1. Premessa: la disciplina “emergenziale” del lavoro agile.
La normativa emergenziale e la prassi amministrativa hanno avviato una sperimentazione forzata, massiva e semplificata del lavoro agile (in deroga, temporanea, alla legge n. 81/2017) , nel settore privato e pubblico, per finalità di prevenzione e/o di contenimento del contagio da Covid-19 e, parimenti, di continuità dell’attività economica.
Le deroghe fanno emergere un modello diverso di agilità caratterizzato da un accesso unilaterale, con la determinazione da parte del datore dell’an, del quantum e del quomodo (per il privato: art. 90, d.l. n. 34/2020; per il pubblico: art. 87, d.l. n. 18/2020) e, di fatto, senza la necessità/possibilità di alternanza dentro e fuori i locali aziendali
Nelle fasi più critiche della pandemia, la normativa emergenziale ha elevato il lavoro agile a principale strumento di «prevenzione» per ridurre l’esposizione al rischio di contagio Covid-19, con una differenziazione/arricchimento rispetto agli scopi originari dello strumento di conciliazione e produttività di cui alla legge n. 81/2107, con un impatto anche di tipo ambientale e socio-territoriale, addirittura in un’ottica di ripopolamento, specie delle c.d. “aree interne”.
Dato il nostro oggetto di indagine (la categoria dei lavoratori fragili e le loro opportunità di lavoro agile), il focus normativo è rivolto principalmente all’intreccio fra i commi 2 e 2-bis dell’art. 26, d.l. n. 18/2020 (conv., con modd., in l. n. 27/2020, c.d. “Cura Italia”) e successive modifiche e proroghe, con la consapevolezza che l’approccio al tema è multidimensionale allorché esso intercetta, in primis, i principi di non discriminazione basati sull’handicap e di pari opportunità, spesso in una prospettiva intersezionale.
2. La tormentata emersione dei “fragili”.
Nel corso della pandemia, il legislatore, prevede una serie variegata di tutele (normative ed economiche), di natura eccezionale, a favore di una nuova categoria definitoria di “lavoratori fragili”, cioè di soggetti che oppongono scarsa resistenza al male e che quindi sono più vulnerabili. In pratica, la fragilità è riferita a quelle condizioni di salute in presenza delle quali la persona del lavoratore necessita di una maggior tutela in relazione a uno specifico fattore di rischio soggettivo: il contagio da Covid-19, con i suoi pesanti risvolti negativi (come precisato dalla circ. intermin. n. 13 del 4 settembre 2020).
Il legislatore emergenziale, innovando rispetto alla neutralità della legge n. 81/2017, disciplina una serie di casi particolari di favor per il lavoro agile per talune categorie di soggetti in particolari condizioni di “fragilità”, purtroppo diffuse, ma spesso dimenticate, se non a rischio discriminazioni.
In virtù del comma 2 dall’art. 26, d.l. n. 18/2020, la categoria dei fragili include i seguenti “dipendenti pubblici e privati” (nonostante la rubrica menzioni solo i secondi) : a) “i lavoratori in possesso del riconoscimento di disabilità, con connotazione di gravità”, ai sensi dell’art. 3 comma 3, l. n. 104/1992; b) i dipendenti “in possesso di certificazione rilasciata dai competenti organi medico-legali” attestante una “condizione di rischio derivante da immunodepressione”; c) ovvero “da esiti da patologie oncologiche”; d) o dallo “svolgimento di relative terapie salvavita”.
A esse, va aggiunta altresì la figura dei genitori lavoratori con “almeno un figlio in condizioni di disabilità grave” (ex l. n. 104/1992) o “con bisogni educativi speciali”. In questa ipotesi, soltanto per il dipendente privato è previsto “il diritto a svolgere la prestazione di lavoro in modalità agile” (a patto che l’attività lavorativa del genitore richiedente non abbisogni necessariamente della presenza fisica e che anche l’altro genitore sia un lavoratore), mentre il dipendente pubblico, “salva la disciplina dei contratti collettivi nazionali”, ha soltanto un “titolo prioritario per l’accesso al lavoro agile” (art. 5-ter, d.l. n. 1/2022, conv. con. modd. in l. n. 18/2022 “Lavoro agile per i genitori di figli con disabilità”).
