testo integrale con note e bibliografia
1. La questione della compatibilità costituzionale del reddito minimo garantito.
La compatibilità costituzionale del reddito minimo garantito, quasi unanimemente accolta nel dibattito scientifico , è stata più volte implicitamente confermata pure dalla Corte costituzionale. Il giudice delle leggi, invero, non è mai stato chiamato a pronunciarsi, direttamente, sul profilo più spinoso, quello cioè concernente la coerenza di trasferimenti monetari correlati allo stato di bisogno della persona, o del nucleo familiare, con il duplice vincolo derivante dal c. 1 dell’art. 38 Cost., che richiede, congiuntamente alla condizione di indigenza, anche quella di inabilità al lavoro . Del resto, sono difficilmente prospettabili fattispecie che consentano, in un giudizio a quo, la formulazione del dubbio di costituzionalità, salvo che l’ente previdenziale, deputato all’erogazione, la rifiuti, proponendo contestualmente la sollevazione della questione al giudice remittente. Il che, come si può intuire, è ipotesi peregrina, pure considerato che, salvo certo l’impegno amministrativo, il finanziamento è integralmente a carico della solidarietà generale. Sicché la partita non può che giocarsi sul piano della politica del diritto.
In ogni caso, l’orientamento della Consulta in materia è desumibile dalle pronunce emesse con riguardo a diverse discipline del reddito susseguitesi nel tempo – la social card , il reddito di inclusione (ReI) e il reddito c.d. di cittadinanza (RdC) – ed ha ormai assunto, dunque, una direzione univoca, sebbene tutt’altro che persuasiva.
In una occasione, infatti, la Corte, affermando che dette forme di reddito siano riconducibili ai “diritti civili e sociali”, i cui livelli essenziali siano da garantire su tutto il territorio nazionale (art. 117, c. 2, lett. m), Cost.), ha dichiarato insussistente la violazione delle competenze regionali in materia da parte del legislatore statale . Ma con ciò ha presupposto, senza dimostrarla, la qualificazione del reddito minimo garantito quale diritto civile o sociale che meriti una simile protezione.
In vicende più recenti, d’altro canto, la Corte ha mostrato di prendere sul serio l’obiettivo di politica attiva del lavoro, nominalmente insito nel ReI e nel RdC, quale scopo ulteriore al rimedio alla carenza di risorse proprie dei beneficiari. Perciò, ha sancito la legittimità costituzionale dei requisiti, da un lato, dell’assenza di sottoposizione a misure cautelari personali a carico del percipiente ; dall’altro, di titolarità del permesso di soggiorno di lungo periodo . In entrambe le ipotesi, per la Corte, simili e più rigorose condizioni si giustificherebbero – anche alla luce degli obblighi di diritto sovranazionale – proprio perché il reddito minimo garantito non esaurisce la sua funzione nell’assicurare il mantenimento a persone o nuclei familiari altrimenti sprovvisti dei mezzi necessari per vivere, ma fa gravare su di essi obblighi (formalmente) stringenti di condizionalità e attivazione, quale contropartita di emolumenti posti a carico della fiscalità generale . Come si sia giunti a obliterare il vincolo, ex art. 38, c. 1 Cost., della inabilità al lavoro, nelle pronunce costituzionali resta inespresso.
Tale approdo è però argomentato in dottrina, seppure con percorsi differenti. Vi è chi riconosce il fondamento direttamente nella lettera dell’art. 38 Cost. ; chi attraverso una lettura evolutiva della medesima disposizione , in cui sarebbe radicato il compito dello Stato di liberare il cittadino dalla condizione di bisogno con prestazioni adeguate ; chi, ancora, ricavando dal sistema dei principi fondamentali il diritto a una esistenza libera e dignitosa, per sé esplicito nel solo art. 36 Cost. ; chi, poi, leggendo la Costituzione alla luce dell’ordinamento sovranazionale e in particolare dell’Unione europea (cfr. sub par. 3); chi, da ultimo, ritenendo che, sull’equilibrio tra forme di previdenza e assistenza, il legislatore ordinario goda di ampia discrezionalità, non impedendo i vincoli ex art. 38 Cost. di introdurre tutele più ampie rispetto a quelle necessitate sul piano costituzionale .
