TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
1. L’obbligo vaccinale, una questione antecedente alla pandemia da covid-19.
Il dibattito che è scaturito a seguito delle vaccinazioni a tutela del virus covid-19 si inserisce all’interno di un periodo storico già interessato dalle contrapposizioni sui vaccini.
Il tema delle vaccinazioni e del loro obbligo è tornato al centro dell’attenzione negli ultimi anni a seguito di un crescente dibattito mediatico sulla scia di slogan utilizzati da alcune forze politiche per contrastare, a loro dire, il ruolo delle multinazionali farmaceutiche. La comunità medica è da tempo impegnata a dimostrare l’importanza di ricorrere ad alcune tipologie di vaccinazioni, soprattutto a fini di profilassi su larga scala contro il diffondersi di epidemie dall’esito infausto per la salute della popolazione.
Il legislatore è intervenuto in materia con il decreto legge n. 73 del 2017, poi convertito con la legge 31 luglio 2017, n. 119. Con questo sono state introdotte misure urgenti per garantire la prevenzione vaccinale su tutto il territorio nazionale, al fine di contenere e ridurre i rischi per la salute della popolazione. In quel caso l’occasione è stata data dalla necessità di una copertura vaccinale per i più giovani in età scolare. Difatti, si è stabilito l’obbligo di somministrazione di dodici vaccini, come requisito per l’iscrizione alla frequenza dei corsi scolastici.
Il testo di legge obbliga i dirigenti scolastici ed i responsabili dei servizi educativi ad ottenere all’atto di iscrizione del minore in età scolare (compresa tra zero e sedici anni) la documentazione comprovante l'effettuazione delle vaccinazioni prescritte.
L’intervento del legislatore ha generato uno dibattito giuridico tra Stato e Regioni in merito alla competenza in materia di tutela della salute e dell’eventuale possibilità da parte delle Regioni di intervenire per limitare o modificare gli obblighi prescritti dallo Stato. Alcune posizioni delle Regioni sono state solleva anche a seguito dei dubbi avanzati da alcune famiglie sull’utilità dei vaccini per i propri figli.
In tale contesto si inserisce il tema delle vaccinazioni obbligatorie dove sono più evidenti le ragioni di infrazionabilità degli interessi coinvolti. Difatti alla piena potestà legislativa dello Stato di dettare norme sull'obbligo vaccinale, quale trattamento sanitario obbligatorio, non può opporsi specularmente la potestà regionale di sospendere, con propria legge, l'obbligo de quo. Altrimenti ragionando, si perverrebbe alla conclusione che l'intervento statale (e gli interessi che questo mira a tutelare) potrebbe essere, di fatto, vulnerato da posizioni locali totalmente divergenti sull'obbligo di vaccinazione. Ed è proprio in ragione di ciò che la Corte costituzionale ha fornito una lettura rigida della nozione stessa di principi fondamentali della materia, entro cui le Regioni possono stabilire la disciplina solo di dettaglio in materia di vaccinazioni obbligatorie.
2. La costituzionalità dell’obbligo vaccinale, previsto con legge dello Stato, in virtù dell’art. 32 Cost. e l’interpretazione della Corte costituzionale.
La questione dell’obbligo vaccinale attiene alla riserva di legge in materia di trattamenti sanitari obbligatori di cui all’art. 32 Cost. per cui già in Assemblea costituente si accese un serrato dibattito sul ruolo del legislatore in materia. Dagli atti dei lavori della costituente emerge che il confronto ebbe ad oggetto il rapporto tra l’obbligatorietà dei trattamenti sanitari, la tutela della collettività e la libertà del singolo.
L’interpretazione della definizione di «trattamento sanitario» ha coinvolto, altresì, la dottrina e la giurisprudenza, impegnate a collocare le tecniche mediche, in continua evoluzione, all’interno della definizione costituzionale. Si è giunti ad includere nella predetta nozione le attività finalizzate a tutelare la salute, o propedeutiche a questo scopo, e dunque di carattere diagnostico e d’indagine.
Si è inoltre sollevato da più parti l’interrogativo sulla natura della riserva di legge prevista dall’art. 32, co. 2 Cost.
