Testo integrale con note e bibliografia
L’ordinamento giuridico italiano affida la tutela della salute e della personalità morale del lavoratore all’art. 2087 c.c., norma che preesiste alla Costituzione e che dispone, come è noto quanto segue: “L'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro”.
Il precetto realizza la definitiva cesura con l’inquadramento dell’istituto del contratto di lavoro nella locazione di opere che perdurava dal diritto romano, attribuendo al datore di lavoro un preciso obbligo di garanzia dei diritti fondamentali del lavoratore in quanto parte contraente e in quanto persona.
L’art. 2087 c.c. è una norma che la dottrina, a partire da Smuraglia, definisce “bifronte”, tale da determinare al contempo responsabilità contrattuale e extracontrattuale del datore di lavoro nel caso di violazione di tale obbligo.
Rilevava Giugni che l’obbligo di sicurezza che grava sul datore di lavoro costituisce anch’esso corrispettivo della prestazione di lavoro.
Preciserà poi la Scuola barese e Ghera trai più illustri, che nel contratto di lavoro non si rintracciano solo prestazioni immediatamente definibili come corrispettive, rinvenendosi, come è noto, ipotesi di sospensione protetta della prestazione, quali la malattia, l’infortunio, la gravidanza , il puerperio, il servizio militare ed ulteriori obblighi quali quello di fedeltà, di riservatezza, di non concorrenza: l’equilibrio delle prestazioni, sicchè, riemerge nel programma negoziale.
Il lavoratore trasferisce nel contratto i suoi diritti fondamentali in quanto persona e non solo l’obbligo della prestazione di lavoro, viceversa il datore di lavoro non assume solo l’obbligo di pagare la prestazione, ma anche quello di tutelare il benessere psicofisico e la personalità morale del lavoratore.
Tale obbligo si ascrive al sinallagma genetico del contratto piuttosto che al sinallagma funzionale.
Pare quindi che i precetti di cui all’art. 2087 c.c siano declinati negli artt. 2 e 36 della Costituzione quanto alla tutela della personalità morale, e negli artt. 32 e 41 quanto alla tutela della integrità psicofisica.
I costituenti hanno poi avvertito la necessità di rimarcare nell’art. 41 che l’interesse alla produzione, recte, alla iniziativa economica privata, “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana”, ascrivendo, peraltro, a diritti fondamentali del cittadino quello al lavoro (art. 4) e, come detto, quello alla salute(art. 32).
Del resto, la tesi della scriminante della “fattibilità economica” dei costi connessi alle cautele per tutelare la salute, è stata sempre contrastata dalla giurisprudenza, in considerazione del limite “…ultimo assoluto e indefettibile rappresentato dalla tollerabilità per la tutela della salute umana e dell'ambiente in cui l'uomo vive: tutela affidata al principio fondamentale di cui all'art. 32 della Costituzione, cui lo stesso art. 41, secondo comma, si richiama.” (Corte Cost. 16 marzo 1990, n. 127).
Il risvolto penal-pubblicistico dell’art 2087 c.c. è riferibile innanzitutto alla connotazione della colpa nei reati di lesioni od omicidio sul lavoro, essendo qualificata essa quale “norma di chiusura” che consente di comprendere tutte le condotte negligenti od imperite del datore di lavoro, secondo criteri di “fattibilità tecnica” delle cautele per ipotesi omesse, come precisato dalla Corte Costituzionale nella sentenza sopra citata.
Una particolare ed importante declinazione dell’art. 2087 c.c. e dei principi fondamentali nella norma penale è poi costituito dalla cd. Legge anticaporalato tradotta nell’art. 603 bis c.p..
Le preoccupazioni di una certa dottrina che ravvisava il pericolo del proliferare delle processi e delle ipotesi di punibilità del datore di lavoro per assunta indeterminatezza della norma in esame sono state efficacemente contrastate in una brillante nota di Francesco Stolfa sulla Rivista della Sicurezza del Lavoro n. 1 del 2017.
L’autore, infatti, rilevava tre meccanismi di selezione della fattispecie criminosa che ne delimitano l’ambito di applicabilità.
