Testo integrale con note e bibliografia
1. Introduzione
È oramai noto che la disciplina originaria del lavoro agile, la l. n. 87/2017 (artt. 18-23) sia stata profondamente alterata, quasi “snaturata”, dall’emergenza pandemica che, al contempo, ne ha anche permesso una diffusione capillare e fulminea.
Per fronteggiare il contenimento dei contagi, infatti, è stata riconosciuta la possibilità di utilizzare l’istituto anche in assenza dell’accordo individuale, senza garantire l’alternanza nello svolgimento della prestazione lavorativa e facendo coincidere il luogo esterno all’azienda con una postazione fissa domiciliare, ben al di là, quindi, della flessibilità spaziale richiesta dal legislatore.
La presente riflessione intende soffermarsi proprio sul luogo di lavoro “agile”, partendo dalle coordinate normative ed esaminando le sue declinazioni, unitamente alle criticità, nell’esperienza pandemica, anche con riferimento all’impatto del lavoro da remoto (fuori dall’azienda) sul sindacato. Da qui si proseguirà con le novità introdotte dal Protocollo nazionale sul lavoro agile, promosso dal Ministro del lavoro Orlando e sottoscritto dalle parti sociali nel dicembre 2021, per concludere con alcune brevi osservazioni finali.
2. Dal luogo di lavoro “classico”…
Nel nostro ordinamento non vi è una norma che definisce espressamente cosa si intenda per luogo di lavoro, fatto salvo l’art. 62, co. 1, d.lgs. n. 81/2008, che, però, non ha una portata generale, ma trova applicazione solo con riguardo alla normativa posta a tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro .
Invero, un implicito riferimento al luogo di lavoro si rinviene nell’art. 2094 c.c., nella parte in cui individua il prestatore di lavoro subordinato in colui che si obbliga a “collaborare nell’impresa”, di modo che l’elemento dell’inserzione sembrerebbe costituire parte integrante della fattispecie.
Per lunghi anni la concezione del luogo di lavoro si è evoluta secondo il modello della fabbrica taylor-fordista e, dunque, come lavoro inserito “materialmente” e stabilmente all’interno di un’organizzazione caratterizzata da un ciclo produttivo che veniva a esaurirsi in un unico edificio.
Per lungo tempo, il lavoro subordinato ha continuato così a essere identificato nel lavoro eseguito all’interno della fabbrica tanto che lo Statuto dei lavoratori, al fine di tutelare la libertà e la dignità dei lavoratori «nei luoghi di lavoro», sembra accogliere una nozione statica di luogo di lavoro, individuando nell’«unità produttiva» la destinataria di una serie di discipline poste a tutela dei lavoratori.
Questo scenario è oramai in profonda e continua evoluzione: già da qualche decennio si sta assistendo al progressivo superamento della concezione statica e unitaria del luogo di lavoro. E, infatti, l’incidenza delle innovazioni tecnologiche sui modelli di organizzazione del lavoro, così come l’avvento della c.d. economia delle piattaforme, oltre ai fenomeni di scomposizione e segmentazione produttiva, hanno messo definitivamente in crisi il paradigma aristotelico dell’unità di luogo, tempo e azione .
3. … a quello “agile”: la legge n. 81/2017
Lungo questa traiettoria evolutiva si è inserita la scelta del legislatore di regolare la modalità c.d. “agile” di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato, nel tentativo di far fronte alle profonde e rapide trasformazioni che stanno investendo il modo di produrre e di organizzare il lavoro, ed espressamente al fine di «incrementare la competitività e agevolare la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro» (art. 18, co. 1, l. n. 81/2017).
Limitando la riflessione alla dimensione spaziale, la normativa dispone che la prestazione “agile” sia resa «senza precisi vincoli […] di luogo di lavoro» (art. 18, co. 1, primo periodo), «in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno» e «senza una postazione fissa» (art. 18, co. 1, secondo periodo).
Rispetto alla manifestazione socialmente tipica del lavoro subordinato, la fattispecie disciplinata dall’art. 18, si connota, quindi, per la ricorrenza congiunta di due elementi: lo svolgimento della prestazione lavorativa in forma necessariamente alternata (fuori e dentro l’azienda) e la potenziale variabilità del luogo di lavoro esterno.
