Il presente contributo intende effettuare un’analisi in ordine alla fattispecie del recesso dal contratto di apprendistato al termine del periodo formativo del lavoratore inquadrato come apprendista.
La ratio legis che sussume a tale fattispecie, come confermato dai requisiti anagrafici essenziali per la stipulazione di detta tipologia contrattuale, consiste nell’assunzione di un soggetto di giovane età, attraverso l’approntamento di un variegato sistemi di incentivi prevalentemente di natura contributiva che, in considerazione del minor apporto lavorativo (quantomeno da un punto di vista qualitativo) che porta, percepisce un corrispettivo inferiore, sino a raggiungere il medesimo grado di preparazione degli altri lavoratori e, corrispondentemente, pareggiarne la retribuzione.
Come noto, la legge afferma che il contratto di apprendistato debba intendersi come un contratto di lavoro subordinato a tempo indeterminato, sebbene poi appaia evidente un certo scollamento tra la lettera della legge e la prassi: sarebbe sufficiente, del resto, domandare all’apprendista che abbia chiesto a un istituto di credito l’erogazione di un mutuo per capire che tale nozione è più teorica che pratica.
Il principale motivo per cui esiste questa discrasia risiede nell’odierno oggetto di studio, ossia la possibilità – astrattamente posta a vantaggio di entrambe le parti, ma che de facto si configura chiaramente quale strumento di favor datoris -, al termine del periodo formativo, la cui durata è fissata dai Contratti Collettivi Nazionali di Lavoro entro la cornice fissata ex lege, di recedere ad nutum, derogando alla disciplina comune del corpus normativo giuslavoristico secondo cui, sin dal 1966, vi è necessità di allegare un giustificato motivo quando il datore manifesta la sua intenzione di recedere dal contratto di lavoro.
La previsione in esame risulta doppiamente anomala considerando che, per tutta la vigenza del c.d. “periodo formativo”, l’apprendista è tutelato dal medesimo regime relativo alla totalità dei lavori subordinati ‘tipici’, non potendo trovare applicazione né la disciplina del c.d. recesso ante tempus tipica del contratto a tempo determinato, né tantomeno alcuna tipologia di recesso non sorretta da un giustificato motivo o una giusta causa.
Naturalmente ci si focalizzerà principalmente sul recesso esercitato da parte datoriale, sia perché questa è la fattispecie più comune nella prassi, sia soprattutto perché è in tale previsione che risiede la reale anomalia ordinamentale, atteso che per definizione il recesso esercitato dal lavoratore non richiede, in linea generale, di essere retto da un giustificato motivo (salvo il caso di dimissioni per giusta causa).
Ci si domanda dove risieda il fondamento della previsione del recesso ad nutum una volta concluso il periodo formativo, atteso che tale previsione si pone come una deroga estremamente significativa alla necessità del giustificato motivo che si pone alla base del recesso da parte datoriale; tale eccezione alla regola è sì riscontrabile anche in altri settori dell’ordinamento, ma in ipotesi la cui ratio legis appare sempre in modo evidente: in caso di licenziamento del lavoratore che ha maturato i requisiti pensionistici, la possibilità di recesso del datore di lavoro ha conseguenze sociali ridotte, atteso che il lavoratore percepirà comunque da subito un importo costituente reddito (anche in senso tecnico – fiscale).
Proseguendo la disamina, si rileva come, in ipotesi di licenziamento del dirigente, la nozione di “giustificato motivo” alla base del recesso datoriale viene temperata, e non completamente espunta, venendo, semmai, convertita in quella di “giustificatezza”; il lavoro domestico ed il lavoro sportivo professionistico costituiscono fattispecie a sé stanti, disciplinate da leggi speciali, che presentano particolarità ictu oculi evidenti nell’oggetto della prestazione dedotta nel contratto di lavoro; infine, il lavoratore in prova – cioè la fattispecie più sovrapponibile per eadem ratio a quella oggetto del presente ragionamento giuridico – può sì subire il recesso da parte datoriale, ma nel contesto di un rapporto che, secondo alcuni orientamenti, è sospensivamente condizionato al superamento della prova stessa, di talché si parla di recesso da un contratto che non ha ancora completamente estrinsecato i suoi effetti.
