trovino applicazione, mette in luce che la legge non ha qui inteso attribuire efficacia generalmente obbligatoria al Protocollo condiviso (e agli altri accordi richiamati dall’art. 29) ma individuare uno standard minimo di sicurezza da applicare in qual-siasi ambiente di lavoro.
Per quanto concerne invece il primo rinvio, quello fisso al protocollo del 24 aprile 2020, può dirsi che qui il legislatore si limita a recepire il risultato del processo di negoziazio-ne, individuando con sufficiente e ragionevole certezza le misure di prevenzione da assolvere. Tuttavia, come è evidente, il rinvio fisso pone il problema della non esaustività delle regole in-dividuate dal Protocollo condiviso che, quindi, ove isolate della trama normativa, non possono rappresentare l’esatto adempimento dell’obbligo di sicurezza.
In ogni caso il tentativo di delimitare la portata dell’obbligo di sicurezza al rispetto del protocollo (o dei protocolli) deve essere comunque esaminato in chiave critica giacché il pun-to di osservazione rimane necessariamente quello della massima sicurezza tecnologicamente possibile, alla luce della consolidata elaborazione della nostra giurisprudenza.
Per questa ragione si deve ritenere valida una chiave di lettura che presupponga l’interazione fra le regole ordinarie e le regole transitorie determinate dalla situazione epide-miologica.
Ciò è confermato anche dall’esame condotto nelle pagine precedenti sulle specifiche misure emergenziali.
Tali misure, per poter soddisfare fondamentali esigenze di prevenzione, richiedono lo specifico sostegno della legge e degli atti normativi emanati in via emergenziale.
In particolare, quanto previsto dal protocollo sul tema delle mascherine (punto 6) ha trovato forza nell’art. 16 d.l. n. 18/2020 che prevede che queste, fino alla cessazione dello sta-to di emergenza, siano riconosciute come DPI. Ancora la sorveglianza sanitaria sui lavoratori fragili di cui si occupa il punto 12 del Protocollo condiviso ha avuto un riferimento importante nell’art. 83 del d.l. n. 34/2020. Inoltre quanto previsto dal Protocollo in tema di areazione dei locali (punto 10) è andato ad integrarsi con le misure di prevenzione da adottare in tema di uso dei condizionatori negli ambienti di lavoro alla luce delle indicazioni, frequentemente ag-giornate, dell’Istituto Superiore di Sanità . Ed ancora la forte promozione che il Protocollo condiviso ha riservato al lavoro agile ha richiesto il necessario concorso di provvedimenti go-vernativi (i vari D.P.C.M. quali atti amministrativi o atti normativi “atipici”) e legislativi (l’art. 39 del c.d. decreto Cura Italia e l’art. 90 del c.d. decreto Rilancio per quanto concerne i temi che qui interessano).
Senza poi considerare che su un tema particolarmente delicato quale l’aggiornamento della valutazione dei rischi il Protocollo condiviso non ha avuto modo di pronunciarsi per l’evidente ragione che su una simile materia risulta difficile prefigurare un intervento dell’autonomia collettiva che non sia profondamente integrato con la legge.
Le misure emergenziali prima esaminate presuppongono poi una cornice nella quale collocarsi, una chiave di lettura che solo l’art. 2087 cod. civ. è in grado di fornire, determinan-do il “come” dell’adempimento .
Sul piano sistematico occorre rilevare che l’obbligo di sicurezza non è dato solo dal ri-spetto dell’art. 2087 cod. civ. ma è la risultante di un sistema circolare nel quale interagiscono la norma generale (appunto l’art. 2087 cod. civ.) e le norme speciali (il d.lgs. n. 81/2008 e l’intera disciplina prevenzionistica di matrice comunitaria): la norma generale imprime una particolare direzione alle norme speciali, offrendone un imprescindibile criterio di inquadra-mento; le norme speciali arricchiscono di una serie di specificazioni l’obbligo di sicurezza, specificazioni che rinvigoriscono la portata prevenzionale dell’obbligo e ne proiettano l’essenza in una pluralità di contesti (es: particolari caratteristiche dell’ambiente di lavoro, del titolare dell’obbligo, delle modalità di svolgimento della prestazione lavorativa) .
Per le ragioni sopra esposte l’art. 29 cit. (che peraltro fa riferimento solo all’art. 2087 cod. civ. ma non alla disciplina prevenzionistica speciale) può essere interpretato come dispo-sizione che individua una condizione necessaria ma non sufficiente per adempiere l’obbligo di sicurezza .