Sebbene l’alternanza topografica tra prestazione resa all’esterno dei locali aziendali e quella interna sia un elemento imprescindibile, il legislatore non ha ritenuto necessario imporre in via eteronoma una proporzione tra lavoro interno e lavoro esterno, preferendo rimettere la determinazione del quantum all’accordo individuale di cui all’art. 19 della stessa legge.
Tuttavia, considerato l’espresso richiamo contenuto nella norma all’“alternanza” della prestazione, il lavoro reso nei locali aziendali deve pur sempre mantenere una certa rilevanza, anche per evitare che il lavoro agile si sovrapponga alla fattispecie contigua del telelavoro nella quale, al contrario, l’attività lavorativa deve essere eseguita «regolarmente» (o, perlomeno, in misura non occasionale) al di fuori dei locali dell’azienda, anche se con una postazione fissa.
La norma del 2017, poi, non chiarisce se la sede di lavoro «esterna» debba intendersi rimessa alla libera scelta del lavoratore o, viceversa, costituire oggetto di apposita pattuizione nell’accordo individuale di lavoro agile. In ogni caso, l’esplicito riferimento all’assenza di una postazione fissa, la non inclusione del luogo esterno di lavoro tra i contenuti obbligatoriamente richiesti dall’art. 19 ai fini dell’accordo individuale, l’utilizzo nell’art. 23, co. 3, dell’espressione «luogo […] prescelto» e il richiamo, tra le finalità del lavoro agile, alla conciliazione dei tempi di vita e lavoro, sembrano deporre per la libera scelta del lavoratore.
Resta fermo, però, che il lavoratore non può modificare a sua discrezione il luogo liberamente scelto, senza alcun obbligo di preventiva comunicazione al datore di lavoro, perché ciò si scontrerebbe con l’esigenza di tutela della salute e della sicurezza del lavoratore anche in relazione alla parte di prestazione resa al di fuori dei locali aziendali. Tale obbligo grava sempre sul datore di lavoro in virtù del combinato disposto dell’art. 2087 c.c. e delle previsioni del d.lgs. n. 81/2008, come confermato indirettamente dalla previsione di un obbligo di cooperazione del lavoratore nella ripartizione degli obblighi di sicurezza e nella regolamentazione di cui all’art. 23 in materia di infortunio in itinere .
Ciò, di conseguenza, impone una valutazione di ragionevolezza in merito agli spostamenti tra l’abitazione e la postazione di lavoro prescelta, basata sulle esigenze organizzative e sulle esigenze di conciliazione vita-lavoro. E, dunque, il luogo di lavoro agile non può essere lasciato indeterminato del tutto, ma occorrerà perlomeno individuare nell’accordo individuale una rosa di possibili sedi esterne tra le quali il lavoratore potrà liberamente scegliere, così da permettere al datore di lavoro di tutelare la salute e la sicurezza del lavoratore agile e di predisporre un’informativa recante la puntuale indicazione dei rischi generali e specifici connessi alla particolare modalità di esecuzione della prestazione (ex art. 22, l. n. 81/2017).
4. Il luogo di svolgimento della prestazione in modalità agile nell’esperienza pandemica
La disciplina emergenziale, avendo utilizzato il lavoro agile primariamente quale misura di contenimento del contagio e contestualmente per consentire la prosecuzione dell’attività lavorativa, ha trasferito il luogo di svolgimento del lavoro presso l’abitazione e ivi i pregressi modelli organizzativi.
Abbiamo assistito a una obbligata segregazione domiciliare (sperimentata soprattutto durante i lockdown) con una forte limitazione degli accessi alle aziende e, dunque, non vi è stata alcuna libertà di scelta del luogo ove svolgere la prestazione all’esterno dell’azienda.
L’agilità è divenuta una misura precauzionale, di tutela della salute, che ha consentito di conciliare la prosecuzione dell’attività lavorativa (nella propria abitazione) con il mantenimento della distanza fisica per fermare il contagio sia fra le persone sia nei locali aziendali.
Il luogo di lavoro ha finito, così, per coincidere con la residenza privata o il domicilio del lavoratore e neppure è stato possibile programmare rientri in azienda, così da realizzare l’alternanza tipica del lavoro agile. Una sorta, quindi, di remotizzazione forzata a domicilio, il cui obiettivo non è certo stato (e ancora oggi non è) l’aumento del benessere dei lavoratori, né l’incremento della loro produttività o una migliore conciliazione degli impegni professionali con quelli personali e familiari. È servita, semmai, - come pure era già accaduto in una precedente situazione emergenziale - a svolgere una funzione quasi di “ordine pubblico”.
