Testo integrale con note e bibliografia
1. Premesse sull’importanza della ricerca giuridica
Dal 2005 la Notte europea dei ricercatori è il suggestivo appuntamento per avvicinare il grande pubblico alle tematiche scientifiche e al loro impatto nella vita quotidiana, attraverso la presentazione dei risultati e dei metodi della ricerca e la condivisione della fatica e della passione per quell’attività di studio e approfondimento che abbraccia qualsiasi ambito: medico, tecnologico, storico, sociale, economico, giuridico...
Ricorrendo all’etimologia, è affascinante scoprire che il sostantivo “ricerca” deriva dal verbo latino tardo “circare” – che significa letteralmente “circoscrivere, delimitare con un cerchio” – a cui si aggiunge il prefisso rafforzativo “ri”, che indica l’intensità, l’insistenza e la perseveranza.
Il ricercatore, quindi, è colui che non si ferma e non si accontenta: sceglie un settore in cui convogliare curiosità ed impegno e con la sua determinazione e costanza cerca di apportare il proprio contributo all’ampliamento della scientia, cioè della conoscenza.
Non è un’attività di studio fine a se stessa, egoistica, arroccata in una turris eburnea destinata a pochi eletti, ma è finalizzata all’arricchimento del sapere di tutti, al miglioramento – qualunque sia il settore scientifico di riferimento – della vita, della salute, dell’economia…
Per poter conseguire tale scopo la ricerca deve essere condivisa, divulgata, sia in forma scritta che orale, soprattutto attraverso l’insegnamento, che ne rappresenta l’alfa e l’omega: non può esserci trasmissione del sapere senza la preliminare attività di studio, ma, al tempo stesso, è proprio il contatto con il discente a stimolare un ulteriore approfondimento, alimentando un vero e proprio circolo virtuoso.
Se è vero che il ricercatore tenta di trovare delle risposte, per poterlo fare deve porsi sempre nuove domande. In fondo, “in milioni hanno visto cadere una mela, ma Newton è stato l’unico a chiedersi perché” . E, a proposito di interrogativi, è opportuno fugare ogni dubbio sull’utilità della ricerca in campo giuridico, che potrebbe apparire decisamente meno rilevante e urgente di altri settori scientifici. Ciò accade perché il diritto talvolta appare come qualcosa di astratto e incomprensibile, che non “tocca” la vita quotidiana ed è generalmente appannaggio di addetti ai lavori che sfoggiano il loro “latinorum” di manzoniana memoria per confondere l’interlocutore.
Eppure, non è così: ogni aspetto del nostro vivere insieme in società si basa su delle regole finalizzate alla pacifica convivenza, per evitare che lo stare insieme si traduca in caos, violenza e sopruso.
La convinzione della necessità del diritto – come insieme di norme – affonda le sue radici in epoca romanistica e potrebbe efficacemente tradursi nel sillogismo “Ubi homo, ibi societas. Ubi societas, ibi ius. Ergo ubi homo, ibi ius” .
Le norme, però, non sono cristallizzate nel tempo, “respirano” la realtà che ci circonda, dialogano tra di loro ed evolvono per adattarsi concretamente al progresso e allo sviluppo della tecnica e dei costumi . In questa prospettiva la ricerca giuridica è indispensabile per far sì che l’ordinamento sia, al contempo, fedele ai principi fondamentali – a partire dalla Costituzione italiana, ma senza tralasciare la dimensione internazionale e sovranazionale derivante dall’appartenenza all’ONU e all’Unione Europea – e rispondente alle nuove istanze, in un continuo e necessario bilanciamento tra valori da tutelare e nell’individuazione delle soluzioni di volta in volta più efficaci.
Se non ci fosse ricerca giuridica si incorrerebbe nel rischio di impantanarsi in scelte politiche – e, di conseguenza, leggi – completamente inadeguate, perché carenti del sostegno di una seria analisi svolta secondo il diritto, nonché in una giurisprudenza che “naviga a vista” in mancanza di direzioni chiare.
A dispetto di quanto si possa immaginare, è un’attività dinamica e per nulla noiosa o polverosa, perchè “la ricerca scientifica” – in qualunque campo – benché quasi costantemente guidata dal ragionamento, è pur sempre un’avventura” .
2. Il diritto del lavoro nell’emergenza sanitaria
La rilevanza della ricerca giuridica è ancora più evidente in una materia di grande attualità come il Diritto del lavoro e lo dimostra non solo la Carta costituzionale, che nell’art. 1 afferma che “l’Italia è […] fondata sul lavoro”, ma anche, per restare ancorati al presente, l’interminabile e convulso elenco di provvedimenti normativi dedicati al lavoro proprio in questo periodo segnato dall’emergenza sanitaria da Covid-19 .