V. La responsabilità del datore di lavoro per la violazione dell’obbligo di sicurez-za.

Secondo consolidate acquisizioni giurisprudenziali, la responsabilità del datore di lavoro per la violazione dell’obbligo di sicurezza muove certamente dall'art. 2087 cod. civ., che rap-presenta il perno attorno al quale ruota l'intero sistema posto a tutela della salute e sicurezza sul lavoro e che è norma di chiusura del sistema prevenzionistico .
La responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 cod. civ. non è limitata alla violazione di norme di esperienza o di regole tecniche preesistenti e collaudate, ma va estesa a tutte quel-le misure che si rivelino idonee a tutelare l'integrità psicofisica del prestatore alla luce del criterio della massima sicurezza tecnologicamente possibile , pur essendo pacifico che l'art. 2087 cod. civ. non rappresenta una ipotesi di responsabilità oggettiva .
E, in tal senso, la giurisprudenza ha sempre ritenuto che non può esigersi da parte del datore di lavoro la predisposizione di misure idonee a fronteggiare le cause di infortunio im-prevedibili .
Ovviamente la responsabilità del datore di lavoro può derivare dalla violazione di ob-blighi previsti dalla disciplina prevenzionistica, obblighi che il datore di lavoro deve assolvere in base alle particolari caratteristiche delle attività svolte.
Si deve ricordare, in ogni caso, che il datore di lavoro deve valutare, ai sensi dell'art. 28, c. 1, d.lgs. n. 81/2008, tutti i rischi che espongono i dipendenti a pericoli per la loro salute e sicurezza, agendo positivamente per la loro eliminazione o, ove questa non sia possibile, ridu-zione.
Nel sistema prevenzionistico dettato dal d.lgs. n. 81/2008, si fa riferimento anche alle c.d. “buone prassi”, cioè a soluzioni organizzative o procedurali coerenti con la normativa vi-gente e con le norme di buona tecnica, adottate volontariamente e finalizzate a promuovere la salute e la sicurezza sui luoghi di lavoro attraverso la riduzione dei rischi e il miglioramento delle condizioni di lavoro (v. art. 2, lettera v), d.lgs. n. 81/2008).
Nell’ambito dell’emergenza epidemiologica da COVID-19, come rilevato anche dalla circolare Inail n. 22 del 20.5.2020, con riferimento al tema dell’esonero dalla responsabilità da-toriale, gli obblighi derivanti dalle conoscenze sperimentali o tecniche che il datore di lavoro deve rispettare al fine di garantire la salute del lavoratore, possono rinvenirsi “nei protocolli e nelle linee guida governative e regionali di cui all’articolo 1, comma 14 del decreto legge 16 maggio 2020, n. 33”.
Pertanto, secondo l’Inail, una responsabilità del datore di lavoro è ipotizzabile solo in caso di violazione della legge e delle citate regole tecnico-scientifiche.

V.1. Profili di responsabilità civile e penale.