Ma, per l’appunto, ciò introduce ulteriori elementi di complessificazione del dibattito. Anzitutto, si discute se i vincoli costituzionali impongano, o semplicemente legittimino, una regolazione legale del reddito minimo: in particolare, chi argomenta la sussistenza di un diritto all’esistenza libera e dignitosa riconosce all’istituto un carattere costituzionalmente necessario ; mentre altri ritengono l’istituto facoltizzato e non imposto .
Vi è poi chi ritiene compatibile con le norme della Costituzione ogni modello di reddito di tal sorta, inclusi quelli del tutto universali sul piano soggettivo – prescindendo cioè dalla condizione economica del destinatario della misura – e incondizionati sul piano oggettivo , cioè non implicanti obblighi od oneri di attivazione in termini di partecipazione a programmi socioeducativi, formativi o di (re)inserimento professionale . Altri, invece, sostengono che i soli modelli in concreto selettivi, in ragione dello stato di bisogno verificato alla prova dei mezzi, e dotati di un sistema di condizionalità, siano conformi al principio di uguaglianza, al principio solidaristico ex artt. 2 e 38, c. 1, Cost. e a quello generale lavorista , restando il lavoro il principale mezzo di inclusione sociale . Tra questi ultimi, ancora, si discute della legittimità costituzionale in ragione del grado di condizionalità richiesto al beneficiario del trattamento economico, al fine di rispettare il principio di divieto del lavoro coattivo, anche tenendo conto delle aspirazioni e delle capacità della persona ex art. 4, c. 2, Cost.
Ad un attento esame dell’impianto costituzionale, tuttavia, gli spazi per un intervento legittimo del legislatore in materia appaiono, se non del tutto preclusi, alquanto stretti. La dottrina minoritaria e più prudente oppone a tal proposito argomenti fondati, oltre che sul dibattito dell’Assemblea costituente, in cui misure universali furono espressamente escluse , sul c.d. principio lavorista, cioè sul favore della Carta per il lavoro quale diritto da promuovere, dovere da assumere e base dei diritti di cittadinanza .
Pur condividendosi l’enfasi sul dogma lavorista, occorre anticipare come esso non sia decisivo per escludere, di principio, la legittimità delle misure di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale attraverso trasferimenti monetari diretti dalle istituzioni pubbliche al soggetto in stato di bisogno. Le considerazioni sulla valorizzazione costituzionale del lavoro devono essere integrate alla luce di una più ampia lettura del testo della Carta (v. sub parr. 2 e 3).
2. La serietà dell’art. 38 Cost.
L’art. 38 Cost. rappresenta in ogni caso il referente normativo prossimo da cui muovere la riflessione, perché segna i limiti e i presupposti di intervento del sistema assistenziale e di quello previdenziale. Pur tacendo sui concreti modelli di assistenza e previdenza, rimessi alla discrezionalità del legislatore nel limite della ragionevolezza, e alla luce dei vincoli di bilancio ex art. 81 Cost., resta il rigore della norma in ordine ai presupposti legittimanti l’intervento dell’assistenza pubblica: l’incapacità al lavoro e lo stato di grave deprivazione materiale operano infatti congiuntamente. Il che è coerente con il disposto del comma successivo, il quale garantisce provvidenze più sostanziose (legate alle “esigenze di vita” e non limitate al mero “mantenimento”, ma senza raggiungere il livello della “esistenza libera e dignitosa” per sé e la famiglia ex art. 36 Cost.), non al cittadino in quanto tale, ma al lavoratore, attraverso il sistema previdenziale su base essenzialmente assicurativa.
Pertanto, i tentativi di volgere la copulativa “e” del primo comma in una disgiuntiva – come se i requisiti consistessero nell’inabilità al lavoro “o”, in alternativa, nella carenza dei mezzi necessari per vivere – lasciano perplessi non solo dal punto di vista letterale, ma anche da quello sistematico. Tale interpretazione avrebbe poi l’effetto, sicuramente irragionevole, di includere nell’intervento assistenziale il soggetto solo in quanto inabile, seppure economicamente autosufficiente, ad es. perché dotato di rendite patrimoniali o per l’agiatezza del nucleo familiare. Fine della norma è invece di soccorrere lo stato di indigenza cui la persona, da sola, non possa oggettivamente porre rimedio, perché incolpevolmente incapace di produrre reddito .