Da ultimo, nel tentativo di semplificare la mappatura dei fragili, la situazione si è ulteriormente ingarbugliata. L’art. 17, d.l. n. 221/2021 (conv., con modd., in l. n. 11/2022) – nel prorogare il comma 2 e 2-bis dell’art. 26, d.l. n. 18/2020 (commi 1 e 3-bis) – ha rinviato a un decreto il delicato compito di “individuare le patologie croniche con scarso compenso clinico e con particolare connotazione di gravità, in presenza delle quali ricorre la condizione di fragilità” (comma 2).
Il decreto interministeriale (Ministri della Salute, Lavoro e Pubblica Amministrazione) è arrivato il 4 febbraio 2022 e ha proceduto a individuare – per dipendenti privati e pubblici – le condizioni di fragilità “in presenza delle quali (…) la prestazione lavorativa è normalmente svolta in modalità agile”, con differenze rispetto a quello del cit. comma 2 dell’art. 26, d.l. n. 18/2020 e ha affidato la previa idonea certificazione al medico di famiglia (e non più ai “competenti organi medico-legali”). Con l’emanazione del decreto si passa dal precedente concetto di “lavoratori fragili” (ex art. 26, d.l. n. 18/2020) alla nuova “condizione di fragilità” che risulta indifferente alla collocazione del lavoratore nel settore privato o pubblico.
Il decreto “patologie croniche” prevede due gruppi di soggetti in condizioni di fragilità. A) Il primo, “indipendentemente dallo stato vaccinale”, ricomprende i «pazienti con marcata compromissione della risposta immunitaria» (ad es.: per trapianto, attesa di trapianto, patologia oncologica entro sei mesi dalla sospensione delle cure, etc.) e i pazienti che presentino “tre o più delle condizioni patologiche” individuate nello stesso decreto (ad es.: cardiopatia ischemica, ictus, obesità, etc.). B) Nel secondo gruppo rientrano, invece, i soggetti che, al contempo, siano “esenti dalla vaccinazione per motivi sanitari” e abbiamo almeno una delle seguenti condizioni: “età superiore a 60 anni” o le condizioni di elevata fragilità ai fini della “dose booster” di vaccino anti-virus .
Dall’intreccio tra il d.l. 221/2021, il decreto “patologie croniche” e i mess. Inps nn. 679 e 1126 del 2022 sulle tutele previdenziali deriva l’impressione del solito adagio per cui è “tutto a posto e niente in ordine”. Resta, infatti, il dubbio circa l’individuazione delle fragilità: inclusive soltanto delle patologie del nuovo elenco ovvero ad esse si aggiungono (con qualche sovrapposizione) quelle descritte dall’art. 26, comma 2, d.l. n. 18/2020 ? Ed ancora le condizioni di fragilità valgono soltanto durante l’emergenza o anche oltre ?
Il patchwork di norme pandemiche alimenta l’urgente necessità di fare chiarezza sia sull’individuazione dei soggetti protetti sia sulla permanenza o meno delle tutele dopo la fine dello stato di emergenza e delle sue code. Il decreto 4 febbraio 2022 appare formalmente destinato ad un periodo di operatività assai limitato. Sarà così o il decreto è stato confezionato in vista di una sorta di “normalizzazione” (senza ulteriori limiti temporali), dell’individuazione della condizione di fragilità? A mio parere, sarebbe opportuno che l’emersione giuridica della fragilità non evapori tout court assieme allo stato (formale) di emergenza sanitaria.
3. La tutela: il “diritto” al lavoro agile.
Il fil rouge che tiene assieme le diverse ipotesi di fragilità è dato dalla comune agevolazione dell’accesso al lavoro agile pandemico, quale strumento di prevenzione (per sé o i figli disabili) del rischio di contrarre il virus. La promozione del lavoro agile per i lavoratori fragili seppur potrebbe essere ricondotta al macro-obiettivo di agevolare la conciliazione delle esigenze di vita e di lavoro, aggiunge a questo scopo un di più dato dalla sua funzione di protezione e soprattutto di inclusione socio-lavorativa delle diversità. In tale ottica, la promozione dell’agilità per i soggetti vulnerabili dovrebbe resistere oltre l’emergenza quale declinazione dell’effettività del loro diritto al lavoro.