Questa impostazione la si ritrova anche in sede di contrattazione collettiva dove tale modalità di esecuzione è stata talvolta definita «home-working» . Così come in alcuni contratti collettivi si è convenuto che luoghi diversi dalla residenza o domicilio debbano frequentemente essere concordati fra le parti o, persino, comunicati con congruo preavviso al datore di lavoro il quale dovrà prima autorizzarli. L’accordo ING Bank Succursale di Milano del 4.8.2020, ad esempio, prevede che il lavoratore agile debba «svolgere la propria attività lavorativa presso la residenza privata/domicilio tempo per tempo comunicato alla Banca. Ogni altro luogo espressamente indicato dai dipendenti […], dovrà essere di volta in volta preventivamente autorizzato dalla Banca» (art. 6), che si impegna a fornire riscontro in tempi ragionevoli e, comunque, non oltre i 5 giorni lavorativi.
In altri contratti collettivi, anche nelle ipotesi in cui l’accordo individuale non preveda l’accordo sul luogo esterno, viene comunque sempre richiesto che lo stesso sia idoneo «a consentire lo svolgimento dell’attività lavorativa in condizioni di sicurezza, di massima riservatezza (anche con specifico riferimento al trattamento dei dati e delle informazioni aziendali), e di tranquillità» ; sono, di conseguenza, sempre da escludere i locali pubblici o aperti al pubblico.
Al di là delle specifiche previsioni contrattuali, quello che preme qui sottolineare è che durante la pandemia il luogo esterno all’azienda è sempre coinciso con il domicilio del lavoratore, con buona pace di quanto previsto dal legislatore del 2017, secondo il quale il luogo di lavoro può essere, sintetizzando, “ovunque”.
5. Le criticità della “domiciliarizzazione” del lavoro agile emergenziale (e non solo)
Nel momento in cui il domicilio è divenuto l’unica soluzione locativa della prestazione di lavoro, non poche sono le criticità emerse, da quelle relative alla salute e alla sicurezza sino alla compromissione della dimensione della conciliazione vita/lavoro, tradendo, così, uno dei princìpi, già prima richiamati, a cui è ispirata proprio la l. n. 81/2017.
Diverse ricerche condotte al tempo del Covid-19 , hanno, infatti, rivelato un vissuto molto problematico, con un aumento del conflitto famiglia-lavoro e una crescita dei livelli di stress, con particolari fatiche percepite soprattutto da chi aveva in casa figli di età inferiore ai sei anni, oltre a un aggravamento delle preesistenti criticità di genere nel mercato del lavoro.
È diventato difficile dividere tempi e spazi di lavoro da quelli dedicati alla famiglia; non a caso si è parlato di emersione del nodo della liquidità temporale del lavoro agile, dove per definizione è incerto il confine tra tempi di vita e tempi di lavoro, ed è più concreto il rischio di sconfinamento in danno della dimensione privata e familiare .
Spesso si è assistito anche a un aumento generalizzato delle ore lavorate , con gli inevitabili impatti negativi in termini di stress dovuti all’essere costantemente connessi e presi dall’ansia di dover rispondere in tempo reale a mail e messaggi .
A tutto ciò si aggiunga che la “domiciliarizzazione” del lavoro agile ha inciso fortemente sulle relazioni sociali, rappresentando una potenziale fonte di isolamento sociale e di esclusione dal tessuto relazionale che, in diversa misura in base agli specifici contesti lavorativi e ai ruoli/mansioni dei singoli soggetti, caratterizza, invece, il lavoro in presenza. E questo si riflette negativamente sulle possibilità di carriera, ma anche in termini di discriminazioni a danno di tutti coloro, soprattutto la componente femminile, che sono coinvolti nello svolgimento delle prestazioni lavorative in modalità agile.
Da ultimo, va pure evidenziato come l’obbligatorietà del contesto abitativo quale unico luogo occupazionale, l’interazione con le attività domestiche, la necessità di organizzare lo spazio casalingo, la compresenza degli altri membri della famiglia, con una pluralità anch’essi di proprie esigenze, abbia inciso anche sugli incidenti domestici. Lo ha rilevato la stessa Inail sottolineando come tali condizioni spingano il lavoratore a una pericolosa promiscuità tra vita lavorativa e quella personale, determinata e viziata dalle abitudini consolidate nella vita quotidiana, che inducono a un’eccessiva confidenzialità con l’ambiente circostante e spesso si traduce in un elevato numero di infortuni domestici .