In effetti, è impossibile separare l’art. 38 dal complesso delle disposizioni che esprimono il favor della Costituzione per la promozione e la tutela del lavoro, a partire dai fondamentali riferimenti di cui agli artt. 1, 3, c. 2, e 4, senza trascurare l’elemento solidaristico insito nella stessa attività lavorativa, implicito nell’art. 2 e nell’art. 39, c. 1 .
Per superare il doppio vincolo dell’art. 38, c. 1, e così ammettere l’erogazione assistenziale sulla base del solo stato di bisogno materiale, vengono offerte anzitutto considerazioni di fatto, che non sembrano però scalfire la chiarezza del disposto normativo e la coerenza dell’impianto costituzionale. Si muove così dall’osservazione della persistenza di allarmanti dati di disoccupazione, inoccupazione e, persino, indifferenza rispetto all’ingresso nel mercato del lavoro, che affligge particolarmente l’Italia tra i Paesi dell’Unione, soprattutto con riguardo ai giovani. Si sottolinea, altresì, che tali dati, seppure in misura diversa nel corso dei decenni, sono una costante della Repubblica, per cui il Paese soffre di un quantitativo di disoccupazione strutturale che appare invincibile . Si evidenzia che gli effetti delle riforme di politica attiva del lavoro sono scarni o futuribili .
Se ciò è vero, si afferma, deve prendersi atto che, a settant’anni dall’entrata in vigore della Costituzione, la promessa di lavoro, e della conseguente liberazione dalla povertà, è rimasta irrealizzata, e che l’effettività del diritto ex art. 4, c. 1, Cost. è definitivamente smentita dalla storia contemporanea. La Repubblica, pertanto, dovrebbe ritenersi oggettivamente inadempiente rispetto alla promozione delle condizioni atte a garantire alla generalità dei consociati la possibilità di svolgere un’attività produttiva di reddito, mentre la capacità degli Stati di operare in tal senso è largamente condizionata da dinamiche non dominabili a livello nazionale. Da ultimo, si osserva come la povertà sussista crescentemente anche per chi è titolare di un rapporto di lavoro, ad es. quando questo sia saltuario o scarsamente remunerato o sia di fatto insufficiente a sostenere le esigenze del nucleo familiare, particolarmente se monoreddito .
Tuttavia, si sostiene, la mancanza di lavoro non elide l’ontologica dignità della persona umana e costringe a individuare nel testo costituzionale altre risorse normative legittimanti l’intervento pubblico a soccorso della povertà. Da un lato, si potrebbe interpretare l’inabilità al lavoro ex art. 38, c. 1, quale impossibilità di accesso al mercato del lavoro ; da un altro, considerare l’art. 38 alla luce degli sviluppi del diritto sovranazionale, tenendo conto ad es. dell’art. 34 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione ; da un altro ancora, potrebbe ricavarsi, anche dal combinato disposto di norme quali gli artt. 2, 3, c. 2, e 36, il diritto fondamentale di ogni persona a una esistenza libera e dignitosa .
Questi argomenti sono indotti perlopiù, a ben vedere, dall’assunto principale, per cui lo stock di disoccupazione strutturale è tale da dover ritenere superata l’aspettativa costituzionale al lavoro e bisognoso di interpretazioni innovative il testo della Carta. Ma ciò è da escludere.
Si dovrebbe infatti ammettere un’efficacia abrogatrice dei principi fondamentali, strutturanti l’ordinamento costituzionale, ad opera di elementi meramente fattuali. La delusione per la mancata realizzazione del disegno del costituente dimentica che il tenore “ambizioso” dei relativi principi implica, quasi necessariamente, il loro carattere inesausto. Così, il principio di eguaglianza sostanziale non perde il carattere cogente solo per i difetti in concreto della giustizia redistributiva.
Analogamente, il lavoro, bene irrinunciabile della persona ed elemento di principio indefettibile della sua dignità, non può cessare di essere promosso con l’impegno corrispondente all’importanza dei principi costituzionali che lo evocano. Questi, del resto, sarebbero sviliti se fosse regolarmente indennizzato uno stato di bisogno in assenza di incapacità al lavoro; se fossero impiegate in tal senso risorse pubbliche, destinabili a promuovere l’occupazione (mediante sgravi fiscali e contributivi, iniziative di formazione, potenziamento dei servizi per l’impiego) ; e, guardando alle pratiche conseguenze degli istituti, qualora una forma di reddito universale sortisse effetti dissuasivi dalla ricerca di lavoro, così aggravando, peraltro, il rischio detto della “trappola della povertà” . Tale punto è particolarmente delicato, se si considera che il reddito minimo, oltre una certa soglia, potrebbe persino entrare in conflitto con il principio della retribuzione sufficiente ex art. 36 Cost., ancora affidata alle determinazioni della contrattazione collettiva.
