testo integrale con note e bibliografia
1. Introduzione
Il contratto a tempo determinato rappresenta la forma più classica di contratto temporaneo e, al contempo, costituisce una delle principali vie d’accesso all’impiego (anche stabile) . Proprio per la delicatezza della materia, da sempre oggetto di differenti valutazioni di politica del diritto, non stupisce che governi di segno politico opposto intervengano in maniera più o meno estesa sulla disciplina dell’istituto per imprimervi la propria impronta.
È ciò che ha fatto anche l’attuale maggioranza, attraverso un provvedimento legislativo – il d.l. 4 maggio 2023, n. 48, convertito con modificazioni dalla l. 3 luglio 2023, n. 85 – che ha toccato altri temi politicamente discussi, come l’ormai ex reddito di cittadinanza (artt. 1-13), le modalità di assolvimento dell’obbligo di comunicare al lavoratore una serie di informazioni relative al rapporto (art. 26), il contratto di prestazione occasionale (art. 37). Anzi, nell’economia generale del testo normativo, le modifiche apportate agli artt. 19 e 21 del d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81 appaiono tutto sommato contenute.
Infatti, come si avrà modo di sottolineare nel prosieguo, la novella non ha comportato una liberalizzazione – entro i limiti temporali massimi – del contratto a tempo determinato , sul modello del d.lgs. n. 81/2015 nella versione originaria. Al contrario, è stato mantenuto l’obbligo di giustificazione dopo i 12 mesi, eliminando però il meccanismo delle causali fissate per legge (ad eccezione di quella sostitutiva), per affidarsi al meccanismo delle causali fissate dai contratti collettivi. Tra gli elementi del nuovo sistema, che hanno subito catturato l’attenzione degli interpreti, vi è il rinvio, in mancanza di previsioni dei contratti collettivi, alle esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti (del contratto individuale).
Di queste novità, che, come anticipato, non attengono alla “causalità” della proroga o del rinnovo, ma ai soggetti legittimati a delineare le causali, dovrà naturalmente essere valutato il reale impatto. Ma, intanto, l’ampio margine di discrezionalità conferita all’autonomia privata (collettiva ed individuale) per la determinazione delle causali giustificative sollecita uno sforzo analitico e ricostruttivo da parte dell’interprete, anche alla luce della giurisprudenza interna ed europea, nella misura in cui i principi ivi affermati siano adattabili all’attuale contesto normativo. Tale sforzo ricostruttivo è tanto più raccomandabile alla luce della formulazione imprecisa e, talvolta, frettolosa di alcune disposizioni.
2. Il nuovo regime causale di proroghe e rinnovi
L’art. 24, co. 1, del decreto n. 48/2023 ha espunto dall’art. 19, co. 1, del d.lgs. n. 81/2015 il riferimento alle «esigenze temporanee e oggettive, estranee all’ordinaria attività», contenuto alla lett. a, e quello alle «esigenze connesse a incrementi temporanei, significativi e non programmabili, dell’attività ordinaria», previste dalla lett b. Al posto delle causali previste dal decreto dignità, il d.l. n. 48/2023 richiama adesso i «casi previsti dai contratti collettivi di cui all’articolo 51» (lett. a, art. 19); mentre, «in assenza delle previsioni di cui alla lettera a), nei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il 30 aprile 2024», si rinvia alle «esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti» (lett. b). L’unica causale prevista direttamente dal legislatore è rappresentata dalla «sostituzione di altri lavoratori».
La scelta operata col d.l. n. 48/2023 pare condivisibile, stante la difficoltà, largamente evidenziata in dottrina , di definire con esattezza i concetti di «esigenze estranee all’ordinaria attività» e di «incrementi significativi e non programmabili»; una difficoltà peraltro testimoniata anche dall’enorme contenzioso giudiziario alimentato da analoghe formule contenute nella l. n. 230 del 1962, sebbene lì al fine non della proroga ma della possibilità stessa di stipulare il contratto.
A ben vedere, il rinvio alle causali di cui ai contratti collettivi previsti dall’art. 51 non rappresenta un’assoluta novità nel nostro ordinamento. Difatti, senza necessariamente risalire all’art. 23, co. 1, della l. 28 febbraio 1987, n. 56 , un rinvio a «specifiche esigenze previste dai contratti collettivi di cui all’articolo 51» era già stato introdotto alla lett. b-bis dal cd. decreto sostegni bis (art. 41-bis del d.l. 25 maggio 2021, n. 73, convertito dalla l. 23 luglio 2021, n. 106). Il decreto sostegni bis, nella versione risultante dalla legge di conversione, limitava invero nel tempo, fino al 30 settembre 2022, l’applicabilità delle causali previste dai contratti collettivi (art. 19, co. 1.1, d.lgs. n. 81/2015, ora abrogato), ma soltanto per la stipulazione di un unico contratto di durata superiore a 12 mesi; sicché, anche dopo il 30 settembre 2022, esse risultavano ancora invocabili per giustificare proroghe oltre i 12 mesi e rinnovi . Ne consegue che, al netto di una leggera variazione lessicale (dalle implicazioni comunque non del tutto trascurabili ), l’effetto primario della novella consiste essenzialmente nell’aver recuperato l’utilizzabilità delle causali previste dai contratti collettivi anche in relazione a contratti stipulati ab origine per una durata superiore a 12 mesi.