Perché attribuire tale rilievo alla dimensione del lavoro? Probabilmente perché è un’esperienza umana che coinvolge pressoché tutti, in quanto lavoriamo o abbiamo lavorato o abbiamo intenzione di lavorare . Il lavoro non è soltanto è il mezzo di sussistenza per mantenerci dignitosamente , ma è anche lo strumento per esprimere appieno la nostra personalità, le capacità e le competenze acquisite con lo studio e la pratica . Ed è anche la principale modalità in cui offrire il nostro contributo al progresso materiale o spirituale della società .
Alla luce di tali premesse risulta evidente che l’impatto del Covid-19 sul mondo del lavoro sia stato devastante. L’Italia è stato il primo Paese occidentale a dover fare i conti con una pandemia mondiale e la rapida e quasi drammatica successione di provvedimenti normativi è il più chiaro esempio della complessità di gestire una situazione emergenziale di tale portata .
Dal punto di vista giuslavoristico, due sono le principali esigenze che emergono e chiedono di apprestare un’adeguata tutela: da un lato, la necessità di evitare che lo svolgimento della prestazione lavorativa diventi un veicolo di trasmissione del contagio tra lavoratori e con l’utenza (clienti, fornitori, cittadini…) ; dall’altro, garantire la continuità delle attività lavorative per non paralizzare il Paese e la sua economia.
Si tratta, in entrambi i casi, di esigenze legittime. Anzi, di beni giuridici tutelati costituzionalmente: da una parte il diritto alla salute (art. 32 Cost.), inteso sia come fondamentale diritto dell’individuo che come interesse della collettività; dall’altra, il diritto al lavoro e alla retribuzione (artt. 4 e 36 Cost.), la libertà di iniziativa economica privata (art. 41 Cost.), il buon andamento delle pubbliche amministrazioni (art. 97, comma 2, Cost.)…
Si tratta, però, di esigenze contrapposte: se volessimo evitare qualunque occasione di contagio nei luoghi di lavoro, sarebbe teoricamente necessario abbassare le saracinesche e interrompere ogni attività. Però, si tratterebbe di una soluzione irrealizzabile. Innanzitutto, ci sono servizi essenziali che non possono essere in alcun modo bloccati, in primis l’attività sanitaria , ma anche la cessazione delle altre occupazioni creerebbe non pochi problemi. Infatti, all’impossibilità sopravvenuta di svolgimento della prestazione corrisponderebbe – a rigore – la mancata corresponsione della retribuzione al lavoratore, a cui si aggiunge il mancato profitto per l’imprenditore, dando luogo a serie situazioni di difficoltà economica e, di conseguenza, disordini sociali . Oppure, in un’ottica solidaristica di stampo previdenziale, tali costi dovrebbero essere imputati alle casse dello Stato , soluzione non sostenibile in una prospettiva a medio-lungo termine.
È, quindi, necessario trovare un bilanciamento tra l’esigenza di tutela della salute nei luoghi di lavoro e l’esigenza di garantire la continuità delle attività e dei servizi, attraverso il ricorso a misure di protezione che consentano di svolgere la prestazione lavorativa nel maggior grado di sicurezza possibile, visto che la completa eliminazione del rischio è inattuabile .
Anche la fitta trama delle misure di sicurezza previste dal d.lgs. 9 aprile 2008, n. 81 ha manifestato la sua insufficienza nel salvaguardare adeguatamente i lavoratori dall’esposizione ad un virus così contagioso e subdolo. Pertanto, di pari passo con l’avanzamento delle conoscenze medico-scientifiche in materia e con lo sviluppo della tecnica, sono stati gradualmente introdotti strumenti sempre più mirati ed efficaci , spesso frutto della concertazione tra Governo e parti sociali .
La prima misura che ha consentito di contemperare il necessario distanziamento sociale e il decongestionamento del trasporto pubblico con l’esigenza di continuità delle attività e dei servizi è stata il ricorso al lavoro agile , come attestano i numerosi provvedimenti normativi che hanno imposto tale modalità nel lavoro pubblico e fortemente raccomandato nel lavoro privato .
Un altro intervento a tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro ha riguardato l’utilizzo di dispositivi di protezione individuale ad hoc, quali le mascherine, il gel igienizzante, il distanziamento delle postazioni, gli schermi in plexiglass, la frequente sanificazione degli ambienti, ai quali si sono via via aggiunti congegni tecnologici come, ad esempio, il thermoscanner per misurare la temperatura corporea e gli eventuali sensori indossabili, la c.d. wearable technology .