La prima è che la sanzione persegue un reato di natura dolosa; la seconda è quella del presupposto dell’approfittamento dello stato di bisogno e della condizione di sfruttamento del lavoratore, ambito che circoscrive per l’appunto alla lesione della sua personalità morale e dei suoi diritti fondamentali di rilevanza costituzionale, individuandosi nell’art. 603 bis c.p. quali indici di sfruttamento la reiterazione (in questo la terza selezione) di tali condotte quanto agli aspetti relativi alla retribuzione ed agli istituti contrattuali, ed alla violazione (anche non reiterata) delle norme di sicurezza ed igiene del lavoro od alle condizioni di lavoro, comprese “situazioni alloggiative degradanti”, il chè richiama ancora l’art. 2087 c.c quanto alla tutela della personalità morale del lavoratore.
Il diritto di lavorare in condizioni di sicurezza e salubrità, nell’ ottica di bilanciamento dei diritti fondamentali, offre particolari profili di analisi laddove la prestazione dedotta in contratto non possa più essere resa in termini di totale efficienza da parte del lavoratore divenuto “inidoneo” o “idoneo con prescrizioni” .
In particolare, il diritto dell’imprenditore di liberamente intraprendere la sua attività e di ricavarne profitto, nonché di ricevere l’esatto adempimento della prestazione di lavoro, evidentemente si contrappone al diritto del disabile di rendere una prestazione adeguata al suo status ed ai principi solidaristici.
La prosecuzione della attività di impresa, invero, se non eseguita con assoluta buona fede, lascerà, nella fattispecie che ci apprestiamo ad illustrare, la possibilità al datore di lavoro di misurare il rendimento in termini oggettivi, il chè non è come può apparire, del tutto legittimo.
E’ bene chiarire, innanzitutto, che la misura della diligenza è diversa laddove si qualifichi la prestazione dedotta in contratto come obbligazione di mezzi o obbligazione di risultato, laddove certamente non può essere definita obbligazione di risultato quella oggetto del contratto di lavoro subordinato.
Pertanto, da un lato, la verifica dell’adempimento della prestazione di lavoro non può prescindere dal preliminare accertamento dell’obbligo, ex latere creditoris, di favorirne l’adempimento; per converso, dall’accertamento della misura della diligenza in concreto esigibile in rapporto alle condizioni soggettive del lavoratore.
Vi è poi da considerare un altro profilo di contrapposizione degli interessi: incombe sul datore di lavoro l’obbligo di preservare la salute del disabile e a ciò corrisponde il diritto di questi di non patire un peggioramento delle sue condizioni di salute nell’espletamento della prestazione di lavoro.
La Corte Costituzionale con la sentenza n. 85 del 2013, in riferimento alla vicenda del sequestro penale dello stabilimento siderurgico di Taranto a cagione della accertata nocivita’ delle emissioni ed alla normativa che, in buona sostanza, ne vanificava gli effetti autorizzando la prosecuzione delle attività, ha affermato che “..tutti i diritti fondamentali tutelati dalla Costituzione si trovano in rapporto di integrazione reciproca e non è possibile pertanto individuare uno di essi che abbia la prevalenza assoluta sugli altri. La tutela deve essere sempre «sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro» (sentenza n. 264 del 2012). Se così non fosse, si verificherebbe l'illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe "tiranno" nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette, che costituiscono, nel loro insieme, espressione della dignità della persona”.
Il d.l 207/2012 è stato considerato legittimo in considerazione del percorso di risanamento ambientale che, sia pure nell’arco di 36 mesi, espressamente contemplava.
La più recente sentenza della Corte Costituzionale N. 58 del 7/2/2018, dep. il 23/3/2018, chiamata, in particolare, ad occuparsi di uno dei successivi decreti “salva Ilva”, ha precisato gli ambiti della prima decisione, verificando la insussistenza nel decreto in esame, n. 92/2015, dell’effettivo bilanciamento degli interessi alla salute ed al lavoro.
Il Giudice delle Leggi ha così ribadito che il legislatore ha facoltà “di intervenire per salvaguardare la continuità produttiva in settori strategici per l’economia nazionale e per garantire i correlati livelli di occupazione, prevedendo che sequestri preventivi disposti dall’autorità giudiziaria nel corso di processi penali non impediscano la prosecuzione dell’attività d’impresa”, ; ma che ciò “può farsi solo attraverso un ragionevole ed equilibrato bilanciamento dei valori costituzionali in gioco”: Nel caso in esame, ha affermato la Corte, che contrariamente alla fattispecie considerata nel 2013, il legislatore non sia intervenuto con un ragionevole bilanciamento degli interessi contrapposti, così “incorrendo in un vizio di illegittimità costituzionale per non aver tenuto in adeguata considerazione le esigenze di tutela della salute, sicurezza e incolumità dei lavoratori, a fronte di situazioni che espongono questi ultimi a rischio della stessa vita.”.