Semmai, una via alla legittimità del reddito minimo, per quanto stretta, potrebbe essere offerta, a certe condizioni, dal riferimento dell’art. 38, c. 2, alla disoccupazione involontaria. Nella terminologia corrente, disoccupato è il prestatore già titolare di un rapporto di lavoro subordinato o parasubordinato, che sia stato sufficientemente assicurato contro il rischio della perdita del posto. Tuttavia, se si ammette che il legislatore abbia discrezionalità nelle tecniche di implementazione del sistema assicurativo ; e se si concede, come sinora si è fatto, che detto sistema, essenzialmente basato sulla contribuzione delle forze produttive e dunque sulla solidarietà interna alla categoria, possa essere corretto dalla solidarietà generale senza mutarne l’impianto , allora non è impossibile immaginare uno strumento rivolto sia ai disoccupati di lunga durata (si pensi all’istituto, ormai abrogato, dell’Asdi ), sia a soggetti inoccupati, ma disponibili al lavoro e dunque, in senso lato, disoccupati involontari.
La deviazione da detto impianto dovrebbe tuttavia pur sempre essere orientata al principio lavorista. Occorrerebbe, cioè, adottare tecniche non dissuasive e anzi promozionali del reperimento di una occupazione, come quelle già previste dalla legislazione attuale: un importo del trattamento decrescente nel tempo e, come detto, non disincentivante il lavoro né in conflitto con l’art 36 Cost.; un periodo limitato, che potrebbe tenere conto della media statistica del tempo necessario a reperire un lavoro nel territorio considerato, senza comunque essere equiparato, per gli inoccupati, ai soggetti disoccupati; una ragionevole condizionalità, che tenga conto del patrimonio di conoscenze ed esperienze del soggetto assistito. Ovviamente, la contaminazione assistenziale del sistema dovrebbe pur sempre basarsi sulla sussistenza di uno stato di bisogno (cioè la carenza dei “mezzi necessari per vivere”, ex art. 38, c. 1, Cost.).
Come si può notare, si tratta, sul piano costituzionale, di una via stretta e che in ogni caso sconta problemi pratici di non poco momento, tra cui il costo amministrativo dell’accertamento dello stato di bisogno ; la persistente, generale incapacità dei centri per l’impiego di progettare efficaci percorsi individuali di inserimento professionale; senza contare il rischio di alimentare il lavoro sommerso . Ciò, unito alle ingenti risorse necessarie per finanziare l’emolumento periodico alla persona spiega perché, comprensibilmente, il reddito di base continui ad essere oggetto di dibattito politico.
Sarebbe comunque sbagliato sostenere che la Costituzione italiana incentri esclusivamente sul principio lavorista il contrasto alla povertà e all’esclusione sociale. Sebbene esso sia il perno fondamentale, altre disposizioni impegnano legislatore e pubbliche amministrazioni – oggi in una prospettiva sussidiaria anche orizzontale ex art. 118, c. 4, Cost. – a soddisfare bisogni specifici della persona. Si potrebbe al più sostenere che la Carta orienti il sistema, più che sul reddito minimo garantito, verso l’individuazione di beni primari da garantire.
A ben vedere, si tratta di una prospettiva ancora attuale, posto che pure il legislatore contemporaneo, da un lato, si è dovuto porre il problema di scongiurare l’utilizzo improprio della prestazione assistenziale, vietando l’acquisto di beni sconvenienti ; da un altro, conscio del carattere multidimensionale della povertà, ha dovuto congegnare un complesso di interventi che coinvolgano le relazioni della persona in stato di bisogno, includendo i familiari nella verifica dei requisiti, nel calcolo delle prestazioni, nella redazione dei progetti di inclusione.