Per quanto attiene invece alla nuova lett. b dell’art. 19, che – «in assenza delle previsioni di cui alla lettera a), nei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il 30 aprile 2024» – rimanda alle esigenze tecniche organizzative e produttive individuate dalle parti, sembra di scorgere, quantomeno per rapporti di durata superiore a 12 mesi, un ritorno al modello del d.lgs. 6 settembre 2001, n. 368, con il cd. “causalone” . Ritorno provvisorio, per il momento, dato che la disposizione potrà applicarsi solo ai contratti stipulati entro il 30 aprile 2024 . Sotto questo profilo, si può dunque affermare che la previsione abbia lo scopo precipuo di consentire alle parti sociali di adeguarsi al mutato assetto normativo, senza nel frattempo paralizzare i rapporti individuali ; anche se non è da escludere nel prossimo futuro una proroga della scadenza, se non addirittura una conferma permanente della disposizione.
Da ultimo, con riguardo alla causale sostitutiva, non sembra che la modifica testuale – vale a dire il ricordato passaggio da «esigenze di sostituzione di altri lavoratori» a «in sostituzione di altri lavoratori» – incida sulla portata della previsione. Infatti, si dovrà in ogni caso indicare con precisione il motivo della sostituzione, in modo da consentire la verifica dell’effettività e della liceità della giustificazione invocata.
In proposito, una questione classica riguarda l’onere di indicazione del nominativo del lavoratore assente. Disattendendo, rectius circoscrivendo, l’insegnamento della Corte costituzionale , i giudici di legittimità hanno stabilito che «nelle situazioni aziendali complesse, in cui la sostituzione non è riferita ad una singola persona, ma ad una funzione produttiva specifica, occasionalmente scoperta, l’apposizione del termine deve considerarsi legittima se l’enunciazione dell’esigenza di sostituire lavoratori assenti […] risulti integrata dall’indicazione di elementi ulteriori (quali l’ambito territoriale di riferimento, il luogo della prestazione lavorativa, le mansioni dei lavoratori da sostituire, il diritto degli stessi alla conservazione del posto di lavoro) che consentano di determinare il numero dei lavoratori da sostituire, ancorché non identificati nominativamente, ferma restando, in ogni caso, la verificabilità della sussistenza effettiva del prospettato presupposto di legittimità» . Il principio pare condivisibile se applicato a seguito di un accertamento rigoroso della sussistenza dell’esigenza dedotta in contratto . Peraltro, ciò conferma, a contrario, la necessità di specificare il nome del lavoratore sostituito nei casi in cui questi sia immediatamente identificabile .
Più in generale, al pari della clausola appositiva del termine, l’indicazione della causale deve avere forma scritta ai fini della validità , pena la trasformazione del rapporto a tempo indeterminato . Va da sé che la medesima sanzione è applicabile nel caso in cui la causale, ancorché formalmente esplicitata, risulti nei fatti insussistente, ovvero il datore non sia in grado di provarne l’esistenza.
Ai sensi dell’art. 24, co. 1-ter, del d.l. n. 48/2023, ai fini del calcolo dei 12 mesi, oltre i quali è necessaria la causale per la stipulazione o la proroga del contratto, non si tiene conto dei contratti stipulati anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto. Poiché la norma non menziona invece il limite di durata massima di 24 mesi, si deve ritenere che per quello vadano calcolati anche i rapporti pregressi. Va inoltre sottolineato che, sebbene sia stato introdotto solamente in sede di conversione, il co. 1-ter menziona specificamente la «data di entrata in vigore del presente decreto»: ne deriva che ai fini del calcolo dei 12 mesi rilevano i contratti stipulati a partire dal 5 maggio 2023 e non (solo) quelli stipulati dopo l’entrata in vigore della legge di conversione.
Infine, è stato allineato il regime dei rinnovi a quello delle proroghe. È quanto si evince in maniera inequivoca dai testi riformati dell’art. 19, co. 4, e dall’art. 21, co. 1, del d.lgs. n. 81/2015. Pertanto, diversamente da prima, anche in caso di rinnovo la giustificazione è necessaria, per l’appunto, solo ove si eccedano complessivamente i 12 mesi.