Nel decreto censurato, infatti, che sanciva il diritto dell’azienda di continuare l’esercizio di un altoforno il cui malfunzionamento aveva determinato la morte di un lavoratore, la prosecuzione dell’attività d’impresa era sostanzialmente rimessa alla adozione di un piano di interventi che non contemplava alcuna forma di partecipazione di altri soggetti pubblici o privati, e mancava, inoltre, la prescrizione di misure immediate atte a rimuovere la situazione di pericolo.
Osserva pertanto la Corte Costituzionale che “ appare chiaro che, a differenza di quanto avvenuto nel 2012, il legislatore ha finito col privilegiare in modo eccessivo l’interesse alla prosecuzione dell’attività produttiva, trascurando del tutto le esigenze di diritti costituzionali inviolabili legati alla tutela della salute e della vita stessa (artt. 2 e 32 Cost.), cui deve ritenersi inscindibilmente connesso il diritto al lavoro in ambiente sicuro e non pericoloso (art. 4 e 35 Cost.)”.
Anche la giurisprudenza di legittimità ha valutato la possibilità di proporre una lettura costituzionalmente orientata della disciplina del rapporto trai contrapposti interessi che rilevano nella fattispecie che ci occupa.
La decisione più importante e condivisibile è ancora la nota sentenza n. 7755 del 7/8/98, con la quale le Sezioni Unite della Corte di cassazione hanno risolto un contrasto interpretativo in merito alla possibilità di licenziare un lavoratore diventato inidoneo, per motivi di salute, allo svolgimento della sua mansione.
Il lavoratore inidoneo ha dunque diritto di essere adibito innanzitutto a mansioni equivalenti o, in mancanza, inferiori.
Rilevano, infatti Le Sezioni Unite che: “nel rapporto di lavoro subordinato la tutela dell’interesse del lavoratore all’adempimento trova il suo fondamento nei richiamati artt. 4 e 36 della Costituzione e serve quale criterio di interpretazione e di determinazione secondo buona fede degli effetti del contratto, il quale dà luogo non solo ad un rapporto di scambio ma inserisce il prestatore nella comunità d’impresa e destina la sua prestazione all’organizzazione produttiva. Ne discende che l’evento impeditivo, quale la sopravvenuta inidoneità ad una certa attività, deve essere valutato, quanto alle sue conseguenze, in relazione agli obblighi di cooperazione dell’imprenditore-creditore, così tenuto non soltanto a predisporre gli strumenti necessari all’esecuzione del lavoro ma anche ad utilizzare appieno le capacità lavorative del dipendente nei limiti dell’oggetto del contratto, ossia nei già detti limiti posti dall’art. 2103 del codice civile.”.
Il diritto del lavoratore inidoneo ad essere adibito a differenti mansioni a fini di salvaguardia del suo interesse all’occupazione trova l’unico limite, a parere delle Sezioni Unite, nella inesigibilità nei confronti del datore di lavoro di “aggravi organizzativi ed in particolare il trasferimento di singoli colleghi dell’invalido”.
Il più recente orientamento giurisprudenziale in tema di licenziamento del lavoratore divenuto inidoneo alla mansione (da ultimo la recentissima Cass., sez. lav., 23.02.2021, n. 4896; ma anche: Cass. sez. lav., 12.11.2019, n. 29289; Cass., sez. lav., 21.05.2019, n. 13649, Cass., sez. lav., 19.03.2018, n. 6798), amplia la nozione di disabilità armonizzando la disciplina con la normativa comunitaria.
Il datore di lavoro, dunque, è obbligato ad adottare tutti gli “accomodamenti ragionevoli” previsti dalla normativa comunitaria.
Per tale ragione, si discute in giurisprudenza, con sentenze talvolta contrastanti, sulla natura e l’entità di tali “accomodamenti ragionevoli”.
Il limite dei comportamenti esigibili è dato dalla proporzione tra la modifica organizzativa ed il relativo onere finanziario.
La recente disposizione normativa di cui all’art. 1, comma 166, della legge 23.12.2014, n. 190 (legge di stabilità 2015), ha significativamente eroso, però, i margini di giustificazione dell’impossibilità di modificazione degli assetti organizzativi dell’impresa, a tutela del disabile, per ragioni di natura squisitamente economica, giacché la norma prevede la possibilità per i datori di lavoro di attingere alle risorse dell’Inail per l’adozione di misure e di interventi organizzativi atti a favorire l’utilizzazione della prestazione del lavoratore divenuto inabile per causa di lavoro.