Il lavoro agile diviene uno strumento poliedrico che consente di soddisfare interessi diversi; seppur con la consapevolezza che tale strumento può essere usato in modo ambivalente: di fatto, può agevolare sia l'inclusione, sia l'esclusione dei lavoratori. E ancora, lo svolgimento di lavoro agile, nel periodo pandemico, può agevolare l’elusione della legge (per es., se occulto, con l’illecito utilizzo della CIG), oppure può costituire una vera e propria risorsa (per es. se usato al posto dei periodi di interdizione anticipata o post partum per le lavoratrici madri che svolgono lavori pericolosi o insalubri, ex d. lgs. n. 151/2001, con il vantaggio per la lavoratrice di percepire l’intera retribuzione).
Ciò premesso, procedo con la rassegna delle ipotesi di agevolazioni legali del lavoro agile tutt’ora vigenti . La norma di riferimento principale è il comma 2 bis dell’art. 26, d.l. n. 18/2020 , in virtù del quale i lavoratori, pubblici e privati, “fragili” “svolgono di norma la prestazione lavorativa in modalità agile” .
Nel modello emergenziale, la previsione è accolta come la legittimazione di un vero e proprio diritto dei fragili all’agilità. Solo che, ancor prima di mostrarsi, il diritto svela la sua esilità: il comma 2 dello stesso art. 26 premette che ci sono casi in cui la prestazione lavorativa non può “essere resa in modalità agile” riconoscendo – nello stesso comma – “un periodo di assenza dal servizio”, equiparato “al ricovero ospedaliero” e con l’esclusione del periodo di assenza dal computo del periodo di comporto.
Per effetto degli incastri (pasticciati) delle proroghe dei due commi dell’art. 26, in diversi momenti, i lavoratori fragili impossibilitati a lavorare da casa – “situazione che riguarda oltre 3/4 degli impieghi” – si sono ritrovati dinanzi alla tragica opzione tra rimanere scoperti sul fronte delle tutele economiche o “recarsi comunque al lavoro per non perdere la retribuzione” .
Inoltre, la prevista “normalità” dell’agilità dei lavoratori fragili può riscontrare difficoltà a livello applicativo dato che il lavoro a distanza non è per tutti, in quanto fruibile da coloro che svolgono mansioni compatibili con le attività da remoto. Basti considerare che alcune attività lavorative possono risultare “remotizzabili” in astratto, ma non in concreto nello specifico contesto (lavorativo o familiare) o lavoratore: per es., in assenza di strumenti digitali o di formazione digitale, in presenza di un collegamento di rete instabile o banalmente in mancanza della firma digitale o della resistenza psicologica del datore verso la modalità agile o del lavoratore al suo utilizzo; oppure, al contrario, in caso di necessità di un lavoro integralmente agile, senza alternanza in azienda.
Da qui l’importanza di una valutazione delle caratteristiche del candidato, di un’analisi (ed eventuale riconfigurazione) del posto di lavoro (interno ed esterno) e della progressiva implementazione di buone pratiche anche in quanto, per effetto dell’accelerazione delle innovazioni digitali, è prevedibile (come segnala la reportistica nazionale) un rapido cambio di passo, cioè un ampliamento della platea dei lavori e dei lavoratori agili.
Dopo aver mostrato l’intima gracilità del diritto del lavoratore alla modalità agile, lo stesso art. 26 (ma nel successivo comma 2 bis) lo rinforza con una dose di flessibilità, declinata pro-lavoratore, distillata dalla versione novellata dello jus variandi (art. 2103 c.c., come modd. dall’art. 3, d. lgs. n. 81/2015), allo scopo di rafforzare la compatibilità delle mansioni con l’agilità.
La richiesta del lavoratore fragile di uno svolgimento della prestazione in modalità agile deve essere soddisfatta dal datore verificando maggiori opzioni organizzative vuoi “anche” attraverso la sua adibizione “a diversa mansione ricompresa nella medesima categoria” (operaio, impiegato, quadro o dirigente) “o area di inquadramento, come definite dai contratti collettivi vigenti”, vuoi “con lo svolgimento di specifiche attività di formazione professionale anche da remoto” (art. 26, comma 2 bis).
Nella fase di emergenza, il legislatore suggerisce una soluzione organizzativa che configura una sorta di repêchage dell’agilità lavorativa o formativa da cui deriva un opportuno ampliamento della c.d. “smartabilità” della prestazione lavorativa. Allo stesso modo, appare adeguata la previsione legale del diritto alla formazione, anche a distanza, per lavoratori, come questi, che, spesso, presentano una minore scolarizzazione, bassi profili professionali e una maggiore fragilità anche contrattuale e occupazionale.