Le modifiche all’art. 19, co. 1, non riguardano il pubblico impiego né i contratti a termine stipulati da enti di ricerca , cui, per espressa previsione del co. 5-bis, «continuano ad applicarsi le disposizioni vigenti anteriormente alla data di entrata in vigore del decreto-legge 12 luglio 2018, n. 87 convertito, con modificazioni, dalla legge 9 agosto 2018, n. 96». Ovviamente, a tali esclusioni specifiche si aggiungono – e, in parte, si sovrappongono – quelle già contemplate in generale per tutto il capo III dall’art. 29. Così come rimangono ferme le esenzioni particolari riservate alle attività stagionali (art. 19, co. 2, e art. 21, commi 01 e 2) .
3. Il ruolo dell’autonomia collettiva: i soggetti abilitati
Già da quanto detto si desume con chiarezza che il legislatore ha inteso conferire ai contratti collettivi un ruolo centrale al fine di consentire la stipulazione del contratto di lavoro a termine oltre i 12 mesi.
Prima di indagare sull’ampiezza del potere attribuito alla contrattazione collettiva, occorre però affrontare una non irrilevante questione interpretativa emersa a seguito della novella del 2023. Come anticipato, il contratto di lavoro a termine può avere una durata superiore a 12 mesi «in assenza delle previsioni di cui alla lettera a) , nei contratti collettivi applicati in azienda, e comunque entro il 30 aprile 2024, per esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva individuate dalle parti». È sorto dunque immediatamente il problema del significato da attribuire al riferimento ai «contratti collettivi applicati in azienda», vale a dire se il legislatore abbia inteso ritenere rilevante qualsiasi contratto collettivo, anche privo dei requisiti stabiliti dall’art. 51 . Si potrebbe infatti argomentare che, opinando diversamente, si priverebbe l’enunciato in questione di qualsivoglia valore precettivo in quanto i «casi previsti dai contratti collettivi di cui all’articolo 51» sono già menzionati alla lett. a .
Simile ricostruzione, che pure si basa su un’oggettiva ambiguità del testo di legge, sembra tuttavia collidere con la struttura logica della proposizione nel suo complesso.
Si aggiunga che si tratterebbe di un inedito accreditamento di contratti collettivi non qualificati, in totale controtendenza rispetto alle recenti linee evolutive del nostro ordinamento, in cui proprio l’art. 51 è ormai utilizzato dal legislatore come «fulcro del sistema» dei rinvii legali alla contrattazione collettiva . Sicché «è arduo immaginare una tale forma di apertura attraverso un rinvio così vago e incerto» .
Infine, lo stesso art. 51 del d.lgs. n. 81/2015 sancisce che, ai fini del decreto, per contratti collettivi si intendono quelli ivi considerati, «salvo diversa previsione», che nel caso di specie manca (almeno in modo espresso) .
Per tutte le ragioni evidenziate, appare maggiormente persuasiva la tesi secondo cui i contratti applicati in azienda, menzionati alla lett. b, sono pur sempre quelli previsti dall’art. 51. Dal che si può comunque desumere che i contratti cui fare riferimento sono quelli effettivamente applicati dal datore di lavoro, a prescindere da eventuali affiliazioni e/o dal settore merceologico in cui opera .
Si è cimentato nell’interpretazione della norma anche il Ministero del lavoro, benché, per vero, la già richiamata circolare n. 9/2023 si esprima, se possibile, in termini ancora più ambigui della norma legislativa. Stando alla circolare ministeriale, «la nuova lettera b) del medesimo comma 1 esplicita che, in assenza delle previsioni di cui alla lettera a) - che richiama tutti i livelli della contrattazione collettiva - le condizioni possano essere individuate dai contratti collettivi applicati in azienda, fermo restando il rispetto delle previsioni di cui all’articolo 51 del decreto legislativo n. 81 del 2015 in ordine alla qualificazione dei soggetti stipulanti, in un’ottica di valorizzazione della contrattazione di prossimità». A prescindere dall’apparente contraddittorietà dell’affermazione , la parte finale del passaggio sopra riportato rende abbastanza chiaro che anche per il Ministero i contratti di cui alla lett. b devono pur sempre essere stipulati da associazioni comparativamente più rappresentative .
La scelta dell’una o dell’altra ricostruzione produce rilevanti quanto ovvie conseguenze di ordine pratico. In particolare, secondo la lettura qui preferita, se entro il 30 aprile 2024 le maggiori organizzazioni non avranno provveduto ad adeguare i contratti collettivi alla nuova disciplina, salvo quanto si dirà in seguito circa le causali eventualmente già presenti nei contratti vigenti , non sarà più possibile superare il limite dei 12 mesi di rapporto a tempo determinato, se non per ragioni sostitutive .