Dalla violazione delle regole prevenzionistiche e, più in generale, dell’obbligo di sicu-rezza può discendere la responsabilità sia civile che penale del datore di lavoro.
Muovendo da quest’ultima, il sistema sanzionatorio in materia antinfortunistica può es-sere distinto in tre gruppi di violazioni: il primo gruppo concerne le fattispecie classiche delle le-sioni colpose e dell’omicidio colposo, ove la sicurezza del lavoro trova espressa considerazio-ne nelle circostanze aggravanti speciali per violazioni di norme per la prevenzione degli infor-tuni sul lavoro (artt. 589 e 590 cod. pen.) o per violazione di norme relative all'igiene del lavo-ro tese alla prevenzione di malattie professionali (art. 590 cod. pen.); il secondo concerne le fat-tispecie incriminatrici di natura preventiva disciplinate dal codice penale (artt. 437 e 451 cod. pen.); il terzo riguarda le leggi di settore (ad esempio, l’art. 55 del d.lgs. n. 81/2008 che punisce con l'arresto da tre a sei mesi o con l'ammenda da 2.500 a 6.400 euro il datore di lavoro che non redige il DVR o che non provvede alla nomina del responsabile del servizio di prevenzio-ne e protezione).
Per quanto riguarda le ipotesi criminose più gravi (lesioni e omicidio) deve rammentar-si che l’elemento soggettivo ha natura colposa e, dunque, per la sua integrazione è sufficiente un comportamento caratterizzato da negligenza e imperizia.
Quanto ai profili civilistici, deve farsi riferimento al sistema assicurativo di cui al D.P.R. n. 1124/65
Quest’ultimo, riconoscendo tutela al lavoratore che subisce un infortunio sul lavoro, prevede espressamente un esonero dalla responsabilità civile del datore di lavoro.
Come ricordato dalla Corte Costituzionale “se non si fa luogo a prestazione previden-ziale non c’è assicurazione; mancando l’assicurazione cade l’esonero” .
Dunque, la regola dell’esonero da responsabilità civile vale per i soggetti e per i danni coperti dalla stessa assicurazione obbligatoria .
L’esonero, quindi, riguarda i danni ristorati dall’Inail (il danno patrimoniale per invalidi-tà temporanea, il danno biologico dal 6%, il danno patrimoniale dal 16%, la rendita ai supersti-ti) e non vale per il danno che esula ab origine dalla copertura assicurativa Inail, che viene defi-nito “danno complementare” (o differenziale qualitativo) come il danno biologico tempora-neo, il danno biologico in franchigia (fino al 5%,), il danno patrimoniale in franchigia (fino al 15%), il danno morale ed i pregiudizi esistenziali, il danno tanatologico o da morte iure proprio e iure successionis.
Per ottenere il ristoro dei suddetti danni il lavoratore (o suoi eredi) possono agire nei confronti del datore secondo il diritto civile, azionando la domanda per responsabilità contrat-tuale ex art. 2087 cod. civ.
L’art. 2087 cod. civ. configura infatti una responsabilità contrattuale , da cui discendo-no diretti effetti in relazione all’onere della prova (con applicazione dell’art. 1218 cod. civ.) e alla prescrizione (decennale, ex art. 2946 cod. civ.).
Affinché sia integrata una responsabilità datoriale è necessario, dunque, provare l'esi-stenza del danno, l’inadempimento ed il nesso causale fra il danno e l’inadempimento.

V.2. Le tutele Inail riconosciute al lavoratore contagiato.

