1. Premessa sul lavoro subordinato e il tempo del lavoro
Nel formulare alcune considerazioni sul lavoro agile, non sembri inutilmente ripetitiva la mia scelta di prendere le mosse dall’art. 18 della Legge n. 81/2017: trattasi di una «modalità di esecuzione del rapporto di lavoro subordinato…, anche con forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi e senza precisi vincoli di orario o di luogo di lavoro». Inoltre, «la prestazione lavorativa viene eseguita, in parte all’interno di locali aziendali e in parte all’esterno senza una postazione fissa, entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva».
La prima considerazione che vorrei proporre riguarda la qualificazione tipologica del lavoro agile come lavoro subordinato, pur trattandosi di un rapporto «senza precisi vincoli di orario». Credo sia necessario soffermarsi sul rapporto logico-dogmatico che c’è fra il concetto giuridico di subordinazione e il vincolo orario all’esecuzione della prestazione. In passato, ho avuto modo di approfondire l’analisi di questo rapporto , le cui conclusioni (seppur parzialmente) mi sento di dover riprendere in questa occasione.
Tradizionalmente la teoria della subordinazione si è fondata su alcuni elementi, fra cui uno costituito da una dimensione temporale: la «continuità». Nella struttura dell’art. 2094 c.c. la continuità non è semplicemente un connotato del rapporto giuridico, comune a molte altre fattispecie contrattuali, ma indica una peculiare configurazione della prestazione debitoria, cioè della prestazione di lavoro. La continuità, in tal senso, è un elemento essenziale della prestazione in quanto struttura oggettiva del contratto.
Nella dottrina giuslavorista la continuità è correlata alla prestazione di lavoro e – di conseguenza - al potere del datore di lavoro. In questa prospettiva, la «dipendenza» e la «direzione» possono essere accomunati nello stato di disponibilità nel tempo del lavoratore al potere datoriale. A tal proposito riporto un passo scritto da Mario Grandi: «nel rapporto di lavoro subordinato, la persistenza nel tempo […] riguarda la situazione stessa di subordinazione nel suo significato fondante di dipendenza dell’obbligato dal potere di direzione e di organizzazione dell’altro contraente, in conformità alla causa del contratto. Questa situazione si esprime nella disponibilità continuativa del prestatore» . Lo stato di dipendenza, dunque, è una condizione di disponibilità nel tempo, durante il quale si esercita il potere direttivo del datore di lavoro.
Insomma, posto che l’art. 2094 c.c. è imperniato sulla collaborazione, sulla dipendenza e sulla direzione, faccio mie le parole di Mario Napoli: «è innegabile che la permanenza nel tempo del vincolo è l’elemento fondante del regime limitativo dell’orario di lavoro e degli istituti connessi con il tempo di non lavoro […] Ma se si vuole collocare tale elemento a livello di fattispecie costitutiva del rapporto, occorre farlo all’interno della collaborazione, termine che evoca il dispiegarsi di un atteggiamento nel tempo» . In altre parole, senza il tempo la prestazione non sussisterebbe, non solo perché è la natura a impedirlo, ma anche perché lo richiede la natura giuridica della prestazione di lavoro subordinato in quanto, senza tempo-continuità non ci può essere collaborazione, né dipendenza, né direzione.
D’altronde, ciò che noi chiamiamo processo produttivo è lo svolgimento della produzione nel tempo. Poiché il processo produttivo individuale altro non è che la prestazione di lavoro e poiché il processo è tempo, la prestazione di lavoro subordinato è un tempo produttivo su cui si esercita il potere direttivo. Perciò il potere direttivo è il potere di direzione del tempo della prestazione. Il datore di lavoro esercita il potere direttivo non soltanto nel tempo del rapporto, ma anche – e soprattutto - sul tempo del processo produttivo. Questa è la subordinazione.
Emerge, dunque, la differenza di peso specifico attribuita al fattore «tempo» nella struttura del contratto di lavoro subordinato. Osservando il lavoro subordinato dal punto di vista dell’oggetto del contratto, si perviene alla valorizzazione della funzione del «tempo», collocato nel cuore della struttura contrattuale. Nel lavoro subordinato il «tempo» non è solo un connotato del rapporto giuridico – funzione comune ad altri contratti - ma è costitutivo dell’oggetto, cioè della relazione giuridica potere-subordinazione. La subordinazione non è solo disponibilità continuativa ma è disponibilità continuativa nel tempo al potere del datore di lavoro sul tempo della prestazione.