4. Segue. I (pochi) limiti alla definizione collettiva delle causali
Ciò premesso in termini generali, risulta fondamentale determinare quale sia lo spazio di manovra delle parti sociali, posto che l’eventuale illegittimità della causale individuata dall’autonomia collettiva si ripercuote evidentemente sulla clausola appositiva del termine superiore a 12 mesi (ovvero sulla proroga o sul rinnovo che pure comportino il superamento del predetto limite temporale), con conseguente trasformazione del rapporto su domanda del lavoratore.
Anzitutto, l’ampiezza della nuova formulazione – «casi», in luogo di «esigenze» – fa pensare che siano ammesse giustificazioni non solo di natura oggettiva, legate appunto alle “esigenze” datoriali, ma anche di carattere soggettivo , basate cioè sulla situazione personale del lavoratore da assumere (età particolarmente giovane o avanzata , disoccupazione prolungata e simili ).
Del resto, perfino in contesti normativi in cui, diversamente da quanto avviene con il d.lgs. n. 81/2015, le «ragioni obiettive» costituivano l’unica condizione prevista dall’ordinamento nazionale per la stipulazione e/o la proroga di contratti a termine , la Corte di giustizia ha chiarito da tempo che tali ragioni «possono risultare segnatamente dalla particolare natura delle mansioni […] o, eventualmente, dal perseguimento di una legittima finalità di politica sociale di uno Stato membro» .
D’altro canto, non sembra che debba essere particolarmente enfatizzata la rimozione dell’aggettivo «specifiche», presente nella precedente versione dell’art. 19, co. 1, lett. b-bis. Da un lato, per quanto specifiche possano essere, le previsioni dei contratti collettivi presenteranno pur sempre i caratteri della generalità e dell’astrattezza, dovendosi applicare a una pluralità indeterminata di casi e per tutto il periodo di vigenza dell’accordo .
Dall’altro lato, affinché il disposto legale abbia un senso, è necessario che la causale sia identificata in maniera ragionevolmente precisa, non essendo sufficienti formule generiche che conducano ad un aggiramento di fatto dell’obbligo di giustificazione . Simili clausole sarebbero nulle per contrarietà a norma imperativa . Il che, a propria volta, invaliderebbe le clausole dei contratti individuali che stabiliscano un termine (o una proroga o un rinnovo) superiore ai 12 mesi invocando le causali collettive.
Va da sé, poi, che, se si vuole ridurre al minimo il contenzioso, sarà ovviamente preferibile evitare anche clausole che, pur non rientrando nell’estremo appena descritto, risultino comunque molto vaghe o eccessivamente ampie, poiché in caso di controversia sarà il giudice a valutare se la situazione concreta è effettivamente riconducibile alla previsione collettiva, con esiti non sempre prevedibili. Insomma, sia per ragioni di carattere interpretativo, che per motivi di ordine pratico, si deve concludere che i «casi» previsti dai contratti collettivi dovranno essere il più possibile “specifici”, cioè individuati con sufficiente precisione.
5. In attesa dell’adeguamento: alcuni esempi concreti
Al momento, è presto per dire come le parti sociali si adatteranno al nuovo panorama normativo. Invero, se le tre confederazioni storiche stanno iniziando a portare la questione al tavolo delle trattative , con alcuni risultati parziali , altri sindacati – della cui maggiore rappresentatività comparata si potrebbe discutere a lungo – si sono al contrario adeguati più rapidamente.
Così, il Ccnl del commercio del 22 settembre 2023, stipulato da Cisal terziario con Anpit, Aifes, Confimprenditori e Unica, contempla una serie di ipotesi, piuttosto variegate, dallo stesso espressamente definite «specifiche» (art. 60, n. 3): accanto a quelle più classiche, come «l’esecuzione di un’opera o di un servizio definiti e predeterminati nel tempo» ovvero «aventi carattere straordinario od occasionale», vi sono anche diverse causali soggettive, quali l’assunzione di lavoratori fino a 29 anni o con più di 45 anni, di persone disoccupate o inoccupate da almeno sei mesi, di laureati da meno di tre anni e di «soggetti in aree depresse del Paese, ed in particolare nelle regioni del mezzogiorno» , nonché il caso in cui «l’assunzione avvenga in fase di avvio di nuova attività operativamente autonoma (nuovo cantiere, negozio, punto vendita ecc.) nei primi 36 mesi» .