Previsioni opportune, ma purtroppo non sufficienti. La discordanza tra norme ed esperienza applicativa si evince il ruolo della giurisprudenza cautelare con la presenza, in pochi mesi, di numerose decisioni giurisprudenziali , pronunciate all’esito di ricorsi in via d’urgenza (ex art. 700 c.p.c.) di condanna del datore di lavoro a consentire lo svolgimento dell’attività lavorativa in modalità.
La giurisprudenza cautelare, in questi casi, sta consolidando un orientamento che – bilanciando gli interessi in gioco (in un contesto generale di rischio per la salute) – promuove la misura dell’agilità (per contenere la diffusione del virus pandemico) con il ricorso al criterio dell’accomodamento ragionevole, ex art. 3, comma 3-bis, d.lgs. n. 216/2003 (usando anche l’art. 2087 c.c. quale norma di chiusura del sistema prevenzionistico).
Sebbene le fattispecie siano riferite a casi-limite, spesso riconducibili al sistema del diritto antidiscriminatorio, le pronunce costituiscono casi-guida per affrontare problematiche di carattere più ampio correlate all’equilibrato bilanciamento tra le ragioni dell’impresa e le esigenze del lavoratore. Le decisioni, quindi, sono meritevoli di attenzione non solo per la loro valenza interpretativa rispetto alla disciplina (transitoria) emergenziale, ma anche perché potenzialmente rilevanti, quali soluzioni ragionevoli, rispetto alla futura messa a regime della disciplina normale del lavoro agile in cui il lavoro da remoto potrebbe divenire un prezioso strumento di innovazione digitale e organizzativa.
Se così è, il legislatore potrebbe chiedere al datore di rimuovere, nei limiti del possibile, le barriere che impediscono alle persone di lavorare (e vivere) agilmente sia che si tratti di scogli digitali (strumenti o formazione), sia di impedimenti organizzativi.
4. Il graduale rientro nel regime “ordinario”.
In vista della fase di post-emergenza epidemiologica, è importante anticipare che le semplificazioni, previste dalla normativa emergenziale, per l’accesso al lavoro agile risultano temporaneamente in vigore (fino al 30 giugno 2022) per il settore privato. Diversa è la situazione del pubblico impiego in cui – nelle more dell’entrata in vigore delle regole dei contratti collettivi nazionali – sulla base del DPCM 23 settembre 2021, delle Direttive e Linee guida del Ministro Brunetta, si è già ritornati (dal 15 ottobre 2021) al regime ordinario (accompagnato da disposizioni specifiche) di accesso al lavoro agile.
Nel settore privato la (gran parte del)la disciplina eccezionale è stata prorogata – comma per comma – con reiterazioni continue (in parte ripetitive, in parte aggiornate), anche con effetti retroattivi ovvero con problemi di vuoti normativi, in un quadro giuridico incerto che ha alimentato problemi, confusi e delicati, di diritto transitorio e di ambiti di applicazione.
Sino a ora, le proroghe dei termini della disciplina semplificata, sia del lavoro agile sia delle tutele rafforzate per i lavoratori fragili, risulta(va)no per lo più correlate “alla cessazione dello stato di emergenza epidemiologica da Covid-19». Invece, il d.l. 24 marzo 2022, n. 24 – nel disporre il rientro graduale “nell’ordinario” (fissato, a geometria variabile, al 31 marzo, 30 giugno e 31 dicembre 2022) – prevede una inedita distinzione dei termini di proroga delle citate disposizioni correlati alla pandemia.
Ai sensi dell’art. 10, comma 2 (e del rinvio all’allegata tabella B, n. 2) sono prorogate “al 30 giugno 2022”, (soltanto) le disposizioni legislative relative alla disciplina emergenziale semplificata del lavoro agile, inclusa l’unilateralità della decisione organizzativa, per i (soli) datori di lavoro del settore privato (di cui ai commi 3 e 4, art. 90, d. l.. n. 34/2020, conv., con modd., in l. n. 77/2020).
La proroga dei termini oltre il 31 marzo 2022, invece, non è prevista – per lavoratori privati e pubblici – sia per l’individuazione delle condizioni di fragilità (art. 17, comma 2, d.l. n. 221/2021), sia per il diritto al lavoro agile (art. 26, comma 2-bis, d.l. n. 18/2020).