Concettualmente differente si presenta, invece, l’ipotesi in esame, sottolineandosi in proposito come le esigenze per così dire “sociali” del diritto del lavoro, che nelle casistiche precedentemente analizzate potevano trovare, per vari motivi, una fondata deroga alla funzione per così dire ‘ortopedica’ della normativa giuslavoristica rispetto all’equilibrio del sinallagma contrattuale.
Se da un lato è vero che il medesimo discorso è applicabile anche al recesso durante il periodo di prova, non si può non rilevare come l’impatto “sociale” di quest’ultima ipotesi appaia completamente diverso, atteso che la durata di detto periodo non può valicare la durata massima di sei mesi, e che, per la maggior parte delle mansioni, la sua estensione temporale si attesta attorno a un terzo o un quarto di tale periodo massimo: si tratta, dunque, di lavoratori che non si sono ancora ‘esistenzialmente’ definitivamente installati nell’organizzazione aziendale, nei suoi riti e nella sua routine, e pertanto appare ragionevole, nel bilanciamento degli interessi proprio del sinallagma contrattuale, far prevalere, al termine di tale breve orizzonte temporale, la valutazione negativa in ordine all’idoneità lavorativa del prestatore sul suo diritto alla conservazione del posto; tale discorso non appare tuttavia applicabile all’apprendistato, la cui durata (anche solo del periodo formativo) esorbita la mera valutazione in ordine all’idoneità lavorativa del prestatore. La questione, forse sottovalutata dalla dottrina, che non le ha dedicato uno spazio di rilievo (così come il tema non è stato problematizzato più di tanto nemmeno a livello politico / sindacale), appare invece come un nodo cruciale nel magmatico contesto della normativa giuslavoristica, disciplina ‘giovane’ e connotata da un’applicazione assai pratica ed improntata al principio del ‘do ut des’ da parte degli operatori.
Qual è, ci si chiede, la ratio legis che consente al datore di lavoro di recedere, senza che sia prevista a suo carico l’obbligo di allegazione di alcun giustificato motivo, dal contratto di lavoro stipulato con un soggetto che ha prestato attività in suo favore per un periodo di tre anni (periodo, per intendersi, più lungo di quello massimo previsto per la stipulazione di un contratto a tempo determinato post “Decreto Dignità”)? La necessità di una “prova lunga”?
A parere di chi scrive, è più probabile che detta previsione trovi surrettiziamente la sua giustificazione in una mano tesa dal legislatore alla classe imprenditoriale, che vede nell’apprendistato la tipologia contrattuale meno costosa e pertanto più appetibile, consentendogli transversis itineribus di poter aumentare le possibilità di ottenere manodopera più economica senza utilizzare mezzi elusivi quando non proprio fraudolenti, che possono spaziare dalla delocalizzazione all’estero fino al ricorso al lavoro nero.
Ciò su cui appare opportuno appuntare l’attenzione risiede nel fatto che il problema sta a monte: perché introdurre una deroga a tutti i principi generali dell’ordinamento, posti a tutela della persona, mettendo a repentaglio l’occupazione della fascia più giovane della popolazione idonea al lavoro, motivando seppur implicitamente tale previsione con un favor datoris teleologicamente indirizzato alla riduzione dei costi, quando sarebbe più corretto, a livello sistem(at)ico, effettuare interventi organicamente destinati alla riduzione dell’elevatissimo cuneo fiscale da cui è connotato il nostro paese?
In definitiva, sembrerebbe che nel contesto attuale la disciplina giuridica del recesso al termine del periodo formativo dell’apprendistato si configuri come uno degli ultimi baluardi favorevoli all’impresa, ponendosi però a detrimento della fascia più giovane della popolazione; sarebbero auspicabili, pertanto, un ripensamento e un miglioramento globale del sistema, senza “chiudere un occhio” sull’adozione di escamotage posti in essere dal datore di lavoro al fine di difendersi da una situazione sistemica sfavorevole.