Una struttura simile si riscontra anche nel Ccnl per i dipendenti delle imprese artigiane edili e affini del 22 dicembre 2023, stipulato da Unilavoro Pmi e Fisals-Confsal. Qui, oltre ai casi di «avvio di un nuovo cantiere», «proroga dei termini di un appalto», «avvio di specifiche attività edile o fase lavorativa non precedentemente programmata», il superamento dei 12 mesi è consentito per l’assunzione di «giovani fino a 29 anni e lavoratori con età superiore a 45 anni», «disoccupati e inoccupati da almeno sei mesi», «cassaintegrati».
Invece, nel Ccnl gomma-plastica del 18 settembre 2023 sottoscritto da Fesica-Confsal con Conflavoro Pmi, particolare attenzione è prestata al profilo della professionalità del lavoratore da assumere, che interessa ben cinque delle dieci causali individuate ; là dove solo due di queste riguardano ragioni oggettive in senso stretto , cui si aggiungono altre due ipotesi specifiche di esigenze sostitutive .
6. Segue. Il problema delle causali collettive previgenti
Finché il processo di adeguamento dei contratti collettivi non sarà completato, avranno però un peso notevole anche le causali eventualmente già presenti negli accordi in vigore, naturalmente in quanto stipulati dai sindacati di cui all’art. 51 del d.lgs. n. 81/2015. Uno studio pubblicato praticamente all’indomani dell’approvazione del d.l. n. 48/2023 mostra come pure in questo campo si registri un’ampia varietà di previsioni, anche in ragione della normativa vigente al momento della stipulazione (ma non solo) . In particolare, per quanto qui rileva, si possono isolare tre modelli distinti di causali : il primo si limita a riprodurre sic et simpliciter il testo di legge dell’epoca (evidentemente, post decreto dignità); il secondo fa lo stesso, ma fornendo «ulteriori specificazioni, sulla base delle caratteristiche peculiari» del settore merceologico interessato; il terzo introduce ipotesi «distinte e ulteriori» rispetto a quelle legali.
Ora, il terzo modello non solleva particolari questioni. Difatti, sia che le parti abbiano inteso avvalersi della facoltà conferita dalla lett. b-bis così come risultante a seguito della novella del d.l. 73/2021, sia che abbiano autonomamente deciso di prevedere delle ragioni giustificative in un quadro normativo che non considerava espressamente tale possibilità, non vi sono motivi per dubitare che la medesima volontà perduri, a maggior ragione, nel quadro attuale in cui la contrattazione collettiva è destinata a diventare (quasi) l’unica fonte di definizione delle causali.
Più complesso risulta invece il caso rappresentato dai primi due modelli. Qui, invero, si può desumere un collegamento con un particolare sistema normativo, ormai superato. Di talché occorre chiedersi se le clausole in questione presuppongano in maniera necessaria il contesto cui le parti si sono riferite al momento della stipulazione oppure se, anche in questa ipotesi, si possa ritenere che dette clausole prescindano dalla contingenza del panorama giuridico allora vigente.
Ebbene, la risposta dipende dalla volontà delle parti, che deve essere ricostruita dal complesso delle circostanze, e varia quindi a seconda dei casi . Così, una semplice riproposizione delle causali legali ora abrogate, magari accompagnata da un rinvio fisso al d.l. n. 87/2018, fa presumere che le associazioni stipulanti volessero solamente ricapitolare la disciplina del d.lgs. n. 81/2015, senza per questo recepirla staticamente nel contratto . Dal che conseguirebbe la sopravvenuta irrilevanza di dette clausole e, quindi, la possibilità per i contraenti individuali di avvalersi della facoltà ex art. 19, co. 1, lett. b .
Al contrario, nei casi in cui sono stati aggiunti elementi che specificano la portata delle causali ovvero queste sono state calibrate sulle esigenze specifiche del settore (come nel secondo modello sopra analizzato) non vi è motivo per dubitare della persistente operatività di tali previsioni; specie se la stipulazione è avvenuta dopo l’entrata in vigore del decreto sostegni bis, vale a dire quando all’autonomia collettiva era già stata attribuita la possibilità di prevedere giustificazioni ulteriori rispetto a quelle legali.
In effetti, anche il silenzio, in simili circostanze, non è privo di significato. Si pensi agli accordi, sopra ricordati, in cui le parti rimandano a successivi incontri per l’eventuale adattamento dei testi contrattuali alla novella del 2023: una mancata presa di posizione in tali sedi potrebbe essere indicativa del fatto che non sia stato ritenuto necessario modificare le previsioni vigenti . D’altronde vi sono anche casi – per vero piuttosto sorprendenti – in cui, pur richiamando in modo esplicito il d.l. n. 48/2023, sono state nuovamente riproposte le causali del decreto dignità .