3. Il pomo della discordia: obbligo vaccinale…
Prendendo in esame le misure più recenti e attualmente oggetto di dibattiti e proteste – cioè, vaccino anti-Covid e c.d. green pass per i lavoratori – è opportuno interrogarsi sull’eventuale diversa portata rispetto agli altri contemperamenti finora adottati.
In realtà, da un certo punto di vista, si sta assistendo al revival di quanto accaduto esattamente un anno fa, al ritorno dalla pausa estiva, nei confronti dell’uso delle mascherine, finchè le polemiche e le resistenze sono state spazzate via dall’impressionante risalita autunnale dei contagi, dei ricoveri in terapia intensiva e del numero di decessi.
Al momento, in attesa che la ricerca medico-scientifica appronti una cura efficace contro il Covid, l’unico rimedio praticabile è cercare di prevenire la malattia o, almeno, di ridurne gli effetti letali attraverso la somministrazione del vaccino alla percentuale di popolazione più elevata possibile.
In questa prospettiva, il vaccino – unito al distanziamento sociale e all’utilizzo delle mascherine – costituisce uno strumento adatto a proteggere la propria salute e quella degli altri.
Molti dubbi, però, sono stati avanzati in merito all’autorizzazione di tali vaccini da parte della Commissione UE, in quanto, proprio per fornire una pronta risposta alla minaccia globale nei confronti della salute pubblica, la procedura di immissione in commercio adottata è stata quella “condizionata” (CMA), anziché quella standard, che avrebbe richiesto tempi più lunghi di sperimentazione.
Condizionata, però, significa semplicemente “accelerata” e non meno accurata del solito: i dati sui quali si è basata la decisione sono stati ritenuti sufficienti e, ovviamente, sono stati previsti controlli e verifiche post-autorizzazione. Non si tratta, in realtà, di un’eccezione nel panorama medico-scientifico o di una procedura predisposta appositamente per l’emergenza Covid-19: l’autorizzazione condizionata è stata adottata anche in altre occasioni, ad esempio per i medicinali destinati alle terapie di pazienti affetti da malattie rare .
D’altronde, considerati gli allarmanti numeri dei decessi per Covid , è naturale che sia stata sfoderata l’arma più forte a disposizione pur di ridurre la trasmissione del contagio e la letalità degli effetti, cioè il vaccino.
Il conseguente dibattito politico-mediatico-giuridico si focalizza essenzialmente su due aspetti fondamentali: la legittimità e l’opportunità dell’introduzione di un obbligo vaccinale per tutti o, meglio, circoscrivendo la questione all’ambito giuslavoristico, per i lavoratori .
In riferimento al primo interrogativo, è imprescindibile esaminare la questione alla luce dell’art. 32 Cost., il quale riconosce la salute come “fondamentale diritto dell’individuo”. Come chiarisce lo stesso articolo, al secondo comma, si tratta di un diritto “double face”, che racchiude in sé sia la facoltà di ricevere cure – anche gratuite, in caso di indigenza – sia il potere di rifiutare un trattamento sanitario non gradito, salvo che sia imposto dalla legge.
La salute, infatti, non è solo un diritto dell’individuo, ma è anche un “interesse della collettività” e da tale espressione traspare lo spirito solidaristico della nostra Carta costituzionale, che ci ricorda come, in realtà, non siamo soli “sul cuor della terra” , bensì in un certo qual modo concatenati. In pratica, posso esercitare il mio “diritto” a rischiare di ammalarmi finchè non metto a repentaglio l’altrui diritto a non ammalarsi: è una sorta di trasposizione del noto proverbio “la tua libertà finisce dove inizia quella degli altri” . E il bilanciamento tra queste libertà viene operato dalla legge.
In Italia esistono vaccinazioni obbligatorie: il d.l. 7 giugno 2017, n. 73, convertito con modificazioni dalla l. 31 luglio 2017, n. 119, ha introdotto dieci vaccini obbligatori per i minori di età compresa fra 0 e 16 anni . Ciò consente di mantenere la soglia di vaccinazione almeno al 95% della popolazione, come raccomandato dall’OMS per garantire la c.d. “immunità di gregge” e proteggere i soggetti particolarmente vulnerabili, i quali, per comprovate ragioni di salute, non possono essere vaccinati.
Dunque, è possibile sgomberare il campo dai dubbi sulla legittimità costituzionale di un eventuale obbligo vaccinale, a fortiori in un una situazione di grave emergenza sanitaria di portata mondiale . Pertanto, se in Italia, almeno al momento, non vi è alcuna legge che imponga la vaccinazione obbligatoria contro il Covid-19, si tratta presumibilmente di una scelta di opportunità, motivata dalla mancanza di un unanime consenso politico all’interno della maggioranza, dall’insufficiente approvvigionamento di vaccini , nonché dall’intenzione di evitare la responsabilità per danni conseguenti a vaccinazioni obbligatorie .