L’art. 42 c. 2, del d.l. n. 18/2020 (c.d. Decreto Cura Italia) conv. in l. 24 aprile 2020 n. 27 prevede che “nei casi accertati di infezione da coronavirus (SARS- CoV-2) in occasione di lavoro il medico certificatore redige il consueto certificato di infortunio e lo invia telematicamente all’Inail che assicura, ai sensi delle vigenti disposizioni, la relativa tutela dell’infortunato. Le prestazioni Inail nei casi accertati di infezioni da coronavirus in occasione di lavoro sono erogate anche per il periodo di quarantena o di permanen-za domiciliare fiduciaria dell’infortunato con la conseguente astensione dal lavoro. I predetti eventi infortunisti-ci gravano sulla gestione assicurativa e non sono computati ai fini della determinazione dell’oscillazione del tasso medio per andamento infortunistico di cui agli articoli 19 e seguenti del Decreto Interministeriale 27 febbraio 2019. La presente disposizione si applica ai datori di lavoro pubblici e privati”.
La disposizione si applica ai soggetti già rientranti nell’ambito di applicazione della tu-tela assicurativa, di cui agli artt. 1, 4, 9 del d.P.R. n. 1124 del 1965.
Sul punto, è stata criticata la scelta di non ampliare la platea dei soggetti tutelati facen-do riferimento, in particolare, ai medici e gli infermieri professionali che prestano la propria attività con rapporto di collaborazione coordinata e continuativa, giacché l’art. 5 del d.lgs. n. 38/2000 definisce i lavoratori parasubordinati mediante il richiamo all’art. 49, comma 1, lett. a), del testo unico delle imposte sul reddito, (ora art. 50, comma 1, lett. c-bis) ove sono escluse le collaborazioni che hanno ad oggetto l’esercizio dell’arte o della professione .
Come rilevato nella circolare Inail n. 13 del 3 aprile 2020, non si tratta di una previsio-ne innovativa o eccezionale, salvo che per la deroga al computo relativo alle oscillazioni del tasso medio .
L’Istituto, infatti, ricorda che “secondo l’indirizzo vigente in materia di trattazione dei casi di malattie infettive e parassitarie l’Inail tutela tali affezioni morbose, inquadrandole, per l’aspetto assicurativo, nella categoria degli infortuni sul lavoro: in questi casi, infatti, la causa virulenta è equiparata a quella violenta” (si v. Linee-guida per la trattazione dei casi di malattie infettive e parassitarie di cui alla Circolare Inail 23 novembre 1995, n. 74).
Dunque l’art. 42 cit., confermando tale indirizzo, chiarisce che la tutela assicurativa Inail, spettante nei casi di contrazione di malattie infettive e parassitarie negli ambienti di lavo-ro e/o nell’esercizio delle attività lavorative, opera anche nei casi di infezione da nuovo coro-navirus contratta in occasione di lavoro da tutti i lavoratori assicurati all’Inail.
A ben vedere, dunque, le tutele sono quelle ordinarie .
Senza allontanarsi dai principi generali, la tutela è correlata all’origine lavorativa e dun-que concerne tutti i casi di infortunio avvenuti per causa violenta in occasione di lavoro “da cui sia derivata la morte o un’inabilità permanente al lavoro, assoluta o parziale, ovvero un’inabilità temporanea assoluta che importi l’astensione dal lavoro per più di tre giorni” (art. 2 comma 1, d.p.r n. 1124/1965) .
Dal punto di vista procedurale, il primo periodo del comma 2 del citato art. 42 ribadi-sce che, nei casi accertati di infezione da nuovo coronavirus (SARS-CoV-2) in occasione di la-voro, il medico certificatore deve predisporre e trasmettere telematicamente la prescritta certi-ficazione medica (prevista dall’art. 53, commi 8, 9 e 10, del d.p.r. n. 1124/1965) all’Inail.
Sul tema, come è stato giustamente rimarcato, nessun impatto ha avuto la disciplina emergenziale e, tantomeno, l’art. 42 del c.d. decreto Cura Italia, da più parti criticato, giacché “la tutela Inail riconosciuta al lavoratore dal Cura Italia non è subordinata, com’è proprio del-la assicurazione sociale, ad alcun accertamento di responsabilità datoriale. Non occorre per-tanto verificare se il datore abbia rispettato o meno le misure prescritte” e, al tempo stesso, “nessun imprenditore potrà mai essere chiamato a rispondere di alcunché (neppure nei con-fronti dell’Inail) se osserva le regole prevenzionali che su di lui gravano” .

 

V.3. Il nesso causale tra l’evento dannoso e la condotta datoriale.

I principali fattori che interrompono il collegamento causale possono essere rinvenuti in comportamenti dolosi o colposi del lavoratore e nella sussistenza del c.d. rischio elettivo, ossia il rischio diverso da quello al quale il lavoratore sarebbe esposto per esigenze lavorative, che sussiste nei casi in cui vi sia una condotta propria del lavoratore, avulsa dall'esercizio della prestazione lavorativa, ma esercitata e intrapresa volontariamente in base a ragioni e motiva-zioni del tutto personali, al di fuori dell'attività lavorativa e prescindendo da essa .
Sul punto, secondo la giurisprudenza, non può sussistere il concorso di colpa dell'infor-tunato qualora siano state violate le prescrizioni in materia di sicurezza previste dalla legge o vi siano stati comportamenti avventati, negligenti o disattenti .
Alla luce di tali valutazioni occorre considerare la problematica relativa alla dimostra-zione dell’avvenuto contagio nel luogo di lavoro, in ragione della natura epidemiologica dell’infezione e delle caratteristiche del virus che ha un lungo periodo di incubazione e può, pertanto, manifestarsi dopo molto tempo.