Continuità e disponibilità sono concetti che si fondono: non solo disponibilità nel tempo, ma disponibilità di tempo; non solo potere nel tempo, ma potere sul tempo. E quand’anche si voglia mantenere una ostinata riluttanza a concepire la disponibilità come «mettere a disposizione» tempo, anche concependo la disponibilità come uno «stare a disposizione» si tratta pur sempre di uno «stare» che è «tempo»: «stare a disposizione» significa assoggettare il tempo della prestazione al potere direttivo. Faccio mie le parole di Mengoni: «il prestatore di lavoro mette a disposizione il suo tempo» .
2. La funzione dell’orario di lavoro nella subordinazione
Dunque, se la prestazione di lavoro subordinato è tempo nella disponibilità del datore di lavoro, occorre soffermarci sulla funzione dell’orario. L’orario ha la funzione di oggettivare il tempo nello scambio contrattuale; cioè oggettivare la prestazione di lavoro. A tal fine, la normativa legale e contrattuale sull’orario di lavoro disciplina il regolamento contrattuale, descrivendo gli elementi che con-figurano il tempo di lavoro. Attraverso questa regolazione il tempo di lavoro si può costituire oggettivamente come quantità di scambio. L’orario previsto dalla legge o dal contratto collettivo serve a porre limiti allo scambio di tempo di lavoro e retribuzione, ai fini della protezione della salute dei lavoratori e del tempo che non viene assoggettato al potere altrui.
Il problema è che per misurare il lavoro, la legge deve riferirsi al tempo come unità di misura dell’oggetto-lavoro. Per questa ragione l’ordinamento giuridico ha bisogno di definire l’unità di misura del lavoro che è «l’orario» riferito al «lavoro effettivo» (o altre definizioni simili). Ecco perché, nell’ordinamento giuridico, orario, effettività, tempo di lavoro, subordinazione, finiscono per indicare lo stesso concetto. Il tempo di lavoro oggettivato finisce per coincidere col lavoro effettivo misurato con l’orologio, arrivando al punto di pensare che il lavoro è ciò che misuriamo come «orario» tant’è che, quando non c’è orario, non c’è lavoro. La nozione legale di orario, dunque, diventa strumento decisivo per la configurazione stessa della prestazione di lavoro e del contratto stesso, perché senza orario parrebbe che il contratto sia privo di oggettivazione del tempo.
Eppure, sappiamo bene che non è sempre così ben potendo avere lavoro subordinato senza orario misurato. Mi limito a richiamare quanto è stato ben messo in evidenza dalla dottrina con riferimento ai rapporti di lavoro subordinato cui non si applica la disciplina dell’orario di lavoro . Mi riferisco – per esempio - al rapporto di lavoro dei dirigenti, oppure dei lavoratori a domicilio o ancora al telelavoro .
Possiamo dire, dunque, che la disciplina dell’orario di lavoro, coi suoi vincoli, non è indispensabile ai fini della qualificazione di un rapporto di lavoro come “subordinato”; tuttavia, un rapporto di lavoro subordinato richiede necessariamente che la prestazione di lavoro sia misurata nel tempo per rispondere all’esigenza di oggettivazione ai fini della sussistenza del contratto: oggettivare per misurare in funzione della protezione della salute e in funzione della determinazione del valore di scambio retributivo.
3. Il vincolo di rispetto della durata massima giornaliera e settimanale
Venendo dunque al lavoro agile, esso è disciplinato dalla Legge 81/2017 come lavoro «senza precisi vincoli di orario»; occorre interrogarsi sulla esigenza di misurazione del lavoro agile, prima di tutto in funzione di protezione della salute.
Dobbiamo tenere presente che l’assenza di precisi vincoli di orario caratterizza solo una parte della prestazione di lavoro, cioè quella svolta in modalità agile. Pertanto, possiamo intanto rimarcare il fatto che quando la prestazione di lavoro viene svolta normalmente nei locali indicati dal datore di lavoro, non vi è nulla di diverso da quanto vale per qualunque prestazione di lavoro in modalità ordinaria.
Riguardo alla prestazione agile, dobbiamo tenere presente che la protezione della salute trova assicurazione con la formale ed espressa apposizione di limiti massimi inderogabili alla durata della prestazione di lavoro agile: la prestazione di lavoro deve essere svolta «entro i soli limiti di durata massima dell’orario di lavoro giornaliero e settimanale, derivanti dalla legge e dalla contrattazione collettiva». Si tratta di un’affermazione che rimanda alla durata massima prevista dal d.lgs. n. 66/2003, che coincide con le 12 ore e 40 minuti giornalieri e le 48 ore medie settimanali. Pertanto, il limite massimo di durata della prestazione di lavoro agile esiste ed è stabilito dalla legge.