Il silenzio dell’art. 10, d.l. n. 24/2022, sorprende anche in quanto tale proroga era prevista nella bozza di decreto del 17 marzo 2022. La proroga delle misure derogatorie alla legge n. 81/2017 oltre la (prima data della nuova) scadenza dell’emergenza (31 marzo 2022) risulta a scalare, perdendo le tutele per i lavoratori in condizione di fragilità.
Pertanto, terminato il periodo di emergenza sanitaria piena , la modalità di lavoro agile per le condizioni di fragilità non risulta più esigibile, nonostante in molti casi le esigenze di salute o di cura alla base della richiesta siano perduranti (cioè preesistenti e presumibilmente successive alla pandemia). È illusorio pensare a una cessazione immediata delle esigenze di protezione per tali soggetti vuoi perché il COVID-19 può lasciare strascichi di long covid non solo sociale e psicologico (problematiche di tipo respiratorio, debilitazioni, astenia, cervello annebbiato, riabilitazioni, ecc.), vuoi perché è verosimile che la pandemia diventerà un’infezione endemica.
Così come questa pandemia non sarà dimenticata, sarebbe opportuno ricordare il suo andamento fluttuante e ipotizzare quanto meno un superamento ulteriormente graduale delle politiche di contenimento dei rischi per i soggetti più svantaggiati. Di più, le misure a favore dei soggetti (includendo anche gli aspiranti lavoratori) in condizioni di fragilità potrebbero essere trasformate dal legislatore in disposizioni “ordinarie”, con finalità di inclusione lavorativa, sociale e territoriale, se ed in quanto l’integrazione del lavoratore sia beneficamente realizzabile tramite il lavoro a distanza.
Per promuovere l’accessibilità di tale opportunità, nella fase di ritorno alla disciplina ordinaria, si raccomanda di predisporre – a partire dai lavoratori riconducibili alla nozione di disabili, ma andando anche oltre – percorsi/profili di attivazione/occupazione “agile” della persona riconducibili alla logica degli “accomodamenti ragionevoli”, figli della direttiva 78/2000/Ce, recepita nel d.lgs. n. 216/2003 (art. 3, comma 3-bis).
L’occasione propizia potrebbe essere quella della prossima implementazione (nel contesto della Missione n. 5 del PNRR, Inclusione e coesione) della legge delega “in materia di disabilità”, prevista dalla l. n. 227/2021, trent’anni dopo il varo della famosa l. n. 104/1992 . La materia è delicata e rilevante anche dal punto di vista quantitativo: la relazione di accompagnamento alla riforma stima che possa interessare una platea di oltre 4,5 milioni di persone.
Alla delega, in particolare, è attribuito il compito di aggiornare la definizione di disabilità – tenendo conto del nuovo approccio “bio-psico-sociale” che informa la Convenzione delle Nazioni Unite del 13 dicembre 2006 e la Strategia europea sui diritti delle persone con disabilità 2021-2030 – e di chiarire il suo esatto perimetro di operatività (per es. ai fini del diritto per la modalità agile di lavoro).
La legge delega, infatti, prevede innovazioni sul cruciale piano degli “accomodamenti ragionevoli”, in piena coerenza con il recente orientamento della Suprema Corte che ha anteposto il diritto del disabile a pretendere adeguamenti organizzativi – purché non comportanti un “onere finanziario eccessivo o sproporzionato” – rispetto alla insindacabilità delle scelte imprenditoriali .
Le Linee guida, di fresca emanazione, precisano che il lavoro agile viene inteso come accomodamento ragionevole, con lo “scopo di incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro” e che l’architrave della regolamentazione del lavoro agile è l’“accordo tra le parti” che sorregge la volontarietà bilaterale del ricorso a tale modalità flessibile di resa della prestazione. Come al solito, i principi e i criteri direttivi della legge delega n. 227/2021 presentano luci e ombre, per cui la speranza è che il legislatore delegato nel complessivo riordino e semplificazione normativa possa sciogliere alcune ambiguità e ricalcare la priorità della tecnica degli accomodamenti ragionevoli rispetto alle modifiche organizzative sostenibili.
Si segnala, infine, che la nozione di fragilità si presta ad includere anche i portatori di assistenza familiari (c.d. “care givers”) per cui, in prospettiva, richiede di tener conto della prossima attuazione della cit. Direttiva UE 2019/1158 sul work life balance e che la tutela dei figli va declinata in una logica binaria a favore di entrambi i genitori lavoratori, madre e padre. Anzi, per correggere una distorsione di genere strutturale, si potrebbe immaginare un complessivo ripensamento del sistema delle politiche di tutela della genitorialità, con una significativa promozione del ruolo paterno e del lavoro femminile.