Così, occorre ricordare che la Repubblica “garantisce cure gratuite agli indigenti” (art. 32, c. 1, Cost.); che “i capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi e “la Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso” (art. 34, cc. 3 e 4). Inoltre, oltre alla garanzia di servizi per l’impiego (arg. ex art. 4, c. 1, Cost.), occorre assicurare l’“avviamento al lavoro” delle persone disabili (art. 38, c. 3), così come “ai non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione” (art. 24, c. 3). Altre disposizioni, ancora, potrebbero richiamarsi: si pensi all’accesso di tutti alla proprietà privata (art. 42, c. 2), alla tutela del risparmio (art. 47, c. 1), al diritto all’abitazione (art. 47, c. 2).
Nella medesima ottica di protezione dalla povertà e dall’esclusione sociale vanno lette le norme che valorizzano le relazioni fondamentali e di prossimità, quali quelle inerenti alla famiglia, alle confessioni religiose, alla libertà associativa e a tutte le formazioni sociali in cui si esercitano i “doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale” (art. 2 Cost.).
3. Il reddito minimo garantito nel diritto dell’Unione europea.
La legittimità costituzionale del reddito minimo garantito sembrerebbe avvalorata, nella concezione dominante nel dibattito, dal diritto dell’Unione europea. La Carta dei diritti fondamentali, al terzo paragrafo dell’art. 34, sancisce che “l’Unione riconosce e rispetta il diritto all’assistenza sociale e all’assistenza abitativa”, e questo “al fine di lottare contro l’esclusione sociale e la povertà”, in modo da “garantire un’esistenza dignitosa a tutti coloro che non dispongano di risorse sufficienti” . La posizione nell’ultimo paragrafo sottolinea il diritto, quantomeno, a una rete finale o di base di protezione, una volta fallito il sistema di sicurezza sociale di cui ai due precedenti commi.
Inoltre, la sicurezza sociale è tra le materie (cfr. art. 153, c. 1, lett. c), Tfue) che possono formare oggetto di armonizzazione, nel rispetto del principio di sussidiarietà, anche con direttive, previa deliberazione all’unanimità nel Consiglio dell’Unione europea. Vista la gravosità del quorum, si potrebbe ipotizzare che il reddito di base sia riconducibile (pure) alla materia della “integrazione delle persone escluse dal mercato del lavoro” (lett. h) o della “lotta contro l’esclusione sociale” (lett. j) , per la quale si esperisce la procedura legislativa ordinaria. Per sé, queste seconde ipotesi sembrerebbero letteralmente preferibili, se si considera che la lett. c) cita, oltre alla sicurezza, la protezione sociale “dei lavoratori”. Solo che, privilegiando la competenza di cui alle lett. h) e j), diverrebbe più facile legiferare su di un tema il cui fondamento teorico è più controverso rispetto alla materia della sicurezza sociale. Ora, a prescindere dal dilemma qualificatorio, va osservato che una iniziativa legislativa sul tema, sebbene auspicata , non è stata ancora intrapresa.
In difetto dell’esercizio di competenze con atti di diritto derivato, è da verificare se possano farsi discendere effetti giuridici cogenti direttamente dall’art. 34 della Carta. Secondo l’opinione prevalente, tale soluzione dovrebbe escludersi. Anzitutto, per il par. 3 il diritto all’assistenza è riconosciuto “secondo le modalità stabilite dal diritto dell’Unione e le legislazioni e prassi nazionali”. Si tratta di una clausola che ricorre in varie disposizioni sociali (tra cui lo stesso par. 1, in riferimento al diritto di accesso alle prestazioni di sicurezza sociale) e che deve leggersi in combinato disposto con il par. 1 dell’art. 51, per il quale “le disposizioni della presente Carta si applicano alle istituzioni, organi e organismi dell’Unione nel rispetto del principio di sussidiarietà, come pure agli Stati membri esclusivamente nell’attuazione del diritto dell’Unione”. Il che significa come, in assenza di norme attuative da parte degli organi dell’Unione titolari del potere legislativo, dall’art. 34 non possano scaturire vincoli normativi per gli Stati membri , ferma restando la possibilità di adottare la Carta come parametro interpretativo del diritto interno, compreso quello costituzionale.
Resterebbe da interrogarsi, semmai, se la condizione della “attuazione del diritto dell’Unione” sia verificata, in assenza di atti precettivi, da atti di soft law, come raccomandazioni e orientamenti. Ma anche tale soluzione non è plausibile se solo si considera che, per tale via, il soft law cesserebbe di essere tale, traducendosi in diritto vincolante.