6. Il luogo “agile” e il ruolo delle parti sociali
Va anche osservato come la domiciliarizzazione, anche oltre l’esperienza emergenziale, possa impattare negativamente sul ruolo del sindacato.
È evidente, infatti, che la remotizzazione del lavoro comporti il rischio non solo di finire isolati dal proprio contesto lavorativo e dalle relazioni sociali che vi si creano, ma anche dai normali e tradizionali processi di partecipazione collettiva e di sindacalizzazione .
L’ambiente domestico quale luogo di esecuzione della prestazione del lavoro è completamente diverso da quello tradizionale su cui sono nate e si sono sviluppate le organizzazioni sindacali e la cui forza storicamente è rappresentata proprio dall’andare nei posti di lavoro e incontrare fisicamente le persone.
Con il lavoro da remoto, in altri termini, si è rotto il perimetro aziendale; i confini sono divenuti sempre più labili e la tecnologia è diventata un nuovo attore. Sembrerebbe quasi che i lavoratori a distanza non necessitino dell’intermediazione del sindacato, né l’impresa dell’associazione datoriale, perché tutto sarebbe affidato all’accordo individuale tra datore di lavoro e lavoratore agile.
Nella l. n. 81/2017 il legislatore ha scelto di affidare la regolazione della prestazione lavorativa all’autonomia privata individuale, nella logica di individualizzare i rapporti di lavoro in funzione delle specifiche esigenze della persona che lavora e della concreta realtà organizzativa. Non si è tenuto conto, però, sia dei possibili condizionamenti in concreto della libera volontarietà del soggetto parte debole del rapporto di lavoro, sia dell’importante e prezioso ruolo della contrattazione collettiva (non solo di anticipazione delle regole legali, ma pure) di riequilibrio dello squilibrio contrattuale .
In ogni caso, l’esclusione della contrattazione collettiva (o, meglio, la mancanza di un esplicito rinvio a essa) potrebbe anche essere letta come il tentativo di dare la più ampia diffusione del lavoro agile in ambiti aziendali non coperti dalla rappresentanza collettiva, senza arrivare però ad escluderla ex ante. E del resto, non solo l’entrata in vigore della normativa del 2017 non ha interrotto il coinvolgimento sindacale nelle esperienze di smart working aziendale, ma anche quando la normativa emergenziale ne ha reso possibile l’attivazione in via unilaterale, i datori di lavoro hanno continuato a cercare il confronto e l’accordo collettivo; anzi, è stata proprio la contrattazione collettiva ad anticipare la regolazione emergenziale del lavoro agile .
Del resto non va neppure trascurato che tra le materie oggetto di competenza della contrattazione di prossimità, ex art. 8 d.l. n. 138/2011 (conv. in l. n. 148/2011), vi è «[…]l’introduzione di nuove tecnologie». E allora la contrattazione di prossimità finisce per costituire una “leva” per l’ulteriore utilizzo del lavoro da remoto in azienda, senza arrivare però - attesa la sua ampia capacità derogatoria – a giustificare una riduzione delle tutele minime previste per i lavoratori agili.
Da qui l’importanza del coinvolgimento del sindacato per il quale la regolazione del lavoro agile rappresenta anche una occasione per ammodernare la sua funzione e dimostrare la sua capacità di interpretare le nuove dinamiche in atto nell’organizzazione delle imprese e tradurle in approcci che possano ridefinire, valorizzandole, le relazioni industriali e la contrattazione collettiva.
Il Protocollo nazionale sul lavoro in modalità agile rappresenta indubbiamente una significativa risposta proprio in tal senso, soprattutto per individuare, in sede negoziale, un nucleo minimo di tutele applicabili a tutti i lavoratori agili.
Si è voluto riconoscere la centralità della contrattazione collettiva e, dunque, superare quella che è stata opportunamente definita «l’utopia del lavoro agile senza intermediazione sindacale» . E da qui, facendo anche tesoro della straordinaria (e, allo stesso tempo, drammatica) esperienza pandemica, si è giunti alla definizione di linee di indirizzo.
