1. Il problema del compenso nelle società di capitali.
Il tema compenso degli amministratori ha una portata trasversale nell’ordinamento giuridico: sin da tempi risalenti ha interessato – e continua a interessare – gli studiosi di diritto societario e di diritto del lavoro, oltre che (per pochi, ma non marginali profili applicativi) di diritto tributario ; in tempi recenti ha canalizzato l’attenzione mediatica (per l’impatto etico-sociale del tema) su note vicende relative a grandi gruppi industriali italiani, anche oggetto di alcune pronunce giurisprudenziali ; oggi, in particolare, è oggetto di riflessione anche sotto il profilo delle prospettive di sostenibilità di impresa .
La rilevanza dell’argomento nel diritto societario (non solo italiano) – senz’altro spiccata con particolare riferimento alle società quotate – è in vero universale nelle società di capitali: al punto tale che lo stesso è annoverato dalla Suprema Corte di Cassazione «tra i più importanti nell’ambito delle problematiche del governo societario» .
L’impatto applicativo è ancora maggiore, laddove si prenda in considerazione il concetto di remunerazione in senso lato e il discorso non venga quindi limitato al “compenso base” degli amministratori quale mera remunerazione per la carica rivestita, bensì esteso a profili che nella prospettiva fattuale paiono addirittura preponderanti: ossia, il trattamento di fine mandato (c.d. buonuscita) e i trattamenti premiali degli amministratori.
Sin da prima della riforma organica di diritto societario del 2003 il legislatore ha previsto per le società per azioni una disciplina vincolata, volta ad assicurare il massimo grado di trasparenza possibile nella determinazione del compenso degli amministratori : esigenza che, invece, è senz’altro meno sentita nelle società di persone e nelle società a responsabilità limitata . In entrambi questi ultimi casi, infatti, la diretta compartecipazione dei soci alla conduzione dell’attività di impresa sembra rendere meno rilevante l’esigenza di tutela dei diritti patrimoniali dei soci stessi rispetto a quanto accada nelle s.p.a., ove la separazione tra amministrazione e partecipazione al capitale impone maggiore cautela (e, dunque, regolamentazione) laddove si prevedano oneri patrimoniali a carico della società : ossia, nel caso di specie, i compensi degli amministratori.
La questione si articola ulteriormente – venendo all’intersezione con il diritto del lavoro – laddove si tenga conto del difficile inquadramento della natura del rapporto che intercorre tra la società e i suoi amministratori. Dalla soluzione di quest’ultimo profilo, infatti, derivano rilevanti conseguenze applicative: così, ad esempio (solo per citarne alcune), la competenza della sezione specializzata in materia di impresa o del giudice del lavoro, la legittimità o meno della previsione di gratuità dell’incarico dell’amministratore, i criteri di liquidazione del danno nel caso di revoca senza giusta causa, la pignorabilità o meno del compenso, l’ammissibilità o meno al passivo fallimentare del privilegio ex art. 2751-bis, n. 2, c.p.c.
2. La premessa: il rapporto di amministrazione quale «rapporto societario».
La qualificazione del rapporto tra amministratore e società è da sempre controversa in dottrina e giurisprudenza, i cui orientamenti sono tradizionalmente riconducibili a due filoni principali, a seconda dell’adesione alla teoria organica o contrattualistica . Il dibattito è stato solo inizialmente sopito da una sentenza della Suprema Corte a Sezioni Unite del 1994, che, in adesione alla teoria contrattualistica, ha affermato la natura parasubordinata del rapporto (c.d. interno) di amministrazione . In thesi, l’immedesimazione organica tra società e organo amministrativo che consente di imputare direttamente alla prima gli atti compiuti dal secondo sarebbe operativa solo nei confronti dei terzi (c.d. rapporto esterno); nei profili interni prevarrebbe, invece, un autonomo rapporto obbligatorio caratterizzato da etero-coordinamento e da una posizione di debolezza contrattuale dell’amministratore, da cui deriverebbe, appunto, la natura parasubordinata del rapporto .