Al di là di ciò, non sembra nemmeno più necessario far ricorso né al diritto dei Trattati né a quello derivato, perché con il metodo aperto di coordinamento in materia di contrasto all’esclusione sociale – dunque, mediante atti di soft law – l’Unione europea da un lato ha annoverato il reddito minimo tra gli istituti componenti il c.d. Pilastro europeo dei diritti sociali ; dall’altro ha sortito l’effetto di indurre gli Stati membri a introdurre misure, per quanto diversificate, di garanzia del reddito. Il che conferma, qualora ve ne fosse bisogno, alla luce degli esiti della Strategia europea per l’occupazione, l’alta (talora, irresistibile) capacità di persuasione del soft law .
Sarebbe però un errore ritenere che ciò derivi solamente dal prestigio e, se si vuole, dalla insistenza delle istituzioni europee. A ben vedere, l’effettività delle raccomandazioni ai singoli Paesi membri si ricollega pur sempre a una potestà di hard law, quella in materia di politiche economiche . Qui, infatti, gli organi dell’Unione dispongono di strumenti coercitivi che possono dar luogo, per il caso di violazione, a procedure di infrazione, passibili di concludersi con sanzioni economiche.
Il condizionamento dell’autonomia degli Stati, pur garantita dal Trattato, è perciò significativo. E v’è da chiedersi, in ultima istanza, se attraverso il soft law le limitazioni di competenza dell’Unione europea non siano aggirate, con buona pace anche del principio di sussidiarietà. Non resterebbe che verificare – si tratta evidentemente di una extrema ratio – se l’ordinamento italiano, a fronte della sostanziale imposizione di una misura di reddito universale, non possa opporre i controlimiti rappresentati dai principi che compongono la struttura fondamentale dell’ordinamento costituzionale interno, tra cui il principio lavorista.
Questa eventualità – certamente sovranista, perché si tratterebbe, in fondo, di riaffermare il principio di cui all’art. 1 Cost. – sembrerebbe però almeno parzialmente sdrammatizzata proprio dai recenti atti di soft law degli organi unieuropei. Anzitutto, il Pilastro europeo dei diritti sociali sancisce, al n. 14, in tema di “reddito minimo”, che “chiunque non disponga di risorse sufficienti ha diritto a un adeguato reddito minimo che garantisca una vita dignitosa in tutte le fasi della vita e l’accesso a beni e servizi”. Specificando, significativamente, che “per chi può lavorare, il reddito minimo dovrebbe essere combinato con incentivi alla (re)integrazione nel mercato del lavoro”.
Nella sua più recente, citata raccomandazione , il Consiglio dell’Unione europea assume, poi, un modello di reddito minimo fortemente condizionato ed integrato da servizi di supporto alla persona, mirando “a combattere la povertà e l’esclusione sociale e a perseguire livelli elevati di occupazione, promuovendo un adeguato sostegno al reddito, in particolare mediante un reddito minimo, e un accesso effettivo ai servizi abilitanti ed essenziali per le persone che non dispongono di risorse sufficienti e favorendo l’integrazione nel mercato del lavoro di chi può lavorare, in linea con l’approccio di inclusione attiva” (considerando 1). Di più, condivisibilmente osserva che “un’occupazione sostenibile e di qualità è il modo migliore per uscire dalla povertà e dall’esclusione sociale. Al tempo stesso, garantendo la presenza di un maggior numero di persone sul mercato del lavoro si concorre al finanziamento dei sistemi di protezione sociale e se ne migliora la sostenibilità finanziaria, contribuendo così all’equità intergenerazionale e promuovendo la coesione sociale. Al fine di conseguire livelli occupazionali più elevati è di fondamentale importanza fornire sostegno alle persone per la riuscita delle transizioni nel mercato del lavoro” (considerando 12).