Inoltre, è opportuno ricordare che la campagna vaccinale anti-Covid italiana è inserita nel programma europeo , in base al quale, come previsto dalla risoluzione n. 2361/2021 , “la vaccinazione non è obbligatoria e nessuno è costretto a vaccinarsi per ragioni politiche, sociali o qualunque altro motivo, se non voglia farlo” . Anzi, la predetta risoluzione assicura che “nessuno sia discriminato per non essersi vaccinato a causa di possibili rischi alla salute o perché non voglia essere vaccinato” .
Anche in una prospettiva internazionale la vaccinazione obbligatoria è considerata l’extrema ratio, da adottare solo nel caso in cui le politiche e campagne promozionali non riescano a conseguire risultati soddisfacenti dal punto di vista sanitario e socioeconomico . Naturalmente, le decisioni sull’obbligatorietà della vaccinazione dovrebbero essere sostenute dalle migliori evidenze scientifiche disponibili ed essere presentate alla collettività dalle legittime autorità di salute pubblica in un modo da risultare trasparenti, corrette e non discriminatorie .
Sono, comunque, previste delle eccezioni, alla luce del bilanciamento tra valori da tutelare, come sottolinea l’OMS, affermando che il vaccino obbligatorio anti-Covid “potrebbe apparire particolarmente ragionevole per gli operatori sanitari, dato che la loro vaccinazione potrebbe essere vista come necessaria per proteggere la capacità del sistema sanitario” . D’altronde, “forme di vaccinazione obbligatoria non sono insolite nel settore sanitario”, compresa la conseguenza che gli operatori non vaccinati restino a casa durante le epidemie e che il vaccino sia richiesto come requisito per lo svolgimento della prestazione lavorativa . Anche la Corte costituzionale francese, pronunciandosi sulla legittimità dell’obbligo vaccinale per gli operatori sanitari, ha affermato che “il legislatore, perseguendo l’obiettivo del valore costituzionale della protezione della salute, non ha violato il diritto al lavoro o il diritto della libera impresa” .
Proprio questa è la strada imboccata dalla normativa italiana con l’art. 4 d.l. 1.04.2021, n. 44, convertito con modificazioni dalla l. 28 maggio 2021, n. 76, che, “al fine di tutelare la salute pubblica e mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione delle prestazioni di cura e assistenza”, “in considerazione della situazione di emergenza epidemiologica” , ha imposto agli esercenti le professioni sanitarie e agli operatori di interesse sanitario – che svolgono la loro attività nelle strutture sanitarie, sociosanitarie e socio-assistenziali, pubbliche e private, nelle farmacie, parafarmacie e negli studi professionali – l’obbligo di sottoporsi al vaccino per prevenire l’infezione da Sars-Cov-2 .
Tale scelta normativa è, evidentemente, il frutto di una faticosa ponderazione, in cui sul piatto della bilancia gravano il rischio per l’incolumità dei pazienti – soggetti particolarmente fragili ed esposti – e l’eco mediatica dei focolai di contagio esplosi nelle residenze sanitarie . Per cui il diritto all’autodeterminazione vaccinale è stato considerato cedevole rispetto al concreto rischio di diffusione del contagio .
Alla luce del citato d.l. n. 44/2021 il vaccino anti-Covid, fino alla cessazione dell’emergenza sanitaria, “costituisce requisito essenziale per l’esercizio della professione e per lo svolgimento delle prestazioni lavorative dei soggetti obbligati” . Di conseguenza, nei casi in cui venga accertata la mancata vaccinazione, qualora il datore di lavoro non possa adibire l’operatore sanitario ad altre mansioni, anche inferiori, che non implichino il contatto con pazienti, il lavoratore verrà sospeso dall’attività senza corresponsione della retribuzione o altro compenso .
Nonostante resistenze e polemiche, non sembra il caso di gridare allo scandalo o di stracciarsi le vesti per l’introduzione dell’obbligo vaccinale come requisito essenziale per lo svolgimento delle professioni sanitarie. D’altronde, per determinate tipologie di mansioni – proprio in considerazione della specificità e degli eventuali rischi sottesi alla loro esecuzione – viene richiesto il possesso di requisiti soggettivi essenziali, sia al momento dell’assunzione che nel corso del rapporto. Basti pensare alla titolarità della patente di guida D per i conducenti di autobus oppure al porto d’armi per la guardia giurata o, ancora, mutatis mutandis , al certificato penale del casellario giudiziale che attesti di non aver riportato condanne per reati contro i minori da parte di coloro che esercitano attività professionali a contatto diretto e regolare con minori .