Del resto, già l’art. 5 della direttiva 2000/78/CE prevedeva, in favore dei lavoratori disabili anche per patologie preesistenti o non professionali, che «al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli nei luoghi di lavoro, come indicati dalla convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori».
Il D.L. 28.6.2013, n. 76, convertito dalla legge 9.8.2013, n. 99, ha aggiunto il comma 3-bis all’articolo 3 del D.Lgs. 9.7.2003, n. 216, di attuazione della richiamata direttiva.
Pertanto, «al fine di garantire il rispetto del principio della parità di trattamento delle persone con disabilità, i datori di lavoro pubblici e privati sono tenuti ad adottare accomodamenti ragionevoli nei luoghi di lavoro, come indicati dalla convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, ratificata ai sensi della legge 3 marzo 2009, n. 18, per garantire alle persone con disabilità la piena eguaglianza con gli altri lavoratori».
Il lavoratore divenuto inidoneo ha quindi diritto di offrire la sua prestazione in un modo diverso e chiedere che il datore di lavoro intervenga per mutare la sua organizzazione?
L’impresa è – secondo una certa dottrina – una comunità intermedia tra lo Stato ed il cittadino, dove si svolge la personalità del cittadino ai sensi dell’art.2 della Costituzione, dove il diritto al lavoro fondato nell’art.4 si traduce anche nel doveroso rispetto dei principi di solidarietà a cui è improntata la nostra Costituzione.
La nostra Costituzione consiste non solo nella affermazione del principio stabilito dall’art.3, quindi il dovere per lo Stato di intervenire per rimuovere le situazioni di disuguaglianza, ma anche nel fortissimo principio stabilito nell’art. 4, che realizza la esplicazione di un diritto fondamentale dell’uomo in un contratto, nel contratto di lavoro e nei rapporti tra privati.
Non è sufficiente, dunque, come pure prescrive l’art 38 Cost, l’approntamento di un sistema di ammortizzatori sociali che garantisca il cittadino divenuto “inidoneo” dalla perdita del posto di lavoro: gli obblighi di tutela discendenti dall’art. 2087 c.c. e dagli artt. 2 e 4 Cost impongono innanzitutto al datore di lavoro di assolvere agli oneri solidaristici, segnatamente nell’ottica del bilanciamento dei diritti fondamentali sancito dalla Corte Costituzionale con le sentenze che abbiamo citato in apertura della nostra relazione.
Un ulteriore profilo di sinergia trai principi fondamentali espressi dalla Carta Costituzionale e la tutela della salute del lavoratore è stato meno indagato dalla dottrina.
Mi riferisco ai valori espressi dall’art. 111 della Costituzione, laddove prescrive, come è noto, il diritto al “giusto processo” e in particolare che “ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità davanti a giudice terzo ed imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata”.
Ebbi modo di ascoltare un intervento sul tema di Beniamino Deidda, il quale notava, innanzitutto, che il giudice, per essere imparziale, non deve essere equidistante, perché normalmente, la parte debole del processo, ossia il lavoratore, ha meno mezzi per difendersi rispetto a quelli che può utilizzare il datore di lavoro.
Il principio, del resto, era già noto nel brocardo del “favor lavoratoris” e, sebbene possa essere da qualcuno ritenuto ormai desueto, sembra trasparire ancora nelle ultime pronunce della Corte Costituzionale, ad esempio, con la sentenza n. 77 del 19/4/2018 in tema di regolamentazione delle spese processuali.
La giurisprudenza di merito, tuttavia, nella materia civile e giuslavoristica appare sempre molto rigorosa nella adozione dei motivi di compensazione delle spese.
Né, del resto, appare ispirarsi al principio di “ragionevole durata del processo” nelle decisioni in materia di competenza e giurisdizione sulle controversie concernenti la tutela della salute del lavoratore.
Ad esempio nel riparto di tutela processuale tra le domande risarcitorie proposte iure hereditario e quelle proposte iure proprio dagli eredi di un lavoratore deceduto, riservando, nonostante gli evidenti profili di connessione, ragioni di economia processuale e nonostante l’evidente pericolo di contrasto di giudicati, al giudice del lavoro la cognizione delle domande iure hereditario e al giudice civile le domande iure proprio.