5. Il ruolo delle parti sociali nel Protocollo Orlando e prospettive.
Nel post-emergenza, in mancanza di uno specifico intervento del legislatore sul tema dell’agilità per i soggetti vulnerabili, non va dimenticato che la contrattazione collettiva, per un verso, può individuare (e ridefinire) il perimetro dei lavoratori fragili, per altro verso, può riconoscere loro una serie – concreta, articolata e adattabile – di garanzie (a partire dal diritto al lavoro agile) per agevolare tale modalità di lavoro, rafforzare la genuinità della richiesta e soddisfare in modo effettivo ed efficace l’obiettivo di conciliazione fra tempi (e luoghi) di vita e di lavoro.
La negoziazione collettiva potrebbe, quindi, tessere una solida rete integrata per favorire e accompagnare la progettazione personalizzata dell’organizzazione e del lavoro agile riconducibile al cuore pulsante (ma asimmetrico) della legge ordinaria, n. 81 del 2107, cioè al contratto individuale di lavoro; il tutto per garantire l’effettiva inclusione della persona (anche portatrice di disabilità) nel lavoro e nella società, nonché per aumentare il benessere organizzativo e sociale.
L’intervento delle parti sociali sarebbe opportuno anche in quanto, seppur ampia, la categoria dei lavoratori fragili ideata dal legislatore pandemico, non è completa. Restano invisibili quei soggetti che, seppur vulnerabili, sfuggono alle tradizionali classificazioni normative, non potendo essere considerati propriamente disabili (o per associazione al lavoratore con persona disabile nel nucleo familiare) : ad es. quelli affetti da un disturbo dello spettro autistico “evoluto”, nonostante le loro difficoltà socio-emotive siano notevolmente aggravate dal contesto emergenziale .
Solo che le recenti esperienze di contrattazione collettiva (specie aziendale) hanno coltivato per lo più un ritorno integrale alla legge madre, n. 81/2017, mostrando scarso interesse per un’ integrazione con la nuova disciplina delle vulnerabilità. Nei contratti collettivi pre e post pandemia pochi sono i riferimenti (anche impliciti) ai dipendenti fragili; e quando ci sono – per lo più, con riferimento alla platea dei lavoratori agili – confermano l’eterogeneità della categoria e la preferenza per la mera priorità.
In un contesto in cui l’evoluzione della pandemia resta incerta ¬– mostrando il volto di un fenomeno complesso, che richiede adattamenti continui, rapidi e non sempre prevedibili – il tema della protezione delle persone più vulnerabili, “lavoratori e lavoratrici” , richiama la vera posta in gioco per ritorno graduale alla post-normalità: il ruolo delle parti sociali – seppur non esplicitamente menzionato ex l. n. 81/2017 – per la predisposizione di adeguate misure “di gruppo” (da declinare poi sul piano individuale “mediante accordo tra le parti”, ex art. 18) idonee ad assicurare un ambiente di lavoro (anche da remoto) che promuova la sicurezza, la salute dei lavoratori in condizioni di fragilità oltre la fase pandemica e, più in generale, l’effettiva inclusione socio-lavorativa e il benessere collettivo e organizzativo.
Da qui la sfida raccolta, per il settore privato, dal “Protocollo Nazionale sul lavoro in modalità agile” del 7 dicembre 2021, siglato dalle Parti Sociali al tavolo di concertazione del Ministro del lavoro e delle politiche sociali, Andrea Orlando. Il documento intende fornire linee di indirizzo per la contrattazione collettiva (anche aziendale) e, nel contempo, un input alla gestione aziendale di modelli organizzativi più elastici per un lavoro ibrido.
Tenendo conto dell’esperienza pandemica delle potenzialità e ambiguità del lavoro agile, l’art. 10 (rubricato “Lavoratori fragili e disabili”) prevede che, “fatto salvo quanto previsto dalla legge, le Parti sociali si impegnano a facilitare l’accesso al lavoro agile per i lavoratori in condizioni di fragilità e di disabilità”.
La previsione, formulata in termini volutamente ampi e flessibili, valorizza le potenzialità del lavoro agile genuino “come strumento inclusivo per le persone sfavorite da (e nel) lavoro tradizionalmente inteso”; non a caso, lo stesso art. 10 fa riferimento “anche nella prospettiva di utilizzare tale modalità di lavoro come misura di accomodamento ragionevole” quale misura o accorgimento per permettere al lavoratore di poter svolgere la prestazione lavorativa in modalità agile senza alcuna discriminazione.