La sussistenza del requisito essenziale “si configura come un onere a carico di chi deve possederlo o acquisirlo” .
La posizione che ritiene eccessivo l’obbligo vaccinale anti-Covid – in quanto, dalle attuali risultanze medico-scientifiche, non emerge l’assoluta certezza della mancata trasmissione del contagio da parte di soggetti vaccinati – non appare convincente, perché se applicassimo lo stesso ragionamento agli esempi sopra riportati, dovremmo convenire che il possesso dell’idonea patente di guida non escluda che l’autista sia coinvolto in un sinistro stradale o che l’essere incensurato non assicuri la mancata commissione di reati in futuro. Si tratta pur sempre di un bilanciamento tra valori e beni giuridici da tutelare, al fine di individuare le misure più adeguate per salvaguardare l’integrità psico-fisica dei soggetti maggiormente vulnerabili.
Numerose, però, sono le difficoltà e lungaggini operative per l’applicazione della farraginosa procedura descritta dai commi 3-8 del d.l. n. 44/2021, che prevede un articolato iter di comunicazioni e controlli incrociati tra Ordini professionali, Regioni e province autonome, Azienda Sanitaria Locale e, infine, datore di lavoro. Ciò comporta, nella pratica, una disapplicazione di fatto della norma, dal momento che – a cinque mesi dall’entrata in vigore dell’art. 4 d.l. n. 44/2021 – l’80% dei sanitari non vaccinati risulta ancora in servizio .
La procedura potrebbe essere di gran lunga semplificata, ad esempio, con il coinvolgimento del medico competente , inserendo la verifica dell’assolvimento dell’obbligo vaccinale – o dell’esenzione per documentate ragioni cliniche – tra le attività di sorveglianza sanitaria. In caso di mancata vaccinazione – senza il giustificato motivo dell’esenzione – il medico competente potrebbe tempestivamente avvisare il datore di lavoro per i relativi adempimenti – eventuale adibizione a mansioni diverse o sospensione – e, contestualmente, trasmettere la comunicazione all’Ordine professionale di appartenenza dell’operatore sanitario e all’ASL territorialmente competente, in modo da consentire un monitoraggio fedele ed aggiornato della situazione vaccinale in ambito sanitario.
In fondo, si tratterebbe di una sorta di trasposizione del principio di sussidiarietà, che potrebbe alleggerire e velocizzare le procedure, soprattutto in un periodo di grave sovraccarico di lavoro per Regioni e province autonome, nonché per le Aziende sanitarie locali, in prima linea nell’attuale situazione emergenziale.
3.1. … e green pass nei luoghi di lavoro
L’ambito sanitario è stato il primo, ma non l’unico settore a richiedere uno speciale intervento a tutela dei lavoratori e dell’utenza nell’emergenza Covid.
In vista della ripresa dell’anno scolastico e accademico, il d.l. 6 agosto 2021, n. 111, ha focalizzato l’attenzione sul sistema educativo e formativo di ogni ordine e grado. Si tratta, anche in questo caso, di un ambiente di lavoro complicato e delicato, in quanto coinvolge, in gran parte, soggetti particolarmente vulnerabili – i minori – per un numero prolungato di ore e, talvolta, senza poter garantire il distanziamento minimo .
D’altronde, anche il settore scolastico è stato tra quelli maggiormente esposti all’attenzione mediatica a causa dei numerosi focolai di infezione, che, nel corso della pandemia, hanno impedito il regolare svolgimento delle lezioni in presenza e determinato gravi lacune nel campo dell’apprendimento e della socializzazione.
La scelta operata dal d.l. n. 111/2021 è stata, però, più soft, in quanto non è stato introdotto l’obbligo vaccinale – come per gli operatori sanitari – ma, al fine di “mantenere adeguate condizioni di sicurezza nell’erogazione in presenza del servizio essenziale di istruzione, tutto il personale scolastico del sistema nazionale di istruzione e universitario” è tenuto a possedere ed esibire la certificazione verde COVID-19, il c.d. green pass , di cui all’art. 9 d.l. 22 aprile 2021. n. 52, convertito dalla l. 17 giugno 2021, n. 87.
Lo stesso art. 9 si apre con il glossario indispensabile per orientarsi nell’ambito delle numerose espressioni tecnico-scientifiche adottate nella formulazione delle disposizioni normative e chiarisce che il suo rilascio – in formato cartaceo o digitale – è conseguente alla somministrazione del vaccino anti-Covid, all’avvenuta guarigione oppure all’effettuazione di test antigenico rapido o molecolare con esito negativo .