Occorre infatti distintamente considerare, tra i beneficiari, coloro che sono in grado di lavorare, per i quali “solide reti di sicurezza sociale devono agevolare la (re)integrazione nel mercato del lavoro attraverso misure di sostegno specifiche, che associno misure attive per il mercato del lavoro, il sostegno alla ricerca di un impiego, l’istruzione e la formazione” (considerando 15). Ancora, “per chi può lavorare, il reddito minimo dovrebbe comprendere incentivi adeguati e una condizionalità personalizzata e proporzionata alla (re)integrazione nel mercato del lavoro. Al tempo stesso, il reddito minimo dovrebbe essere concepito in combinazione con incentivi al lavoro onde evitare effetti di isteresi nel mercato del lavoro” (considerando 17).
Di più, la raccomandazione considera gli effetti di “dipendenza” dal reddito, per fronteggiare i quali le misure di attivazione dovrebbero essere “particolarmente incisive”. Nemmeno mancano, per conseguire gli obiettivi di contrasto all’esclusione sociale, riferimenti all’utilità del lavoro nell’economia sociale e alla collaborazione con gli enti della società civile (v. ad es. considerando 28 e 32).
In coerenza con tali affermazioni, si raccomanda tra l’altro “la possibilità di combinare il sostegno al reddito con i redditi da lavoro, un’eliminazione graduale del sostegno al reddito o il mantenimento del diritto di ricevere il sostegno al reddito durante il lavoro di breve durata o sporadico, i periodi di prova e i tirocini” (punto 11).
4. Reddito di cittadinanza e Assegno di inclusione al vaglio dei principi costituzionali ed europei.
Il reddito minimo garantito, nell’ordinamento italiano, ha conosciuto, nel tempo, diverse discipline e di diverso segno: alcune di carattere sperimentale, altre emergenziali (particolarmente nel periodo pandemico), senza contare quelle di fonte regionale . La prima normativa organica ha avuto vita breve, per essere stata soppiantata, al cambio di maggioranza politica, dal c.d. reddito di cittadinanza (RdC), di cui al d.l. n. 4/2019, conv. dalla l. n. 26/2019, diversamente strutturato, oltre che più consistentemente finanziato. Al di là del nome, non v’è dubbio che pure quest’ultimo non costituisse una forma di reddito di base, bensì di reddito minimo garantito .
L’ulteriore avvicendamento governativo ne ha determinato a sua volta la soppressione, attraverso l’introduzione di due strumenti concepiti come complementari: l’Assegno di inclusione (AdI), succedaneo del RdC, e il Supporto per la formazione e il lavoro (SFL), entrambi disciplinati dal d.l. n. 48/2023, convertito dalla l. n. 85/2023. In questa sede, ci si limita a sottolineare alcune tra le principali differenze della nuova disciplina al confronto con quella pregressa , nella prospettiva dei valori costituzionali e unieuropei richiamati.
Un significativo mutamento attiene ai requisiti soggettivi di accesso al beneficio dell’AdI . L’intento del legislatore è infatti di distinguere i profili più probabilmente occupabili – cui destinare, ricorrendone le condizioni, il SFL – da quelli con maggiori difficoltà di accesso al mercato del lavoro, perciò bisognosi del trattamento assistenziale. A tal proposito, il beneficiario deve appartenere a un nucleo familiare che includa, alternativamente, un minorenne, un soggetto almeno sessantenne, un portatore di disabilità o un componente “in condizione di svantaggio” e inserito “in programmi di cura e assistenza dei servizi socio-sanitari territoriali certificati dalla pubblica amministrazione”. È stato poi rivisto il requisito della residenza sul territorio italiano, diminuito da dieci a cinque anni, al fine di ottemperare ai rilievi della Commissione europea, di cui alla procedura di infrazione aperta con riguardo al RdC .
Vero, dunque, che si è intenzionalmente ridotta la platea dei potenziali aventi diritto, anche se occorre tenere conto di coloro che potrebbero beneficiare dell’intervento del SFL e, appunto, del maggior numero di stranieri che potranno avvalersi, d’ora in avanti, di un più mite requisito di residenza.
Qualche variazione, rispetto al RdC, investe pure i requisiti oggettivi: immutato il valore massimo dell’ISEE (non eccedente € 9.360 annui) e il limite reddituale familiare (€ 6.000 annui, moltiplicato per la scala di equivalenza), una novità consiste nella franchigia accordata nel caso di reperimento di una occupazione nel periodo di godimento dell’AdI, quale incentivo al reperimento di un lavoro. È infatti previsto che, sino a € 3.000 lordi annui, il reddito da lavoro non incida sul calcolo dell’assegno .