L’obiettivo è – riprendendo le parole in Premessa del Protocollo – è «di realizzare azioni condivise per fornire risposte concrete ai grandi cambiamenti che l’innovazione tecnologica produce nei modelli organizzativi aziendali e, di conseguenza, nei modi di pensare il lavoro, favorendo così, allo stesso tempo, lo sviluppo di un moderno sistema di relazioni industriali». Si è, così, inteso «porre le basi per creare un clima di fiducia, coinvolgimento e partecipazione, quale premessa fondamentale per la corretta applicazione del lavoro agile nel settore privato, fornendo delle linee di indirizzo che possano rappresentare un efficace quadro di riferimento per la futura contrattazione collettiva, nazionale e aziendale e/o territoriale […]».
Ne consegue che il dispositivo legislativo finisce per essere integrato dalle fonti pattizie, in modo da sottoscrivere accordi collettivi nell’ambito dei quali siano implementate dettagliate policy aziendali a tutela dei lavoratori e dei datori di lavoro, lasciando all’accordo individuale la sola regolamentazione specifica del caso concreto.
7. Le linee di indirizzo del protocollo del 2021 per un luogo “agile” in condizioni di “normalità”
Limitando l’analisi al luogo di lavoro, nel Protocollo le parti sociali hanno fornito importanti indicazioni per superare in modo consapevole le criticità dell’esperienza pandemica, anche per scongiurare quel rischio di rendere strutturale e definitivo il distanziamento delle persone che fa perdere il senso della communitas e, in qualche misura, come già osservato, indebolisce le relazioni sindacali.
Innanzitutto, si conviene sulla libertà di scelta del luogo di lavoro eterno ai locali aziendali: «il lavoratore è libero di individuare il luogo ove svolgere la prestazione in modalità agile purché lo stesso abbia caratteristiche tali da consentire la regolare esecuzione della prestazione, in condizioni di sicurezza e riservatezza, anche con specifico riferimento al trattamento dei dati e delle informazioni aziendali nonché alle esigenze di connessione con i sistemi aziendali (art. 4, co. 1). Resta ferma la possibilità per la contrattazione collettiva di «individuare i luoghi inidonei allo svolgimento del lavoro in modalità agile per motivi di sicurezza personale o protezione, segretezza e riservatezza dei dati» (art. 4, co. 2).
Tale libertà, tuttavia, non potrà spingersi sino a stabilire che la prestazione possa svolgersi in toto dentro o fuori dai locali aziendali, venendo meno, in questa ipotesi, uno degli elementi tipici del lavoro agile, ossia l’alternanza tra prestazioni intra ed extra aziendali. E infatti, all’art. 2 si ribadisce quanto già stabilito ex lege, ovvero che nell’accordo individuale debba essere prevista «l’alternanza tra i periodi di lavoro all’interno e all’esterno dei locali aziendali», oltre ai «luoghi eventualmente esclusi per lo svolgimento della prestazione lavorativa esterna ai locali aziendali».
Il lavoro agile, dunque, non può essere “per sempre”, perché il suo presupposto è il mantenimento (anche fisico) del lavoratore nell’organizzazione produttiva, come espressamente previsto dalla l. n. 81/2017. Se così non fosse si rischierebbe di allontanare i lavoratori dal centro operativo, materiale ed umano costituito dall’azienda e dal contenuto regolatorio della disciplina lavoristica e ricadere in quella negatività che l’esperienza pandemica ha evidenziato.
Per un lavoro agile davvero produttivo e umanamene sostenibile è indispensabile considerare il suo equilibrio con il lavoro in presenza, oltre alla necessità di una formazione specifica e alla disponibilità, da parte dei lavoratori, dei supporti tecnologici più adeguati. Su entrambi questi profili, lo stesso Protocollo fornisce indicazioni molto precise.
Innanzitutto, sul versante della formazione, le Parti sociali ritengono necessario prevedere percorsi formativi, finalizzati a incrementare specifiche competenze tecniche, organizzative, digitali, anche per un efficace e sicuro utilizzo degli strumenti di lavoro forniti in dotazione, pure al fine di diffondere una cultura aziendale orientata alla responsabilizzazione e partecipazione dei lavoratori. Analogamente, ritengono fondamentale, a fronte della rapida evoluzione dei sistemi e degli strumenti tecnologici, l’aggiornamento professionale per i lavoratori posti in modalità agile che devono continuare a essere inseriti anche nei percorsi professionali e di sviluppo professionale rivolti alla generalità dei dipendenti (come previsto dall’art. 20, co. 2, l. n. 81/2017).