Il mancato rispetto dell’obbligo da parte del personale scolastico e di quello universitario è considerato assenza ingiustificata e, a decorrere dal quinto giorno di assenza, il rapporto di lavoro è sospeso e non sono dovuti la retribuzione nè altro compenso o emolumento, comunque denominato . L’attività di verifica del rispetto delle prescrizioni è demandata ai dirigenti scolastici e ai responsabili dei servizi educativi dell’infanzia, delle scuole paritarie e delle università .
Le resistenze nei confronti dell’introduzione del green pass per il personale scolastico e universitario – ritenuto una forma coercitiva indiretta dell’obbligo vaccinale – sono sfociate in un vivace contenzioso in materia, dagli esiti, al momento, unanimi. Secondo la giurisprudenza amministrativa, il diritto a non vaccinarsi “non ha valenza assoluta né può essere inteso come intangibile”, dovendo “essere razionalmente correlato e contemperato con gli altri fondamentali, essenziali e poziori interessi pubblici”, quali “quali quello attinente alla salute pubblica a circoscrivere l’estendersi della pandemia” e “quello di assicurare il regolare svolgimento dell’essenziale servizio pubblico della scuola in presenza” . Inoltre, la possibilità di ottenere il rilascio del green pass anche con la sottoposizione al test antigenico rapido o molecolare “costituisce una facoltà rispettosa del diritto del docente a non sottoporsi a vaccinazione” e, in tale prospettiva, “non appare irrazionale che il costo del tampone venga a gravare sul docente che voglia beneficiare di tale alternativa” , anziché avvalersi della vaccinazione gratuitamente messa a disposizione.
Un ulteriore tassello nella composizione di questo quadro di tutele per la ripresa delle attività lavorative in sicurezza, è il d.l. 10 settembre 2021, n. 122, che ha esteso l’obbligo del green pass ai lavoratori esterni di scuole e università e l’obbligo vaccinale agli operatori non sanitari di strutture residenziali e socio-assistenziali .
È evidente la finalità di questa estensione, volta ad evitare che la sicurezza di tali ambienti di lavoro – come visto, particolarmente vulnerabili – sia messa a repentaglio dagli inevitabili contatti con lavoratori “esterni” – e, quindi, non soggetti al precedente obbligo di green pass – oppure non sanitari – e, quindi non obbligati a vaccinarsi – come nel caso degli impiegati amministrativi, degli operatori addetti al front-office, ecc…
In realtà, l’art. 2, comma 1, d.l. n. 122/2021 – sia nella rubrica sia nel rinvio all’art. 1 bis d.l. n. 44/2021 – limita l’estensione dell’obbligo vaccinale a coloro che svolgono attività lavorativa all’interno di strutture residenziali, socio-assistenziali, sociosanitarie e hospice, dimenticando che l’art. 4 d.l. n. 44/2021 ha un raggio d’azione notevolmente più ampio: strutture sanitarie, farmacie, parafarmacie e studi professionali, luoghi di lavoro in cui è estremamente verosimile che siano occupati anche operatori non sanitari. Nella pratica, tale lacuna normativa sembrerebbe avere un effetto temporale assai circoscritto, cioè dal 10 ottobre 2021 – data di inizio dell’operatività dell’obbligo vaccinale ex art. 2 d.l. n. 122/2021 – al 15 ottobre 2021, giorno in cui scatta l’obbligo di green pass per tutti i lavoratori pubblici e privati, come previsto dal d.l. 21 settembre 2021, n. 127. Obbligo vaccinale e green pass, però, come visto, non coincidono, visto che il certificato verde può essere rilasciato anche a seguito di guarigione o tampone, per cui varrebbe la pena, in sede di conversione, provvedere ad eliminare le difformità rilevate, per rendere la disciplina più omogenea ed uniforme.
D’altronde, è proprio una tutela uniforme, a 360 gradi, quella a cui aspira il d.l. n. 127/2021 con l’estensione generalizzata del green pass. O, almeno, così appare a prima vista, perché, ad una lettura più approfondita e sistematica, sembrano emergere distinti livelli di tutela a seconda della rischiosità degli ambienti di lavoro. In primis, i luoghi in cui operano i professionisti della sanità, con l’introduzione dell’obbligo vaccinale e la previsione, in caso di inottemperanza, dell’adibizione a mansioni diverse o della sospensione. In secundis, gli ambienti educativi, scolastici e universitari, nei quali il personale – sia interno che esterno – è tenuto al possesso e all’esibizione del green pass e, in mancanza, risulta assente ingiustificato fino al quinto giorno e, successivamente, viene sospeso. Infine, tutti gli altri lavoratori, pubblici e privati , che sono tenuti a possedere e ad esibire il certificato verde “su richiesta” e, in caso di inadempimento, sono considerati assenti ingiustificati, con possibilità di sospensione nelle imprese con meno di 15 dipendenti , e passibili di sanzioni amministrative irrogate dal Prefetto .