Sul punto è stato osservato che «nella pratica la più rilevante differenza consiste nel fatto che, mentre il trattamento coattivo è soggetto a riserva di legge assoluta e a riserva di giurisdizione - e dunque può solo essere disposto dall’autorità giudiziaria nei casi e modi stabiliti dalla legge, ovvero convalidato da essa nei termini prescritti dalla Costituzione - viceversa il trattamento sanitario obbligatorio è soggetto alla riserva di legge, della cui natura si discute in dottrina, ma può essere fatto valere da autorità sanitarie e amministrative».
Ne consegue, pertanto, che i trattamenti sanitari coattivi sono coperti da riserva assoluta di legge (statale), mentre su quelli meramente obbligatori insiste una riserva di legge relativa, come peraltro affermato dalla Corte costituzionale, proprio con riferimento alle vaccinazioni obbligatorie. Secondo un granitico orientamento della Consulta, le vaccinazioni previste dalla legge rispondono ad un interesse della collettività e possono annoverarsi tra i trattamenti sanitari obbligatori, volti alla tutela della salute, ex art. 32 Cost.
Il trattamento sanitario è conforme all’art. 32 Cost. ove sia diretto a migliorare o preservare lo stato di salute del soggetto a cui è diretto, e che non incida negativamente sulla salute del soggetto destinatario. Le prescrizioni di legge relative alle vaccinazioni obbligatorie sono finalizzate a garantire questo risultato e dunque sono da annoverare nell’alveo dei trattamenti sanitari obbligatori.
La Corte costituzionale ha sciolto alcuni nodi problematici sollevati dal ricorso della Regione Veneto, proprio in riferimento al perimetro di estensione della potestà legislativa statale in materia di vaccinazioni obbligatorie, come titolo per accedere all’istruzione obbligatoria.
Non v’è dubbio che nella materia de qua insista un fitto intreccio di interessi al contempo statali e regionali, che rendono piuttosto arduo un intervento chirurgico in sede interpretativa.
La Corte ha ritenuto che con riferimento alla materia dei vaccini, nei diversi titoli competenziali coinvolti (“tutela della salute”, “livelli essenziali”, “profilassi internazionale”, “norme generali sull’istruzione”), sussista una prevalenza degli interessi statali su quelli regionali.
In particolare, la Corte ha specificato che in materia di profilassi sanitaria la necessità di prevenire la diffusione di malattie richiede l'adozione di misure omogenee su tutto il territorio nazionale, al fine di garantire la c.d. “immunità di gregge".
Nella materia dei vaccini obbligatori il giudice delle leggi ha chiarito che la sussistenza di numerosi titoli di competenza legislativa statale determina la «compressione necessaria» delle attribuzioni regionali, al fine di tutelare la collettività.
Ne consegue, pertanto, che in materie di competenza concorrente - quale, appunto, la tutela della salute - le Regioni possono essere vincolate «a rispettare ogni previsione contenuta nella normativa statale», financo a contenuto specifico, purché si tratti di disposizioni che si pongano in rapporto di «coessenzialità e necessaria integrazione con i principi di settore». A tale conclusione, del resto, deve giungersi per garantire un’integrazione completa tra i principi sanciti dalla legge e le diposizioni strumentali alla loro realizzazione.
Il decreto legge n. 73 del 2017 ha offerto l’occasione per riflettere, ancora una volta, sul riparto di competenze tra lo Stato e le Regioni in ambiti materiali caratterizzati dall’insistenza di plurimi interessi. La Corte ha mostrato di essere del tutto immune all’impatto emotivo, cui spesso si accompagna il dibattito sulle vaccinazioni e sui possibili effetti dannosi per la salute umana, riaffermando, di contro, il valore dell’opinione contraria e maggiormente accreditata dalla scienza medica più scrupolosa.
Sul punto la recente sentenza C. Cost. n. 37 del 2021, nel dichiarare l’incostituzionalità delle disposizioni della Regione Aosta in contrasto con le misure nazionali ha sancito in modo inequivocabile che «i piani di vaccinazione, eventualmente affidati a presidi regionali, devono svolgersi secondo i criteri nazionali che la normativa statale abbia fissato per contrastare la pandemia in corso».
3. La necessità di rispettare i criteri di ragionevolezza e proporzionalità nell’introdurre un obbligo vaccinale per i lavoratori esposti al rischio contagio.
La giurisprudenza della Corte conferma l’orientamento sulla costituzionalità delle leggi che impongono, in particolari situazioni o per determinate categorie, l’obbligo vaccinale per svolgere determinate mansioni.