7. Gli spazi residui per i contratti di prossimità
Naturalmente, come anticipato, non soltanto i contratti nazionali sono abilitati a individuare le ipotesi che giustificano il superamento dei 12 mesi, ma altresì quelli territoriali e aziendali, nel rispetto dell’art. 51. Sotto questo profilo, si può affermare che il d.l. n. 48/2023 abbia assorbito quasi completamente il campo di operatività degli accordi di prossimità stipulati ai sensi dell’art. 8 del d.l. 13 agosto 2011, n. 138, convertito con modificazioni dalla l. 14 settembre 2011, n. 148 .
Non vi è però un rapporto di perfetta continenza tra le due ipotesi. Da un lato, mentre le intese ex art. 8 rimangono soggette a vincoli di natura finalistica e procedurale, nessuna limitazione di tal sorta è imposta ai contratti collettivi ex art. 19, co. 1, lett. a, del d.lgs. 81/2015. Ma, dall’altro lato, diversamente dall’art. 51 del decreto n. 81/2015, per l’art. 8 rileva solamente la rappresentatività delle associazioni dei lavoratori (e non anche di quelle dei datori), che può essere apprezzata anche a livello territoriale (non per forza nazionale).
Non è possibile qui ripercorre l’ampissimo dibattito intorno all’art. 8 , recentemente ravvivato dalla pronuncia della Corte costituzionale n. 52 del 2023 . Basti dire che, al di là delle pur non peregrine tesi che hanno prospettato un’abrogazione tacita o, perlomeno, un superamento di fatto della norma , nella prassi gli accordi ex art. 8 sono stati – e sono tuttora – largamente utilizzati . Come dimostra, del resto, il cospicuo numero di intese depositate negli ultimi tre anni , le quali probabilmente non esauriscono nemmeno il novero degli accordi effettivamente stipulati .
In tale prospettiva, va osservato che i contratti di prossimità recuperano la propria rilevanza nel momento in cui si volesse eliminare del tutto l’obbligo di giustificazione causale , come in effetti è talora avvenuto nella prassi . Senza contare che essi possono incidere su altri aspetti della disciplina dei contratti a tempo determinato generalmente sottratti al potere derogatorio dell’autonomia collettiva dal capo III del d.lgs. n. 81/2015 .
Sul piano degli obiettivi, le ipotesi contemplate dal co. 1 dell’art. 8 sono tante, e di portata talmente ampia, che non sembrano realmente in grado di contenere il ricorso a questo tipo di accordi, quantomeno in materia di contratto a termine . Si pensi a contratti stipulati in fase di avvio di nuove attività, oppure motivati dallo scopo di sostenere gli investimenti in una nuova linea produttiva o per potenziare quelle esistenti o, ancora, volti ad incrementare la competitività e i salari, semplificando l’impiego del lavoro a termine a fronte di aumenti retributivi ovvero, da ultimo, intese finalizzate all’aumento dell’occupazione, in cui l’alleggerimento dei vincoli legali potrebbe essere accompagnato da percorsi di stabilizzazione dei lavoratori assunti per questa via .
Il limite più tangibile al potere derogatorio dei contratti di prossimità è costituito, per quanto qui interessa, dal rispetto (della Costituzione e) della dir. 1999/70/CE, così come interpretata dalla Corte di giustizia (art. 8, co. 2-bis) . Da ciò consegue che tali accordi non potranno comunque rimuovere tutti i limiti previsti dalla legge per il ricorso al contratto a tempo determinato. In particolare, essi dovranno mantenere almeno una delle misure di cui alla clausola 5, punto 1, dell’accordo quadro, vale a dire: obbligo di causale per i rinnovi, durata massima complessiva dei rapporti a termine oppure numero massimo dei rinnovi. Più in generale, l’assetto congegnato dalle intese ex art. 8 dovrà essere in grado di prevenire efficacemente gli abusi derivanti dall’utilizzo di una successione di contratti a tempo determinato. Da ultimo – è appena il caso di sottolinearlo – esse non potranno in ogni caso introdurre trattamenti deteriori per i lavoratori a termine rispetto a quelli a tempo indeterminato comparabili, a meno che non siano giustificati da ragioni oggettive (clausola 4, punto 1).
8. La (temporanea) valorizzazione dell’autonomia individuale
Come detto, in mancanza di previsioni collettive, e comunque entro il 30 aprile 2024, l’art. 19, co. 1, lett. b, attribuisce alle parti del contratto di lavoro il potere di individuare le «esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva» che giustificano il superamento dei 12 mesi.