Quale valenza attribuire all’espressione “su richiesta”, non presente nei precedenti decreti per le altre categorie di lavoratori? È un modo per sottolineare la responsabilità datoriale nell’organizzazione delle attività di verifica dei green pass? In effetti, il d.l. n. 127/2021 introduce sanzioni amministrative anche per i datori di lavoro, in caso di mancata adozione delle misure organizzative.
Al riguardo, come valutare se i controlli applicati siano o meno adeguati? Il rinvio al DPCM 17 giugno 2021 non appare esaustivo, mentre risulterebbe senz’altro più efficace una revisione/integrazione dei Protocolli condivisi anti-Covid a livello nazionale – per il settore privato e pubblico – che si sono rivelati di grande utilità nella fase più difficile dell’emergenza epidemiologica. D’altronde, perché ricorrere allo strumento della concertazione solo come extrema ratio e non come naturale modus operandi, visti i risultati positivi conseguiti?
Inoltre, quis custodiet custodes? Com’è stato rilevato in dottrina , fra le regole da rispettare non è stato disciplinato il possesso del green pass da parte dello stesso datore di lavoro, che, “nel nome della tutela della salute di tutti i cittadini, rispetto alla quale non si possono tollerare disparità di trattamento tra lavoratori e datori”, potrebbe essere controllato dalle forze dell’ordine. Alla questione il Governo, implementando la sezione delle FAQ nella pagina dedicata all’emergenza COVID-19, ha fornito una soluzione meno invasiva, affermando che “il titolare dell’azienda che opera al suo interno viene controllato dal soggetto individuato per i controlli all’interno dell’azienda” .
Le modalità di verifica del possesso della certificazione verde nei luoghi di lavoro, però, sollevano inevitabili perplessità in materia di trattamento dei dati personali e di diritto alla riservatezza. Per tale motivo il Garante Privacy è intervenuto ripetutamente sull’argomento , concludendo che “la disciplina interna delle certificazioni verdi […], sotto il profilo della protezione dei dati, implica un trattamento legittimo nella misura in cui si inscriva nel perimetro delineato dalla normativa vigente” e “sia legittimo nella misura in cui si limiti ai soli dati effettivamente indispensabili alla verifica della sussistenza del requisito soggettivo in esame (titolarità della certificazione da vaccino, tampone o guarigione), alle operazioni a tal fine necessarie e segua le modalità indicate dal DPCM 17 giugno 2021, attuativo dell’art. 9 del d.l. n. 52 del 2021” . D’altronde, tra le garanzie previste dal citato DPCM è già “compresa anche l’esclusione della raccolta, da parte dei soggetti verificatori, dei dati dell’intestatario della certificazione, in qualunque forma (art. 13, c. 5)”. Quindi, “se condotto conformemente alla disciplina su richiamata e nel rispetto delle norme in materia di protezione dei dati personali (e in primo luogo del principio di minimizzazione)”, il trattamento dei dati personali funzionale agli adempimenti di verifica del green pass “non può comportare l’integrazione degli estremi di alcun illecito, né tantomeno l’irrogazione delle sanzioni paventate nelle note ricevute dal Garante”, né necessita di preventiva autorizzazione .
Alle numerose incertezze interpretative – e, di conseguenza, applicative – suscitate dalla variegata disciplina del d.l. n. 127/2021 hanno cercato di fornire una tempestiva risposta le linee guida redatte da Confindustria a supporto delle decisioni organizzative e gestionali che i datori di lavoro sono chiamati ad assumere prima del 15 ottobre 2021.
La Confederazione imprenditoriale si sofferma, ad esempio, sul significato da attribuire alla qualificazione come “assenza ingiustificata” – e non come “sospensione” – del mancato possesso del green pass da parte del lavoratore.
In effetti, “assenza ingiustificata” sembra evocare una rilevanza disciplinare, che lo stesso d.l. n. 127/2021 si premura di escludere – “senza conseguenze disciplinari” – per poi assicurare anche che il lavoratore ha “diritto alla conservazione del rapporto di lavoro” , che è una delle conseguenze della sospensione del rapporto. In fondo, a fronte dell’impossibilità di svolgere la prestazione di lavoro – nel caso di specie, a causa della mancanza del green pass – la soluzione più corretta sembrerebbe la configurazione come “sospensione”, specificando, come d’altronde il d.l. n. 127/2021 fa, che non è dovuta alcuna “retribuzione né altro compenso o emolumento, comunque denominato” .