Nell’ambito degli “accomodamenti” si inseriscono varie misure, anche di tipo organizzativo che consentono di inserire e integrare il soggetto vulnerabile o di fargli mantenere il posto: a partire da quella suggerita dallo stesso legislatore emergenziale di una diversa ripartizione delle mansioni per aumentare il loro indice di compatibilità con la modalità agile; ed ancora, il c.d. riadattamento dei ritmi di lavoro, con adeguamento degli stessi alle esigenze personali del lavoratore; la riduzione dell’orario di lavoro, anche con la trasformazione del rapporto da full-time a part-time. Inoltre gli accomodamenti possono riguardare l’ambiente di lavoro: la sistemazione dei locali e delle attrezzature in modo da rimuovere eventuali barriere presenti sul posto di lavoro; l’impiego di mezzi tecnologici che permettono di assistere il lavoratore nella esecuzione della mansione o di adattare gli strumenti di lavoro e i locali alla sua disabilità. Infine, le buone pratiche di inclusione lavorativa agile che l’esperienza ci offrirà dovrebbero confluire in una piattaforma informatica per la loro condivisione e il miglioramento continuo.
In tale direzione, il Protocollo coltiva il tema dell’“accessibilità”, quale qualità essenziale dell’ambiente di lavoro e quindi della sua organizzazione , nel senso di rimuovere – nei cit. limiti del possibile (secondo la logica dell’accomodamento “ragionevole”) – le barriere che impediscono alle persone di lavorare (e vivere) agilmente (artt. 3 comma 2, 4, 35 e 41 Cost.).
In questa traiettoria, si può anche immaginare un cambiamento che germoglia ai margini, nel perimetro del lavoro dei disabili.
Tenendo conto che il lavoro agile potrebbe divenire una misura di attivazione di innovazione digitale e di riorganizzazione del lavoro, lo si potrebbe incentivare, a domanda del lavoratore, come un possibile strumento di “accomodamento ragionevole” non soltanto per i lavoratori in condizioni di fragilità, anche promuovendo modifiche all’organizzazione del lavoro fino al limite (proporzionato e ragionevole) della sua “sostenibilità economica”. E il datore, per rifiutare, dovrebbe giustificare la necessità di soluzioni organizzative maggiormente strutturate e costose che rendono sostanzialmente contrario al criterio di efficienza economica o di “produttività” collocare il dipendente in lavoro agile. In tale prospettiva sarebbe opportuno il coinvolgimento preventivo delle RSA e della contrattazione collettiva aziendale per individuare le mansioni/posizioni compatibili con la modalità di lavoro agile.
Da ultimo, segnalo che il percorso indicato dal Protocollo Orlando orienta pure le attività del legislatore per il dopo emergenza. La Commissione lavoro della Camera ha varato un testo (unificato di varie proposte di legge e adottato come testo base) di modifica della disciplina del lavoro agile , in primis del capo II, l. n. 81/2017, che lascia intravedere una larga sintonia con i contenuti del citato Protocollo d’intesa. La proposta di novella inserisce nell’art. 18 un rinvio al “contratto collettivo nazionale di lavoro stipulato tra le organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale, nonché i contratti collettivi stipulati ai sensi dell’art. 51, d. lgs. n. 81/2015” (proposta di comma 2) affidando a tale fonte la disciplina, “nell’ambito di una riorganizzazione del metodo di lavoro interno all’azienda”, del “diritto alla priorità concernente le richieste di esecuzione del rapporto di lavoro in modalità agile” (lett. b) presentate da quattro tipologie di soggetti: le prime due ricopiano quelle previste dall’attuale comma 3-bis dell’art. 18 (con l’opportuna inclusione anche del lavoratore padre); la terza, richiama i disabili ex art. 3, comma 3, l. n. 104/1992; la quarta, i caregivers familiari di cui al comma 255, art. 1, l. n. 205/2017.
Al di là dell’esito parlamentare della proposta, va apprezzato il metodo utilizzato che rilancia, a monte, la concertazione sociale trilaterale e, a valle, il ruolo della contrattazione collettiva nel settore privato e pubblico per affrontare le grandi trasformazioni del mondo del lavoro, dell’economia e della società.