Si assiste qui ad una valorizzazione dell’autonomia individuale – sebbene temporanea e subordinata alla mancanza di previsioni del contratto collettivo – che si può ritenere rispondente alle spinte all’individualizzazione dei rapporti emergenti non solo nel mondo del lavoro, ma anche in altri aspetti della società e della vita attuale . Essa echeggia quella già realizzata nella disciplina delle clausole elastiche nel part-time (art. 6), nella quale è presente un’articolazione del rapporto tra autonomia collettiva e autonomia individuale che, in effetti, può per certi versi ricordare quella dell’attuale art. 19.
Ma l’analogia più evidente che presenta la nostra disposizione è senz’altro quella con l’art. 1 del d.lgs. 368/2001 : in particolare, non si può non notare la quasi totale sovrapponibilità della formula dell’art. 1, co. 1, del d.lgs. n. 368/2001 («ragioni di carattere tecnico, produttivo, organizzativo [o sostitutivo]») con quella contenuta nell’art. 19, co. 1, lett. b, del d.lgs. n. 81/2015 («esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva»). Appunto per questo, al fine di individuare il vero ruolo attribuito all’autonomia individuale dal decreto lavoro, è utile riallacciarsi alla copiosa giurisprudenza formatasi sul d.lgs. n. 368/2001.
Vero è che la cornice giuridica che circonda la norma è radicalmente diversa da quella del 2001 e che l’obbligo di giustificazione per il superamento dei 12 mesi non costituisce l’unica misura di prevenzione degli abusi nell’impianto del d.lgs. n. 81/2015. Il che dovrebbe suggerire una mitigazione della rigidità con cui sono state spesso valutate in passato le esigenze addotte dalle parti .
Nondimeno, tali esigenze devono pur sempre essere coerenti con il motivo per cui vengono invocate, ossia giustificare il protrarsi per un periodo di tempo compreso tra (più di) 12 mesi e 24 mesi di un rapporto di lavoro comunque temporaneo. E ciò perché, in caso contrario, il legislatore non avrebbe subordinato la possibilità di proroga o rinnovo all’esistenza di «esigenze di natura tecnica, organizzativa o produttiva», sebbene «individuate dalle parti» .
Si tratta allora di verificare quale tipo controllo possa esercitare il giudice sulle causali indicate nell’accordo individuale.
In “regime causale” di stipulazione del contratto a termine (quello, per intenderci, risultante dal d.lgs. n. 368/2001), si è prospettata l’ipotesi che le uniche esigenze aziendali in grado di giustificare la stipulazione di un contratto a termine fossero esigenze di carattere temporaneo, ancorché il concetto di temporaneità fosse variamente inteso . Non mancavano tuttavia altre prospettazioni, che riconoscevano la legittimità dell’apposizione del termine in presenza di qualsiasi ragione oggettiva non arbitraria .
Oggi occorre invece considerare che ci troviamo al cospetto di un regime inizialmente “acausale” e che, d’altra parte, la temporaneità del contratto a termine è già presidiata, in funzione antiabusiva, dal limite di durata massima complessiva dei rapporti intercorsi tra le stesse parti, fissato dall’art. 19, commi 2 e 3, nonché dal limite al numero massimo delle proroghe.
Ciò significa che il giudice dovrebbe limitarsi a verificare la sussistenza delle ragioni addotte dalle parti per proroghe e rinnovi e la coerenza tra queste ragioni e la protrazione del rapporto di lavoro. Questo implica, tra l’altro, che, una volta individuata (contrattualmente ) l’esigenza che giustifica il superamento dei 12 mesi, il datore è vincolato ad impiegare il lavoratore per il soddisfacimento di tale esigenza .
Del resto, esaminando il contenzioso vertente sull’art. 1 del d.lgs. n. 368/2001, si evince che i problemi più ricorrenti non attenevano tanto alla definizione in astratto delle caratteristiche che dovevano avere le esigenze addotte, quanto alla sussistenza in concreto della causale invocata e alla sua (mancanza di) specificità. Infatti, secondo il consolidato orientamento della Cassazione, le ragioni tecniche, organizzative, produttive (e sostitutive) dovevano essere indicate «in modo circostanziato e puntuale» nel contratto «al fine di assicurare la trasparenza e la veridicità di tali ragioni, nonché l’immodificabilità delle stesse nel corso del rapporto» .
Per fare sì che la giustificazione invocata possa reggere in un eventuale giudizio, le parti dovranno aver cura di esporla in maniera quanto più precisa e circostanziata, evitando formulazioni generiche o, peggio ancora, meri richiami al testo di legge.