V.4. L’onere della prova

Come già rilevato (paragrafo V.1.), l'esistenza di un danno, l’inadempimento ed il nesso causale fra il danno e l’inadempimento sono i tre elementi che compongono la prova della re-sponsabilità datoriale.
Secondo una giurisprudenza ormai costante ai fini dell'accertamento della responsabili-tà del datore di lavoro ex art. 2087 cod. civ. al lavoratore che lamenti di aver subìto, a causa dell'attività lavorativa svolta, un danno alla salute, spetta l'onere di provare l'esistenza di tale danno, la nocività dell'ambiente di lavoro ed il nesso causale fra questi due elementi, gravando invece sul datore di lavoro, una volta che il lavoratore abbia provato le suddette circostanze, l'onere di dimostrare di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno .
Con riferimento all’onere della prova ai fini della tutela Inail, il lavoratore deve dimo-strare che l’infortunio è correlato alla prestazione.
Sul punto l’Inail ha ricordato, attraverso la propria circolare n. 13/2020, che la copertu-ra assicurativa è riconosciuta al lavoratore a condizione che la malattia sia stata contratta du-rante l’attività lavorativa e che l’onere della prova nei confronti dell’Inail, secondo i principi generali, è a carico dell’assicurato.
La circolare ritiene sussistere una presunzione semplice (e, dunque, superabile da parte dell’Istituto) di origine professionale dell’infortunio per gli operatori sanitari “considerata ap-punto la elevatissima probabilità̀ che gli operatori sanitari vengano a contatto con il nuovo co-ronavirus”, ai quali vengono equiparati i lavoratori che prestano “attività lavorative che com-portano il costante contatto con il pubblico/l’utenza”, tra cui possono indicarsi (“in via esem-plificativa, ma non esaustiva”, specifica l’Inail): lavoratori che operano in front-office, alla cassa, addetti alle vendite/banconisti, personale non sanitario operante all’interno degli ospedali con mansioni tecniche, di supporto, di pulizie, operatori del trasporto infermi.
Al lavoratore spetta lo specifico onere di riscontrare il fatto costituente inadempimento dell'obbligo di sicurezza nonché il nesso di causalità materiale tra l'inadempimento stesso ed il danno da lui subito .
Il datore di lavoro deve dimostrare, come detto, di aver adempiuto esattamente l’obbligo di sicurezza, apprestando tutte le misure per evitare il danno.
Si deve, comunque, distinguere tra le misure di sicurezza nominate (espressamente e specificamente definite dalla legge) e quelle innominate (ricavate alla luce del generale obbligo ex art. 2087 cod. civ.), secondo l’insegnamento della giurisprudenza di legittimità.
Per quanto concerne le misure di sicurezza nominate il lavoratore ha l'onere di provare soltanto la fattispecie costitutiva prevista dalla fonte impositiva della misura stessa – ovvero il rischio specifico che si intende prevenire o contenere – nonché, ovviamente, il nesso di causa-lità materiale tra l'inosservanza della misura ed il danno subito. La prova liberatoria incomben-te sul datore di lavoro si esaurisce nella negazione degli stessi fatti provati dal lavoratore, ossia nel riscontro dell'insussistenza dell'inadempimento e del nesso eziologico tra quest'ultimo e il danno.
Per quanto concerne le misure di sicurezza innominate la prova liberatoria a carico del datore di lavoro (fermo restando il suddetto onere probatorio spettante al lavoratore) risulta invece generalmente correlata alla quantificazione della misura della diligenza ritenuta esigibi-le, nella predisposizione delle indicate misure di sicurezza, imponendosi, di norma, al datore di lavoro l'onere di provare l'adozione di comportamenti specifici che, ancorché non risultino dettati dalla legge (o altra fonte equiparata), siano suggeriti da conoscenze sperimentali e tec-niche, dagli standard di sicurezza normalmente osservati o trovino riferimento in altre fonti analoghe .
Rispetto ad un caso di contagio, per l’Inail (affrontando il tema dell’azione di regresso, ai sensi dell’art. 11 d.P.R. n. 1124/1965, sul datore in caso di infortunio per Covid-19), le mi-sure da rispettare sono rappresentate dai protocolli e dalle linee guida governative e regionali di cui all’art. 1, c. 14 del d. l. 16 maggio 2020, n. 33.
La citata circolare n. 22/2020 ritiene, infatti, che “in assenza di una comprovata viola-zione, da parte del datore di lavoro, pertanto, delle misure di contenimento del rischio di con-tagio di cui ai protocolli o alle linee guida di cui all’articolo 1, comma 14, del decreto-legge 16 maggio 2020, n. 33, sarebbe molto arduo ipotizzare e dimostrare la colpa del datore di lavo-ro”.
Ovviamente, tale posizione è propria dell’Inail, mentre si dovrà attendere quale posi-zione assumerà la giurisprudenza e verificare se quest’ultima riterrà sufficiente l’adozione dei protocolli e delle linee guida emanate, anche in relazione all’ampiezza degli obblighi del datore di lavoro e, dunque, ai criteri in base ai quali valutare l’adempimento all’obbligo di sicurezza.