Vero è che, generalmente, le fattispecie di sospensione del rapporto di lavoro riguardano situazioni tutelate in primis da norme di rango costituzionale e successivamente da norme del codice civile o da leggi speciali, ma ciò potrebbe agevolmente sussistere anche nell’ipotesi de qua, visto che l’obbligo di green pass è stato introdotto proprio come applicazione concreta dell’art. 32 Cost., nel senso di tutela della salute come “interesse della collettività”.
Con la scelta di qualificare l’impossibilità di svolgere la prestazione come “assenza ingiustificata”, probabilmente si è inteso accentuare la responsabilità del lavoratore, che non si è attivato per il rilascio del certificato verde ricorrendo ad una delle alternative percorribili. In ogni caso, appare poco condivisibile il parere di Confindustria, secondo cui “mentre la sospensione legittima una ipotetica posizione di attesa da parte del lavoratore, per qualificare la presentazione senza green pass come assenza ingiustificata il lavoratore deve necessariamente presentarsi [tutti i giorni] in azienda” . Una tale condotta potrebbe risultare rischiosa per il lavoratore, in quanto – essendo i controlli aziendali previsti “anche a campione” e non necessariamente al momento dell’accesso – ove non venisse fermato all’ingresso, incorrerebbe nelle sanzioni previste dal comma 7 . Inoltre, vanificherebbe lo spirito della legge, perché la presentazione in azienda del lavoratore sprovvisto di green pass costituirebbe un potenziale rischio di contagio.
Interessante è la riflessione sviluppata dalle linee guida di Confindustria sull’individuazione del perimetro aziendale e, quindi, sull’accezione estensiva del luogo di lavoro: poiché la norma di riferimento non specifica che debba trattarsi di luoghi al chiuso, è ragionevole che l’obbligo di green pass riguardi anche i cantieri edili all’aperto o i lavoratori che effettuano servizi domiciliari per conto del datore di lavoro o committente.
Infine, come chiarito in una delle FAQ governative, il green pass non è obbligatorio per il lavoro svolto da remoto dalla propria abitazione – telelavoro o lavoro agile “emergenziale” – anche se “lo smart working non può essere utilizzato allo scopo di eludere l’obbligo di green pass” . Potrebbe, però, rappresentare una soluzione efficace, ove le mansioni affidate lo consentano, per i titolari del certificato di esenzione.
4. Brevi osservazioni conclusive
La direzione intrapresa dai provvedimenti normativi esaminati – seppure con qualche incertezza e lacunosità che potrebbe essere efficacemente corretta o integrata in sede di conversione – è quella di rendere i luoghi di lavoro più sicuri possibile, utilizzando e valorizzando tutti i mezzi a disposizione.
In fondo, come più volte ribadito a livello medico-scientifico, “la riduzione del rischio di contaminazione e diffusione [del Covid-19] si basa proprio sull’attuazione integrata e organica di queste misure personali e collettive, che rimangono tuttora le più efficaci. Nessuna singola misura può ridurre da sola il rischio. A questo proposito è necessario ricordare che la generale strategia di prevenzione deve continuare ad essere applicata anche in questo periodo in cui parte della popolazione è stata vaccinata” .
Alla luce di ciò, può essere utile dedicare qualche ultima riflessione al ruolo rivestito dalla ricerca giuslavoristica nella prospettiva del superamento della fase emergenziale e della piena ed effettiva ripresa economico-sociale.
Innanzitutto, l’opera della dottrina è indispensabile per avere e mantenere chiara la visione d’insieme, senza lasciarsi distrarre o deviare dal sensazionalismo mediatico/politico per uno o l’altro dei particolari.
Inoltre, è rilevante il suo impegno nel porsi interrogativi e nell’individuare gli strumenti necessari per fornire risposte efficaci e sostenibili, sfatando così uno dei noti principi della c.d. legge di Murphy, secondo cui “non è necessario capire le cose per discuterne” .
Infine, è fondamentale come baluardo per ricordare quanto sia delicato il bilanciamento di diritti e valori e come “la regolazione del rapporto di lavoro non possa essere un’esercitazione di logica astratta” , ma debba essere contestualizzata e “tenere conto dei bisogni della vita” , affinchè l’organizzazione tecnico-produttiva sia modellata intorno alla persona che lavora .
Analizzate in tale ottica, anche le misure più dibattute in questa fase emergenziale – cioè, obbligo vaccinale e green pass – possono essere considerate come strumenti “per” – e non contro – i lavoratori, per poter presto uscire dal tunnel e – tornando alla citazione dantesca riportata nel titolo del presente contributo – “riveder le stelle” .