Importante anche aver precisato che la formazione può costituire per i lavoratori in modalità agile un momento di interazione e di scambio in presenza, per prevenire proprio quelle situazioni di isolamento (prima richiamate) ed evitare, quindi, di accedere a quella cultura dell’immunitas : non più “vado a lavorare”, ma “mi collego al lavoro”; non più “incontri di lavoro", ma semplici “visioni” di colleghi tramite piattaforme e via internet.
Resta fermo e impregiudicato il diritto alla formazione c.d. obbligatoria in materia di tutela della salute dei lavoratori e di protezione dei dati, da erogarsi nelle modalità più coerenti con lo svolgimento del lavoro agile.
Sul versante degli strumenti di lavoro, all’art. 5, le parti sociali hanno convenuto che, «fatti salvi diversi accordi, sia il datore di lavoro, di norma, a fornire la strumentazione tecnologica e informatica necessaria allo svolgimento della prestazione lavorativa in modalità agile, al fine di assicurare al lavoratore la disponibilità di strumenti idonei all’esecuzione della prestazione lavorativa e sicuri per l’accesso ai sistemi aziendali. Le spese di manutenzione e di sostituzione della strumentazione fornita dal datore di lavoro sono a carico del datore di lavoro stesso, che ne resta proprietario».
Per favorire l’individuazione di luoghi di lavoro alternativi al domicilio e, soprattutto, per rendere sostanziale la possibilità da parte del lavoratore e del datore di lavoro di optare per queste soluzioni, le parti sociali hanno convenuto sulla necessità di agire con la leva dell’incentivazione economica. Diverse sono, infatti, le questioni, in termini di costi, che si pongono sul piano pratico: dall’affitto delle postazioni in “luoghi terzi” (compresa la possibilità di detrazione fiscale), all’infrastrutturazione tecnologica in termini di portata/potenza e di livello di protezione dei dati, sino l’adeguamento del layout fisico degli spazi (pubblici e privati) adibiti ad attività lavorativa agile .
Da qui l’esplicita previsione, all’art. 15, co 1, circa la «necessità di incentivare l’utilizzo corretto del lavoro agile anche tramite un incentivo pubblico destinato alle aziende che regolamentino il lavoro agile con accordo collettivo di secondo livello, in attuazione del presente Protocollo e dell’eventuale contratto di livello nazionale, stipulati ai sensi dell’art. 51 del d.lgs. n. 81/2015, che ne prevedano un utilizzo equilibrato tra lavoratrici e lavoratori e favorendo un’ottica di sostenibilità ambientale e sociale».
8. Una chiosa finale
Infine, mi preme sottolineare come l’emergenza pandemica, unitamente all’esperienza della contrattazione collettiva e, da ultimo, la sottoscrizione del Protocollo, ci abbiano insegnato, al netto dei rischi insiti nel lavoro agile, quanto sia importante sfruttare pienamente le potenzialità di questa modalità di svolgimento del lavoro. Il che presuppone necessariamente una “sana” trasformazione della cultura organizzativa dell’impresa.
Pertanto, non si tratta di gestire «l’avvento di una nuova “civiltà del lavoro” intesa come fisica liberazione “dal” luogo di lavoro e di conseguenza “del” lavoro dai suoi limiti di tempo e di luogo» , quanto semmai di affrontare in modo compiuto la sfida del “lavoro agile”, per una più diffusa e condivisa innovazione tecnologica e organizzativa (oltre che sociale), della quale si possano avvalere positivamente il maggior numero di imprese e di lavoratori, senza arrivare allo scenario di un lavoro argonautico e reso “dove si vuole", che sostituisca quello in azienda .
In altri termini, si tratta di accompagnare, in dialogo con le parti sociali e limitando eccessi di euforia, un processo che non miri a diffondere la “remotizzazione” del lavoro in quanto tale, ma semmai guardi a questa modalità agile di lavorare nella sua corretta dimensione, con obiettività, senza utopie e nella misura in cui sia anche umanamente sostenibile.
Lungo queste coordinate, la prossima tornata contrattuale dei numerosi rinnovi contrattuali sin qui rimasti in stallo a causa della pandemia potranno rappresentare un importante banco di prova circa la capacità delle parti sociali di attuare le linee di indirizzo poste dal Protocollo e incorporare nelle negoziazioni i profondi cambiamenti dei sistemi produttivi e dei processi organizzativi.