V.5. L’esonero del datore di lavoro da responsabilità civile.

Come anticipato, il principio dell’esonero del datore di lavoro dalla responsabilità civile è previsto nell’art. 10 del d.p.r. n. 1124/1965 ed è valido solo in relazione ai danni coperti dalla tutela assicurativa.
Secondo tale disposizione, solo in presenza di un fatto che costituisca illecito penale perseguibile d’ufficio (accertabile in via incidentale anche soltanto in sede civile) il datore do-vrà rispondere civilmente dei danni subiti dal lavoratore.
La giurisprudenza, sul tema, ritiene che, ai fini di una valida formulazione della doman-da di risarcimento del danno differenziale, non è necessaria una rigorosa specificazione dei presupposti che danno luogo a tale obbligo, ed in particolare la puntuale e formale qualifica-zione del fatto in termini di illiceità penale e la specifica deduzione del preteso quantum in ter-mini di danno differenziale.
Invero, la Corte ritiene che tali specificazioni siano superflue: per quanto concerne la deduzione delle circostanze che integrino gli estremi di un reato perseguibile d’ufficio, infatti, è sufficiente che il lavoratore alleghi circostanze di fatto che possano essere comprese in una delle fattispecie di reato considerate dalla norma, giacché l’operazione di sussunzione e quali-ficazione giuridica compete esclusivamente al giudice .
Con riferimento all’integrazione di una fattispecie penale in caso di contagio, visti i po-tenziali effetti della malattia, può ipotizzarsi che venga in considerazione il delitto di lesioni personali colpose (art. 590 cod. pen.).

 

V.6. Il danno differenziale.

La nozione di danno differenziale muove dalla premessa che l’indennizzo previdenziale (di cui all’art. 38 Cost.) è finalizzato soltanto a garantire al lavoratore la libertà dal bisogno (e dunque mezzi adeguati alle esigenze di vita): per tale ragione l’indennizzo segue criteri di li-quidazione diversi da quelli generali propri della responsabilità civile.
L’erogazione dell’indennizzo corrisposto dall’Inail non esclude quindi la necessità di ri-volgersi al datore di lavoro quante volte, sussistendone gli specifici presupposti, il danneggiato intenda ottenere l’integrale ristoro del maggior danno subito e quantificato secondo i normali criteri civilistici.
Secondo la giurisprudenza, infatti, la distinzione tra l'istituto assicurativo e le regole della responsabilità civile trova un riscontro sul piano costituzionale, posto che i due rimedi rinvengono ciascuno un referente normativo diverso: la prestazione indennitaria risponde agli obiettivi di solidarietà sociale cui ha riguardo l'art. 38 Cost., mentre il rimedio risarcitorio, a presidio dei valori della persona, si innesta sull'art. 32 Cost. L'assicurazione Inail non copre tutto il danno biologico conseguente all'infortunio o alla malattia professionale ed ammettere il carattere assorbente della prestazione indennitaria (per effetto della rimodulazione del d.lgs. n. 38 del 2000) implicherebbe una drastica riduzione del livello protettivo, sia rispetto alle po-tenzialità risarcitorie del danno biologico sia a confronto con il ristoro accordato a qualsivoglia vittima di un evento lesivo .
Come noto, dunque, il danno differenziale consiste nella differenza tra quanto versato dall’ Inail a titolo di indennizzo per infortunio sul lavoro o malattia professionale (calcolato secondo i criteri propri dell’Inail), e quanto è possibile richiedere al datore di lavoro a titolo di risarcimento del danno in sede civilistica (calcolato secondo i criteri civilistici).
Il calcolo deve avvenire per “poste omogenee” cioè sulla base delle singole componenti di danno (ad es., dal quantum a titolo di danno biologico calcolato secondo i criteri civilistici si dovrà detrarre il quantum a titolo di danno biologico calcolato secondo i criteri Inail) .
Nel caso di contagio per Covid-19 da parte del lavoratore, poiché si è detto che si do-vranno seguire i principi e le regole ordinarie, il danno differenziale potrà essere richiesto al datore solo ed esclusivamente dinnanzi ad un fatto integrante reato e ad una condotta colposa o dolosa del datore di lavoro, nei termini già indicati.