Il problema, come ho cercato di mettere in evidenza in precedenza, non si risolve semplicemente apponendo un tetto massimo alla durata del lavoro ma è necessario ricorrere a dispositivi tecnici per il calcolo dell’orario di lavoro. Si tratta di un problema ben noto per la disciplina generale dell’orario di lavoro allorché si deve stabilire quali frazioni di tempo che un lavoratore impiega per adempiere all’obbligazione contrattuale debbano essere incluse nel calcolo dell’orario di lavoro svolto. In altre parole, si tratta del problema della nozione giuridica di «orario di lavoro», necessaria a stabilire se vengono rispettati i vincoli legali.
La questione, già sollevata da alcuni commentatori della disciplina del lavoro agile , riguarda proprio la particolare conformazione organizzativa di questa prestazione.
A mio parere, nel lavoro agile il problema viene accentuato dal fatto che la prestazione di lavoro è svolta da remoto, cioè viene svolta fuori dei locali aziendali e al datore di lavoro è oggettivamente privato della possibilità di misurare il tempo di adempimento utilizzando i tradizionali strumenti di verifica: la firma del registro presenze, il badge o altri strumenti analoghi.
Ovviamente, la semplice dislocazione della prestazione di lavoro fuori dai locali aziendali non costituisce di per sé un problema dal momento che basterebbe adottare un sistema di certificazione dell’inizio della prestazione e della sua conclusione. Ma il punto in questione è proprio questo: l’assenza di «precisi vincoli di orario» allude proprio alla possibilità che venga meno quel tradizionale modo di calcolare il tempo di lavoro. Svilupperò qualche considerazione nell’ultimo paragrafo. Per adesso, mi pare evidente che, per rispettare la norma sulla durata massima giornaliera e settimanale, il tempo di lavoro deve essere necessariamente misurato, in linea – peraltro - con quanto affermato dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia . Ecco allora che si pone il problema di delimitare la durata massima presupponendo che il tempo di lavoro sia qualificato «orario di lavoro». In altre parole, le domande da porci sono: come si calcola l’orario di lavoro agile? Quando inizia la giornata di lavoro? Quando si interrompe? Quando termina?
4. Orario di lavoro e orario di riposo: quid iuris per l’orario di connessione?
In base all’art. 19 della Legge n. 81/2017, spetta all’accordo individuale disciplinare «l’esecuzione della prestazione lavorativa» regolando «le forme di esercizio del potere direttivo» da cui, in ragione della natura della subordinazione, dipende anche la disposizione dei tempi di lavoro. Pertanto, la stessa norma ribadisce che «l’accordo individua altresì i tempi di riposo del lavoratore nonché le misure tecniche e organizzative necessarie per assicurare la disconnessione del lavoratore dalle strumentazioni tecnologiche di lavoro».
Nella legge c’è una certa riluttanza ad affrontare il problema, tecnico e qualificativo, determinante nell’equilibrio complessivo, riassumibile nelle domande seguenti: qual è il tempo di lavoro che si deve calcolare ai fini della determinazione dell’orario di lavoro? Come calcolare l’orario di lavoro e come calcolare l’orario di connessione? E poi: come qualificare l’orario di connessione?
Inevitabilmente – ecco la riluttanza – non si può trattare il diritto alla disconnessione, quello sancito con maggiore chiarezza nell’art. 2 della Legge n. 6/2021, senza trattare il tema dell’orario di lavoro e del correlativo orario di riposo . D’altronde, se – come si legge in quest’ultima norma - «l’esercizio del diritto alla disconnessione [è] necessario per tutelare i tempi di riposo» e se i tempi di riposo derivano dai tempi di lavoro, diritto alla disconnessione e orario di lavoro sono facce della stessa medaglia e – aggiungo – parti della stessa regolazione.
Il Protocollo Nazionale sul Lavoro in Modalità Agile nel settore privato, firmato il 7 dicembre 2021 mostra una più adeguata consapevolezza di questo problema allorché ribadisce che l’accordo individuale deve prevedere «i tempi di riposo del lavoratore e le misure tecniche e/o organizzative necessarie ad assicurare la disconnessione» (art. 2 del Protocollo). Inoltre, stabilisce che «la prestazione di lavoro in modalità agile può essere articolata in fasce orarie, individuando, in ogni caso, in attuazione di quanto previsto dalle disposizioni normative vigenti, la fascia di disconnessione nella quale il lavoratore non eroga la prestazione lavorativa» (art. 3, comma 2).
