Testo integrale con note e bibliografia
1. L’importanza della sentenza della Cassazione n. 1663 del 2020 non sta nell’avere risolto in sé il pur rilevante caso, sollevato davanti al Tribunale di Torino, dei ciclofattorini di Foodora, ma nell’avere preso posizione sul tema delle collaborazioni continuative esclusivamente (prima, oggi prevalentemente) personali ed organizzate dal committente. L’importanza della sentenza sta dunque nel fatto che essa potrebbe essere destinata a riverberare i suoi effetti su una vasta platea di soggetti e di rapporti che non si riducono a quelli dei ciclofattorini e del lavoro tramite piattaforma.
Si pensi ai casi in cui, specie nel settore dei servizi, ma non solo, l’imprenditore ricorre a combinazioni sofisticate tra lavoro dipendente e prestazioni d’opera continuative in molti casi altamente professionali (si pensi ad es. ai fisioterapisti delle case di cura) e con la corresponsione di compensi molto più elevati delle retribuzioni corrisposte ai lavoratori dipendenti.
L’ambiguità dell’art. 2, co.1, del d.lgvo n. 81/2015 non ha fatto emergere, a mia conoscenza, l’utilizzabilità di questa norma nel contenzioso giudiziario che si è alla fine sempre dipanato lungo l’alternativa tra autonomia e subordinazione. Sotto questo profilo, la decisione della Corte di Cassazione potrebbe aprire scenari imprevedibili nel contenzioso giudiziario, per così dire, ordinario.
2. Infatti, sotto il profilo sopra indicato, la sentenza, molto incentrata sul caso specifico dei ciclofattorini (e di “quei” ciclofattorini) e naturalmente condizionata dalle vicende processuali, non appare all’altezza delle aspettative . E ciò sia per quanto riguarda la nozione di eterorganizzazione, sia per quanto riguarda il regime applicabile.
Al fine di esaminare il primo motivo di ricorso, la Corte prende posizione sul “vivace dibattito dottrinale” che ha accompagnato l’entrata in vigore dell’art. 2, co.1, d.lgvo n. 81 del 2015 e che essa ricostruisce. Secondo la Corte, le posizioni dottrinali possono così schematizzarsi: “una prima via… è quella di riconoscere alle prestazioni rese dai lavoratori delle piattaforme digitali i tratti della subordinazione, sia pure ammodernata ed evoluta”; una seconda via immagina “l’esistenza di una nuova figura intermedia tra subordinazione e autonomia, che sarebbe caratterizzata dall’eterorganizzazione…(teoria del tertium genus o del lavoro etero-organizzato)”; la “terza possibilità è quella di entrare nel mondo del lavoro autonomo” parasubordinato; infine vi sarebbe l’approccio “rimediale” che rinviene “in alcuni indicatori normativi la possibilità di applicare una tutela “rafforzata” nei confronti di alcune tipologie di lavoratori (quali quelli delle piattaforme digitali considerati deboli) cui estendere le tutele dei lavoratori subordinati” (punto 11).
È vero che vi è stata una grande babele delle lingue; tuttavia, questa sintesi non mi pare né efficace né fedele. Se non si vuole continuare a parlare “allegramente con se stessi” , e pur con la consapevolezza della arbitrarietà che si annida in ogni semplificazione, conviene tenere conto solo delle posizioni concettualmente alternative. Ed allora il pendolo è oscillato tra chi ha ravvisato nell’art. 2, co.1, d.lgvo n. 81 del 2015 una sostanziale riproduzione della nozione di subordinazione, con conseguente svalutazione del termine “rapporti di collaborazione” che vi compare, e chi invece ha ravvisato una differenza tra lavoro subordinato e lavoro eterorganizzato, traendo la conseguenza del carattere innovativo della disposizione poiché a rapporti di collaborazione autonoma si sarebbe applicato il regime del lavoro subordinato. A questo punto, tuttavia, le posizioni si sono differenziate dal momento che, mentre secondo alcuni si sarebbe dovuto applicare l’intero statuto protettivo del lavoro subordinato, secondo altri, trattandosi appunto di lavoro autonomo, dunque non eterodiretto, non si sarebbero potute applicare le disposizioni inerenti ai tipici poteri datoriali e, sebbene per motivi diversi, la stessa disciplina previdenziale .