VI. Conclusioni.

Sul versante della responsabilità del datore di lavoro per l’ipotesi di contagio da Covid-19 del lavoratore, come si è visto, non sussistono distinzioni con la disciplina ordinaria in te-ma di infortuni sul lavoro e di salute e sicurezza del lavoratore, in quanto la scelta del legisla-tore è stata sostanzialmente neutra, intervenendo con un’unica previsione chiarificatrice e non innovatrice (l’art. 42, comma 2 del c.d. Decreto Cura Italia).
L’unica deroga è, infatti, estranea al tema trattato e, comunque, favorevole al datore di lavoro, in quanto evita l’incidenza dell’infortunio sulla misura del premio pagato dal singolo datore di lavoro.
Senonché, di fronte all’eccezionalità della situazione, da un lato, emerge l’idoneità del nostro sistema a tutelare il lavoratore anche in situazioni straordinarie ma, dall’altro, affiora un’inevitabile sensazione di incertezza sul concreto modo di affrontare qualcosa di sconosciu-to.
E forse il rimprovero che, sotto l’aspetto strettamente connesso agli obblighi e alle re-sponsabilità datoriali in materia di salute e sicurezza, potrebbe essere mosso al legislatore dell’emergenza, non è tanto di non aver “protetto” con norme specifiche la posizione dei da-tori di lavoro quanto quella di non averli meglio o più chiaramente indirizzati negli adempi-menti che, anche solo in esecuzione dell’art. 2087 cod. civ., questi sono tenuti a mettere in at-to.
In una situazione di incertezza generalizzata, anche con riferimento alle misure da adottare (non solo nelle imprese ma, più in generale, sul territorio dell’intera nazione) il timore di una responsabilità civile o penale per il datore di lavoro è evidente e, pertanto, una linea più chiara avrebbe potuto evitare l’insorgere di tali paure e avrebbe potuto indirizzare anche l’interprete, i Giudici, le amministrazioni (Inps, Inail, Inl), in un terreno comunque già com-plesso.
Ad ogni modo, si ritiene che sarà compito proprio di tali soggetti interpretare e appli-care le regole e i principi già esistenti nel nostro ordinamento tenendo conto dell’eccezionalità della situazione e delle incertezze che la stessa scienza dimostra di avere.
Se si muove dalla consapevolezza che questo è il tempo della “convivenza” con il virus, non si può pretendere che, invece, il luogo di lavoro sia totalmente estraneo e riparato da tale rischio perché, procedendo in questa direzione, si giungerebbe a pretendere un lavoro a ri-schio zero, ipotesi questa stigmatizzata recentemente dalla Cassazione .
Ed allora i timori e le paure devono svanire e deve intervenire la coscienza che il nostro ordinamento ha in sé tutti gli strumenti e le regole per garantire la salute e la sicurezza per i lavoratori e per punire solo coloro che hanno colpevolmente o consapevolmente violato tale obbligo.

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