Ciò determina spesso una duplicazione della fase istruttoria, per cui sarebbe auspicabile un intervento anche legislativo sulla materia, poiché detta ripartizione indubbiamente costituisce intralcio processuale alla tutela.
Sebbene, poi, risulti di difficile codifica un canone di accertamento delle serie casuali che conducono alla lesione od alla morte di un lavoratore, il favor lavoratoris dovrebbe ispirare la generalizzazione del principio “in dubio pro misero”, perlomeno nell’ambito previdenziale e lavoristico e così stabilire che, qualora nella verifica delle serie casuali l’unica provata sia quella riconducibile all’ambiente di lavoro, l’ipotetica ascrivibilità della patologia a cause extralavorative indimostrate nella fattispecie concreta non sia giuridicamente rilevante al fine di escludere il nesso di casualità neanche nelle ipotesi di eziologia professionale “possibile” o meramente “probabile”.
Un particolare aspetto di confronto trai principi fondamentali della Carta e la tutela della salute anche del lavoratore è quello della integrale riparazione del danno che consegue alla sua lesione, principio questo che, secondo taluni, non riceve sempre copertura di rango costituzionale, ma che, nella lettura della Consulta si ritiene essere inderogabile quando il danno sia riferito a lesioni di diritti fondamentali della persona, quali sono il diritto alla salute e soprattutto alla vita.
In proposito non può che essere rilevata la assoluta inadeguatezza dei parametri del risarcimento del danno tanatologico o catastrofale, che spesso pervengono a risibili quantificazioni nelle ipotesi nella quali il decesso sopravvenga a breve durata dalla insorgenza delle stesse lesioni o della patologia.
Il bene vita e la sua distruzione è paradossalmente valutato nella prassi giurisprudenziale, sotto il profilo della riparazione, di gran lunga inferiore rispetto alla lesione della salute, di talchè, il lavoratore, se sopravvive, percepisce un risarcimento molto più alto di quello che spetterebbe ai suoi eredi.
Il principio di “integrale riparazione del danno”, dunque, non sembra rispettato in questa prassi applicativa ed anche in subiecta materia sarebbe auspicabile un intervento.
Sebbene, poi, il sistema indennitario previdenziale sfugga al diritto di “integrale riparazione”, vi è che le stesse tabelle di individuazione dei postumi cui commisurare la prestazione di danno biologico ex d.l 38/2000 non appaiono adeguate soprattutto nella valutazione dei tumori professionali patiti dal lavoratore.
Allorchè la neoplasia si giovi di trattamento chirurgico radicale, ad esempio, con prognosi quoad vitam favorevole, i postumi previsti in tabella sono “fino al 10%”, ossia meno di quelli ascrivibili alle ernie discali pluridistrettuali.
Il tema, diverso ed insidioso, del rapporto trai principi fondamentali della Costituzione e la tutela penale della salute del lavoratore è stato di recente affrontato da Beniamino Deidda su “Questione Giustizia” n. 4 del 2019.
Afferma Deidda che “le sorti della tutela penale del lavoratore sono strettamente legate alle vicende della prevenzione nei luoghi di lavoro” e, dolorosamente, che la tutela penale della salute del lavoratore non è mai stata considerata né dal legislatore né dagli stessi uffici giudiziari come un obiettivo prioritario: ci sono pochissime procure specializzate nei reati penali di lavoro, statisticamente i processi penali per malattie professionali anche mortali non sono più del 10% di quelle riscontrabili nei dati Inail e la maggiorparte dei processi perviene ad assoluzioni per insufficienza probatoria o per prescrizione.
Allora, forse, la strada da percorrere è anche un’altra.
Osserva Deidda, in termini del tutto condivisibili che, nel nostro ordinamento è contemplata la formazione di tutti i soggetti coinvolti nella tutela della salute del lavoratore tranne quella del datore di lavoro, che pure è considerato “professionista” ai sensi dell’art. 2082 c.c.
In Italia chiunque può intraprendere, e questa facoltà è protetta costituzionalmente dall’art. 41 cost., ma il secondo comma della stessa norma fondamentale, che impone all’imprenditore di non arrecare danno alla sicurezza, alla libertà ed alla dignità umana, giustificherebbe una più rigorosa selezione e formazione di chi intende avviare una impresa e così proteggere i lavoratori dagli infortuni e dalle malattie spesso provocate dalla negligenza di chi li assume.