Il dibattito di questi ultimi mesi sulla possibilità di introdurre un obbligo per la somministrazione del vaccino anti covid-19 si inserisce dunque in un dibattito più ampio. Inoltre, da ultimo, questo incrocia il tema del rapporto tra la tutela della salute e il diritto dei lavoratori di non dover rinunciare al posto di lavoro.
L’Inail, nel marzo 2021, ha risposto al quesito sugli infermieri che rifiutano di sottoporsi alla vaccinazione anti covid-19.
L’istituto di previdenza ha anzitutto risposto alla domanda sulla eventuale responsabilità del datore di lavoro in materia di protezione dell’ambiente di lavoro. Il quesito posto all’Istituto verte altresì sull’interrogativo se la malattia sia ammissibile alla tutela dell’Inail, nel caso in cui il personale che non abbia aderito alla profilassi vaccinale contragga il virus.
Sul tema l’Inail ritiene che, per giurisprudenza consolidata, il comportamento colposo del lavoratore non comporta, di per sé, l'esclusione dell'operatività della tutela prevista dall'assicurazione gestita dall’ente di previdenza. Diversamente, secondo quanto sostenuto nella nota «il comportamento colposo del lavoratore può invece ridurre oppure escludere la responsabilità del datore di lavoro, facendo venir meno il diritto dell’infortunato al risarcimento del danno nei suoi confronti, così come il diritto dell’Inail ad esercitare il regresso nei confronti sempre del datore di lavoro, ma non comporta l’esclusione della tutela assicurativa apprestata dall’Istituto in caso di infortunio».
Con riferimento all’obbligo di sottoporsi alla vaccinazione per il personale sanitario, alla data di redazione della citata nota non era presente nessun intervento legislativo nella direzione di un obbligo in tal senso. Per questo motivo la nota si riferisce ad un provvedimento legislativo in materia che prescrive la possibilità del datore di lavoro di offrire la somministrazione del vaccino, ma non quello di imporre un obbligo. Il riferimento è al decreto legislativo 9 aprile 2008, n. 81 che all’articolo 279 rubricato «Prevenzione e controllo», stabilisce che «il datore di lavoro, su conforme parere del medico competente, adotta misure protettive particolari (...)” tra cui “a) la messa a disposizione di vaccini efficaci per quei lavoratori che non sono già immuni all’agente biologico presente nella lavorazione, da somministrare a cura del medico competente».
Più di recente è stato approvato il decreto legge 1 aprile 2021, n. 44 in materia di disposizioni urgenti in materia di prevenzione del contagio da SARS-CoV-2 mediante previsione di obblighi vaccinali per gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario.
L’Art. 4 del citato decreto prevede che, in considerazione della situazione di emergenza epidemiologica e fino alla completa attuazione del piano vaccinale ma comunque non oltre il 31 dicembre 2021, l’esercizio delle professioni sanitarie è subordinato al requisito della vaccinazione.
L’obbligo è previsto per gli esercenti le professioni sanitarie e gli operatori di interesse sanitario che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, parafarmacie e negli studi professionali.
La decisione è assunta sulla base della necessità di tutelare la salute e di mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell'erogazione delle prestazioni di cura e assistenza. Secondo il testo di legge sottoporsi alla vaccinazione rappresenta, dunque, un requisito essenziale per l'esercizio della professione. L’obbligatorietà è esclusa nella sola condizione di un accertato pericolo per la salute in relazione a specifiche condizioni cliniche documentate.
Il decreto poi contempla espressamente la possibilità in cui il lavoratore non voglia sottoporsi alla vaccinazione. In questa ipotesi il datore di lavoro deve adibire il lavoratore, ove possibile, a mansioni, anche inferiori attribuendogli il trattamento corrispondente alle mansioni esercitate, e che, comunque, non implicano rischi di diffusione del contagio.
Quando l'assegnazione a mansioni diverse non è possibile si applica un regime di sospensione dall’attività lavorativa con conseguente sospensione della retribuzione, altro compenso o emolumento, comunque denominato. Il limite a tale sospensione è condizionato o all'assolvimento dell'obbligo vaccinale o, in mancanza, fino al completamento del piano vaccinale nazionale e comunque non oltre il 31 dicembre 2021.
Il decreto legge contiene delle previsioni che offrono all’interprete una chiave di lettura in più sul rapporto tra obbligo vaccinale e attività lavorativa rispetto al dibattito fino ad oggi presente.