In questa definizione, secondo il Protocollo, la disconnessione implica non erogare la prestazione lavorativa; quindi, all’inverso, la connessione è da intendere come prestazione di lavoro. Il tema, peraltro, è stato ben messo in evidenza da chi, di recente, ha ricordato che «la questione investe in particolare l’inquadramento giuridico del tempo di disponibilità alla connessione (connettibilità) del lavoratore all’interno dei confini, sempre più sfumati, dei tempi di obbligo e non obbligo lavorativo» .
Questa soluzione porta a considerare orario di lavoro anche il tempo in cui un lavoratore agile è obbligato a essere telematicamente connesso. Si tratta di una soluzione praticata in buona parte della contrattazione collettiva aziendale sul lavoro agile . Come già aveva rilevato la Relazione del Gruppo di Studio sul Lavoro agile, nominato dal Ministro del Lavoro, «la maggior parte dei contratti…vincola la disconnessione alla disciplina dell’orario di lavoro. Nel caso in cui il lavoratore agile debba rispettare gli stessi vincoli di orario del lavoro previsti per il lavoro “in presenza”, la fascia oraria dedicata alla disconnessione è determinata implicitamente, come diritto ad allontanarsi dagli strumenti lavorativi al termine della giornata lavorativa, così come definita (ed equiparata) in continuità e corrispondenza con l’attività svolta in sede».
Diversamente, il tempo di connessione, se non coincidente con l’orario di lavoro, dovrebbe essere equiparato a tutti quei periodi temporali che l’attuale disciplina non riconosce come orario di lavoro, seppur utili per l’organizzazione produttiva: si pensi al caso della reperibilità. In questa prospettiva, allora, occorre separare il tempo di lavoro qualificato come orario e rispettoso dei vincoli legali di durata massima dal tempo di connessione che, non essendo orario, ne sarebbe escluso. Ma – ripeto – questa interpretazione finisce per contrastare con quanto scritto nella legge n. 6/20121che espressamente collega la disconnessione al riposo (e quindi la connessione al lavoro).
Esiste, invero, un’altra possibilità secondo cui il tempo di connessione costituisce un tempo di terzo tipo: né orario di lavoro, né riposo pieno. Si tratta – così a me sembra – della concezione implicita in una parte dei sostenitori del diritto alla disconnessione estraneo alla disciplina dell’orario di lavoro. Ebbene, questa soluzione può trovare spazio nell’interpretazione della disciplina vigente solo quando al lavoratore agile viene riconosciuta una maggiore autonomia nella collocazione temporale della prestazione lavorativa.
Su questo profilo, però, occorre essere chiari: la disciplina che obbliga a misurare l’orario di lavoro è una disciplina che limita il potere di direzione/organizzazione del datore di lavoro. Per esempio, stabilire per contratto collettivo che la giornata di lavoro non deve superare le 8 ore giornaliere significa apporre un limite al potere di disposizione del tempo di lavoro nella durata (non ancora nella collocazione temporale). Se tale quantità di lavoro viene determinata giornalmente o settimanalmente siamo nella condizione tipica della subordinazione al potere direttivo/organizzativo.
Se, invece, il potere datoriale – tramite accordo – acconsente a che la determinazione della durata e della collocazione temporale della prestazione di lavoro venga affidata al lavoratore medesimo, l’esigenza di misurare cronologicamente il tempo di lavoro viene meno perché non si tratta più di limitare il potere datoriale. Questo modello organizzativo è previsto proprio nel Protocollo sul lavoro agile nell’art. 3 in cui si prevede che «la giornata lavorativa svolta in modalità agile si caratterizza per l’assenza di un preciso orario di lavoro e per l’autonomia nello svolgimento della prestazione nell’ambito degli obiettivi prefissati, nonché nel rispetto dell’organizzazione delle attività assegnate dal responsabile a garanzia dell’operatività dell’azienda e dell’interconnessione tra le varie funzioni aziendali». Così facendo, viene meno l’esigenza di misurare (attraverso l’orario) il tempo di lavoro perché cambia l’esercizio del potere direttivo/organizzativo su quel tempo: non rileva tanto la cronologia, lo scorrere ordinale del tempo quanto la produzione in una data unità di tempo: cioè il risultato atteso.