Luci e ombre involgono la revisione della scala di equivalenza, per la ponderazione del quantum del trattamento in relazione alla composizione del nucleo familiare. Da un lato, si è condivisibilmente aumentato, seppur lievemente, il valore massimo, incrementato di un decimale. Un peso particolare assume la presenza nel nucleo di persone disabili, anziane e con carichi di cura. Inopportuna appare invece la scarsa rilevanza attribuita ai figli minorenni, a fronte del fatto che, come noto, le famiglie a maggior rischio di povertà sono quelle più numerose e con persone in età scolare . Più in generale, è comunque complesso stabilire a priori se gli importi dell’AdI saranno mediamente superiori o inferiori al RdC, perché, appunto, differiscono i rispettivi regimi delle scale di equivalenza.
Una più rigorosa condizionalità è pure elemento di novità dell’assegno. Si pensi all’inasprimento dell’offerta di lavoro “congrua”, implicante l’onere di accettazione da parte del percettore al fine di conservare il trattamento: nel nuovo regime , la prima offerta di lavoro subordinato a tempo indeterminato è da considerarsi adeguata su tutto il territorio nazionale, mentre quella per un rapporto a tempo determinato non presenta più limiti minimi di durata. D’altro canto, rispetto al RdC, l’obbligo di attivazione ai fini dell’adempimento dell’obbligo scolastico è esteso ai soggetti con età tra diciotto e ventinove anni .
Si è poi criticamente rilevato come, nella disciplina attuale, ai fini dell’offerta “congrua” non sia più previsto il requisito di compatibilità con le competenze e le esperienze dell’assistito . In realtà, è da ritenere come tale condizione resti immanente al sistema di progettazione dei percorsi di inclusione e, anzi, simile esigenza sia alla base del nuovo Sistema informativo per l’inclusione sociale e lavorativa, finalizzato alla condivisione più ampia di informazioni, da parte di soggetti pubblici e privati, per l’individuazione delle occasioni formative e occupazionali più adatte alle caratteristiche del singolo .
A tal proposito, un più deciso coinvolgimento del privato e del privato-sociale costituisce ulteriore fattore distintivo dell’AdI rispetto al RdC. Si consideri, ad esempio, come il Patto di servizio personalizzato possa stipularsi anche presso i soggetti privati accreditati secondo le discipline regionali . Il Terzo Settore, poi, è ora organicamente coinvolto nel sistema: nell’ideazione dei percorsi di inclusione, infatti, è richiesto ai servizi territoriale di consultarne i protagonisti ; l’attività di volontariato è contemplata nei percorsi medesimi ; incentivi sono stati introdotti per gli Enti del Terzo Settore che svolgano attività di intermediazione favorendo l’instaurazione di rapporti di lavoro .
Il SFL è invece misura attribuita al singolo, e non al nucleo, ed è destinato a soggetti, di età compresa tra diciotto e cinquantanove anni, appartenenti a nuclei privi dei requisiti di accesso all’AdI. Seppure i requisiti soggettivi e oggettivi siano ricalcati su quest’ultimo, il SFL consiste più limitatamente in un contributo di € 350 mensili per dodici mesi (non rinnovabile), erogati a fronte della partecipazione ad iniziative di “formazione, di qualificazione e riqualificazione professionale, di orientamento, di accompagnamento al lavoro e di politiche attive del lavoro comunque denominate”. Tra le misure attivabili, si annoverano il programma GOL, il servizio civile universale e i progetti di utilità collettiva.
Seppure non sia ancora possibile una valutazione degli effetti delle nuove misure, recentemente promulgate, sul piano formale si può sostenere che la combinazione dell’AdI e del SFL soddisfi meglio il principio lavorista . D’altro canto, la più ridotta platea di beneficiari dell’intervento assistenziale si fonda su di una nuova scommessa di lavoro, con la destinazione di risorse pubbliche anche al taglio del cuneo fiscale e a sgravi contributivi per le assunzioni.
Il più evidente coinvolgimento dei privati, con il ruolo assegnato ai soggetti privati accreditati e agli enti del Terzo Settore, e la maggiore enfasi sul lavoro “non di mercato” orientano meglio il sistema al principio di sussidiarietà orizzontale, centrale nelle strategie di contrasto alla povertà e all’esclusione sociale.