Il Governo è intervenuto per disciplinare il rapporto tra mancata vaccinazione e possibilità di esercizio dell’attività lavorativa. La scelta è stata quella di regolare le conseguenze della mancata vaccinazione del personale sanitario; da ciò la conseguenza che non c’è un obbligo, previsto con legge, per altre categorie di lavoratori di sottoporsi al vaccino a tutela del covid-19.
Il legislatore ha ritenuto di disciplinare il rapporto tra il personale sanitario e il datore di lavoro in mancanza di adesione alla campagna di vaccinazione per la pandemia in corso, ma limitando nel tempo e nella tipologia le conseguenze sulla scelta di una mancata vaccinazione da parte del lavoratore.
Secondo il citato articolo, nel caso di mancata somministrazione del vaccino, il personale sanitario deve essere adibito ad una funzione diversa da quella solitamente svolta e dunque fonte di un possibile rischio epidemiologico. Inoltre, questo ricollocamento del lavoratore può dispiegare i suoi effetti in un tempo limitato, in quanto si è sancito che la conseguenza della mancata adesione al vaccino non può produrre i suoi effetti oltre la fine del 2020. Il legislatore non ha previsto l’interruzione del rapporto di lavoro, offrendo la concreta alternativa e la soluzione per il datore di lavoro dinanzi al lavoratore che decide di non vaccinarsi.
Di conseguenza, fermo restando la legittimità costituzionale di una previsione legislativa che introduca l’obbligo per legge di sottoporsi al vaccino da Covid-19, permane la necessità di riaffermare come questo obbligo debba sempre essere proporzionato alla situazione epidemiologica, alla reale necessità per la sicurezza del lavoratore e del luogo di lavoro.
La costituzionalità della previsione legislativa, così come di altre dello stesso tenore che dovessero essere approvate in futuro, risiede nella lettera dell’art. 32 della Costituzione. Al di là del testo costituzionale, per cui con disposizione di legge può essere previsto un trattamento sanitario, l’obbligo in capo allo Stato di prevedere l’obbligo di vaccinazione, ove necessario, deriva dal dovere di tutela della salute come interesse della collettività.
Se dalla scelta individuale e immotivata del lavoratore ne deriva un rischio per la salute collettiva è dovere della Repubblica intervenire per la tutela di chi è in maggiore pericolo. Il limite a questo obbligo e dunque alla possibilità di introdurre con legge delle conseguenze per chi non aderisce alla campagna vaccinale, risiede nella proporzionalità e nella ragionevolezza delle conseguenze.
Non può essere ritenuta irragionevole la necessità di destinare il personale sanitario ad altre mansioni se questo decide di non sottoporsi a vaccinazione, così come la più grave conseguenza della sospensione momentanea degli emolumenti.
Diversamente non si ritiene proporzionata l’eventuale ipotesi del licenziamento e dunque della fine del rapporto di lavoro. Questa, molto più grave conseguenza, andrebbe a incidere sulla sfera di libertà di scelta della persona. La necessità di mantenere il posto di lavoro diventerebbe un contrappeso asimmetrico nelle mani del datore di lavoro. Il lavoratore si troverebbe dinanzi all’opzione di accettare di farsi inoculare il vaccino o di perdere il proprio lavoro. Questa scelta andrebbe ad incidere in modo definitivo su una sfera importante della vita, qual è il posto di lavoro, e dunque indurrebbe il lavoratore ad una decisione per motivi di stretta necessità.
Dunque, la costituzionalità di una previsione normativa in tal senso risiede nella proporzionalità e nella ragionevolezza della conseguenza derivante dalla decisione assunta.
Infine, non appare superfluo considerare che la premessa risiede nella certezza scientifica della sicurezza del vaccino. In altri termini, ci si sta riferendo ad un numero assai limitato di persone, in quanto, prendendo le mosse proprio dalla considerazione per cui lo strumento è scientificamente sicuro, come certificato dalle Istituzioni competenti, la stragrande maggioranza degli aventi diritto desidera tutelare la propria salute dalle gravi conseguenze della malattia.
La necessità, pertanto, di regolare pochi e sporadici casi non deve essere l’occasione per misure draconiane che risulterebbero in contrasto con gli articoli 2, 32, 35 Costituzione per i motivi sopra richiamati.