Sul fronte formale, come anticipato, l’art. 19, co. 4, del d.lgs. n. 81/2015 richiede che l’indicazione delle esigenze che giustificano il rinnovo o la proroga oltre i 12 mesi avvenga nell’atto scritto. A questo proposito, deve essere sottolineato che nulla si dice per la stipulazione di un unico contratto di durata eccedente i 12 mesi. Benché tale divaricazione possa essere frutto di una semplice dimenticanza del legislatore (per inciso, già derivante dal decreto dignità), essa non pare facilmente rimediabile in via ermeneutica . Va tuttavia sottolineato che la mancata indicazione per iscritto dalla ragione giustificativa – che comunque deve sussistere – rischia di complicare la posizione processuale del datore, sicché sembra difficile che questi possa in concreto prescindere dalla specificazione scritta della causale, anche quando si tratti del primo contratto di durata superiore a 12 mesi.
Alla luce delle considerazioni che precedono, sebbene nella versione definitiva del decreto lavoro sia venuto meno l’obbligo di certificare le esigenze invocate dalle parti a giustificazione del superamento dei 12 mesi, non v’è dubbio che la certificazione, di cui agli artt. 75 ss. del d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, rimanga un utile strumento per assicurare maggiore certezza al rapporto così instaurato e per ridurre il rischio di contenzioso. Ciò, ovviamente, entro i limiti di efficacia del provvedimento di certificazione e purché le commissioni assolvano il proprio compito in maniera scrupolosa , sfruttando al meglio i (pur limitati) poteri istruttori di cui dispongono e fornendo adeguata assistenza alle parti .
È infatti appena il caso di ricordare che la certificazione costituisce, nei fatti, più un meccanismo di dissuasione che non una vera e propria barriera all’azione giudiziale . Tant’è che l’art. 80 del d.lgs. n. 276/2003 consente di proporre ricorso, oltre che davanti alla giurisdizione amministrativa , anche dinnanzi al giudice del lavoro, per vizi del consenso, «difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione» nonché per erronea qualificazione (potendosi dunque rimettere in discussione la stessa valutazione della commissione) . Sicché, al di là degli aggravi procedurali , ciò che è realmente destinato a fare la differenza è l’autorevolezza e la persuasività della commissione certificante.
9. Conclusione
Alla luce dell’analisi condotta, è possibile ribadire che il decreto lavoro ha inciso sulla disciplina del contratto a termine assai meno di quanto ci si sarebbe potuti aspettare.
Del decreto dignità sono rimasti sia il limite complessivo di 24 mesi sia l’obbligo di causale per il superamento dei 12 mesi. Sotto questo secondo profilo, la sostituzione delle infelici causali introdotte nel 2018 con un rinvio generale alla contrattazione collettiva appare come il tentativo di trovare un ragionevole compromesso tra domanda di flessibilità ed esigenza di controllo. Dove il controllo è affidato, a monte, a quei soggetti che meglio di tutti dovrebbero conoscere le specifiche realtà interessate e, di conseguenza, essere in grado di distinguere, negli ambiti di riferimento, la flessibilità fisiologica da quella fraudolenta.
In questo contesto, non del tutto chiaro è il senso del rinvio, in subordine e soprattutto “a scadenza”, all’accordo individuale per l’individuazione delle esigenze tecniche, organizzative e produttive che giustificano la proroga o il rinnovo oltre i 12 mesi o la stipulazione di un contratto a termine di durata superiore. Anche se vista semplicemente nell’ottica di consentire l’adeguamento delle previsioni dei contratti collettivi, vi è il rischio che l’efficacia della disposizione risulti in concreto condizionata dall’atteggiamento, più o meno sorvegliato, che potranno assumere i giudici: in altre parole che si possa aprire un contenzioso simile a quello cui nel passato tecniche normative analoghe avevano dato origine.
Non si può escludere tuttavia che la norma possa avere un carattere sperimentale e dunque possa essere stabilizzata se il contenzioso non dovesse verificarsi oppure si trovasse un punto di equilibrio (anche grazie al ruolo eventualmente esercitato dalle commissioni di certificazione).
Ad ogni modo, resta centrale, nella configurazione attuale dell’art. 19, il ruolo dei contratti collettivi nella determinazione delle causali. Il che potrebbe riproporre anche in questo contesto l’annosa questione del contrasto al dumping contrattuale, specialmente se le federazioni storiche tarderanno a rivedere i propri contratti. E allora, data la posta in gioco – vale a dire, la trasformazione a tempo indeterminato –, non pare assurdo ipotizzare che il nuovo contenzioso sulle causali possa essere incentrato non tanto (o non solo) sulla sussistenza e sulla specificità delle stesse, quanto sulla rappresentatività dei soggetti che quelle causali hanno previsto.
Vi è quindi da sperare nella prontezza e nella capacità degli attori sociali e dei giudici di gestire al meglio questa ultima (per ora) transizione normativa.