Ma non è questo il punto più rilevante. Il punto più rilevante è che la sentenza, esclusa la fondatezza della tesi definita “radicale” della norma “apparente”, nonché della tesi del tertium genus, sembra abbracciare la tesi della norma antielusiva e “rimediale”, appoggiandosi alla fortunata prospettazione dottrinale della “norma di disciplina” . Ora, sarebbe fare torto alla Suprema Corte, e alla stessa dottrina che ha coniato questa “definizione stipulativa”, ritenere che l’espressione “norma di disciplina” debba essere presa alla lettera. È evidente che una disciplina suppone una fattispecie. Nell’argomentare della Corte, l’espressione, certo non adeguatamente sorvegliata, indica che non è necessario ricondurre la collaborazione eterorganizzata - accompagnata dalla personalità e dalla continuità della prestazione - all’uno o all’altro schema negoziale (lavoro autonomo o lavoro subordinato) dal momento che l’ordinamento appronta per la fattispecie caratterizzata da quegli elementi “l’applicazione integrale della disciplina del lavoro subordinato” (punto 26).
3. Ma proprio perché l’idea della “norma di disciplina” non può essere presa alla lettera, pur nella prospettiva sposata dalla Corte, occorrerà ben domandarsi in che cosa la collaborazione organizzata dal committente si traduca; il che è come domandarsi come si distingua la cd. eterorganizzazione sia dalla subordinazione sia dal coordinamento.
Su questo a me pare che le puntualizzazioni operate dalla Corte, essenzialmente incentrate sulla differenziazione tra eteroganizzazione e coordinamento, non siano affatto decisive, lasciando uno spazio intatto per le speculazioni dottrinali e per le applicazioni giurisprudenziali.
4. Il che già significa che l’idoneità della sentenza della Corte a costituire precedente in tutti i casi in cui di “collaborazione organizzata dal committente” si dibattesse è alquanto debole.
E pure nella parte fondamentale relativa alla disciplina applicabile la Cassazione non fornisce indicazioni decisive. Da un lato, essa osserva che la norma non contiene alcun criterio idoneo a selezionare la disciplina applicabile, “che non potrebbe essere affidata ex post alla variabile interpretazione dei singoli giudici” (punto 40); e che questo criterio non è necessario, contrariamente a quanto postulato dalla Corte torinese, perché qui non si tratta di un tertium genus intermedio tra autonomia e subordinazione, onde non si pone la necessità di selezionare la disciplina applicabile (punto 38).
D’altro lato, essa osserva che “non possono escludersi situazioni in cui l’applicazione integrale della disciplina della subordinazione sia ontologicamente incompatibile con le fattispecie da regolare, che per definizione non sono comprese nell’ambito dell’art. 2094 cod.civ.” (punto 41).
Non si può negare che in questo passaggio, non necessario ai fini del decidere, vi sia una certa contraddittorietà rispetto, non solo all'inquadramento della norma come di mera “disciplina” (là dove si afferma che “le fattispecie da regolare… per definizione non sono comprese nell'ambito dell’art. 2094 cod.civ.”: escluso il tertium genus, se ne desume allora che il lavoro eterorganizzato è lavoro autonomo), ma anche rispetto all’affermata impossibilità di un’applicazione selettiva.
In questo passaggio, la Cassazione parrebbe suggerire un giudizio di compatibilità della disciplina applicabile. A parte la contraddittorietà con quanto affermato sopra, circa l’applicazione imperativa della disciplina della subordinazione, se l'affermazione - lo si ripete contenuta in un semplice obiter dictum - avesse seguito, potrebbe aprire la strada ad un soggettivismo interpretativo incontrollabile. Per fare solo un esempio, a prescindere dalle disposizioni inerenti ai tipici poteri datoriali, di solito richiamati, che ne sarebbe della disciplina del licenziamento?
5. In conclusione, è evidente l'opportunità di graduare le tutele in relazione alle esigenze di protezione di tutto il lavoro personale (o prevalentemente personale) a prescindere dalla qualificazione in termini di lavoro subordinato o autonomo. È una questione in discussione da almeno vent'anni. Ma il legislatore del Jobs Act non ha seguito alcuno dei sofisticati tentativi riformistici proposti dalla dottrina e sfociati anche in sede parlamentare. Così stando le cose, simile operazione può essere compiuta dall'interprete sulla base dell’esile dato contenuto nell'art. 2, co. 1, del d.lgvo n. 81 del 2015?
Dell’ estrema scivolosità dell'operazione la sofferta decisione della Corte di Cassazione appare peraltro consapevole. Allo stato attuale della disciplina, sembra più che mai necessario chiamare in soccorso le risorse dell'autonomia collettiva, cui il secondo comma dell'art. 2 demanda, non il semplice compito di derogare al primo comma dello stesso, ma quello, ben più ampio, di articolare fattispecie e tutele. Giustamente, in proposito, si è osservato che la norma consente di “adattare la disciplina, al di là degli schemi legali tipici, in varie direzioni e aspetti diversi” . Insomma, la contrattazione collettiva potrebbe, d'un sol colpo, sciogliere i due nodi che si addensano attorno alle collaborazioni organizzate dal committente (e non solo) e di cui è testimone anche la pronuncia in commento.