Si potrebbe essere indotti a pensare che, in questo modo, venga meno un indice della subordinazione (quello secondo cui al venir meno del vincolo orario conseguirebbe il venir meno del potere datoriale); ma sarebbe un errore perché significherebbe restare fermi sull’idea che c’è subordinazione solo se c’è un orario di lavoro vincolato nella durata e collocazione a limitazione del potere direttivo. Invece, come ho già detto in all’inizio, la misurazione cronologica del tempo di lavoro è solo un modo col quale oggettivare la prestazione di lavoro subordinato, ma non l’unico. In tali casi, piuttosto, occorre misurare e verificare l’adempimento della prestazione di lavoro a prescindere dall’assoggettamento al potere di determinazione cronologica della durata e della collocazione temporale. Questo è ciò cui alludono le «forme di organizzazione per fasi, cicli e obiettivi» di cui alla legge 81/2017, ossia «l’autonomia nello svolgimento della prestazione nell’ambito degli obiettivi prefissati, nonché nel rispetto dell’organizzazione delle attività assegnate dal responsabile a garanzia dell’operatività dell’azienda» di cui al Protocollo sul lavoro agile. Un altro modo di misurare l’adempimento della prestazione di lavoro subordinato.
5. La misura del lavoro agile: il risultato nel tempo
In fin dei conti, la logica sottesa al lavoro agile è quella di favorire la conciliazione dei tempi di vita-lavoro quantomeno senza danno alla produttività. Detto in parole semplici, la logica sta nel consentire che un lavoratore in modalità agile faccia il suo lavoro, cioè produca ciò che deve produrre senza necessariamente essere vincolato a una determinata durata e/o collocazione temporale della prestazione medesima. Quando si ricorre ai termini «obiettivo» s’intende ovviamente avere come parametro di riferimento dell’adempimento della prestazione un risultato prodotto; tuttavia, è bene precisare che si tratta di un risultato che è quello intrinseco a una prestazione di lavoro subordinato, il risultato atteso nell’unità di tempo.
Lavorare nei locali aziendali con un orario determinato non vuol certo dire che quella prestazione non sia tenuta a produrre un certo risultato. Si tratta di un risultato compatibile con l’assetto organizzativo complessivo e con la natura della prestazione di lavoro: per fare un esempio, un addetto alla liquidazione delle fatture di pagamento ha un risultato atteso in ogni giornata o settimana (o anche mese) di lavoro derivante dall’attesa di una certa quantità di fatture liquidate, secondo un valore stimato del tempo necessario a completare ogni singola procedura amministrativa. Inutile dire che è nella natura della organizzazione del lavoro subordinato quello di stimare il rapporto fra valore prodotto e ore lavorate: in fin dei conti, questa è la formula che descrive la produttività marginale del lavoro.
Orbene, nel lavoro agile, ciò che misura l’adempimento della prestazione non è tanto la sua dimensione cronologica quanto la sua dimensione produttiva; produttiva nell’unità di tempo stabilita. Per questa ragione la modalità agile, strutturata sulla misurazione della produttività del lavoro che è pur sempre un parametro temporale, può riguardare soltanto quelle prestazioni di lavoro che sono compatibili da remoto con l’intero assetto produttivo.
Questo vuol dire, allora, che la prestazione agile richiede una regolazione del potere direttivo/organizzativo non tanto incentrata sulla porre limiti cronologici quanto limiti al potere di richiedere una produzione eccedente quella “normale” attesa nell’unità di tempo. Insomma, si tratta di una regolazione dei c.d. carichi di lavoro, affinché essi siano compatibili con il risultato prodotto atteso nella normale giornata di lavoro (o settimana o più). Ripeto: niente di diverso da quanto atteso da un lavoratore in modalità ordinaria. In questo modo, l’autonomia del lavoratore agile si esercita non soltanto sulla collocazione temporale di tutta o parte della giornata lavorativa (viene lasciata a lui la libertà di decidere quando lavorare) ma anche sulla durata della prestazione in base all’intensità produttiva, cioè al ritmo di lavoro, anch’essa lasciata alla autonoma determinazione del lavoratore.
Si tratta, in conclusione, di concentrare l’attenzione regolativa (nell’accordo individuale o – prima di tutto – nella contrattazione collettiva) sulla misurazione del lavoro non tramite l’orario quanto tramite il risultato prodotto nell’unità di tempo.