Questi argomenti, però – ampiamente dibattuti e anche disattesi da parte della stessa giurisprudenza nei due decenni successivi – non sono parsi convincenti. Ciò, in particolare, all’esito della riforma organica del diritto societario del 2003, allorquando la materia è stata innovata sotto un duplice profilo procedurale e sostanziale.
Hanno, infatti, inciso in termini dirimenti su una diversa soluzione della questione, innanzitutto, l’istituzione delle sezioni specializzate in materia di impresa, competenti a conoscere (tra l’altro) le controversie relative ai «rapporti societari»; in secondo luogo, l’attribuzione all’organo amministrativo del generale ed esclusivo potere di gestione dell’impresa (art. 2380-bis c.c.) e la contestuale limitazione dei poteri dell’assemblea, la cui ingerenza sull’operato dell’organo amministrativo (anche ove statutariamente prevista) non ne può in ogni caso vincolare l’autonomia decisionale (art. 2364, n. 5, c.c.) .
Principalmente questi motivi hanno spinto le Sezioni Unite – chiamate nuovamente ad esprimersi nel 2017 dopo circa un ventennio – a superare il proprio precedente orientamento e a qualificare il rapporto in commento quale «rapporto societario» : ossia, un rapporto sui generis «di società», che, in ragione dell’immedesimazione tra società e amministratore quale organo deputato ad eseguire il relativo contratto, serve ad assicurare l’agire della società e, in quanto tale, non è assimilabile ad alcuna categoria contrattuale (di lavoro subordinato o parasubordinato, di mandato o di prestazione d’opera) . Il che consente di ritenere superata la distinzione fra l'attività a rilevanza esterna degli amministratori e il rapporto (interno) di natura obbligatoria di questi ultimi con la società .
In definitiva, siccome l’amministratore è «il vero egemone dell’ente sociale» , non è (più) possibile riscontrare alcun elemento di etero-direzione e debolezza contrattuale in capo allo stesso, ma deve essere valorizzata la sua figura in relazione all’agire sia interno sia esterno della società. Ne deriva l’estraneità del rapporto di amministrazione societaria alla materia lavoristica.
3. Segue. La cumulabilità degli incarichi.
La classificazione nei predetti termini del rapporto tra amministratori e società non vale ad escludere in assoluto ogni altro rapporto (di lavoro) tra le parti.
Sembra, infatti, ammissibile il cumulo tra la carica sociale di amministratore e un rapporto di lavoro subordinato, che generalmente è di tipo dirigenziale . Il tema – da tempo dibattuto – è stato risolto dalla giurisprudenza in senso affermativo , anche dopo la sentenza del 1994 che ha qualificato gli amministratori di società come collaboratori parasubordinati .
Vi è da chiedersi, però, se, superato quest’ultimo orientamento, la soluzione del possibile cumulo sia ancora condivisibile. Infatti, se si ha riguardo alla tesi dell’immedesimazione organica condivisa dalle Sezioni Unite del 2017, potrebbero trovare nuova attualità le risalenti considerazioni della dottrina e della giurisprudenza secondo cui il cumulo di cariche (di amministratore e “impiegato”) sarebbe inammissibile a causa dell’incompatibilità in un’unica figura tra la posizione di datore di lavoro (rivestita dall’amministratore quale organo in cui si immedesima la società) e, nel contempo, di prestatore di lavoro subordinato (quale sarebbe lo stesso amministratore nello svolgimento delle proprie incombenze), per carenza di due distinti centri di interesse .
Tuttavia, merita osservare, da un lato, che l’ufficio di amministratore non priva la persona che ne viene investita della capacità giuridica e, d’altro lato, che il rapporto organico interessa direttamente i terzi senza escludere che nei rapporti interni tra società e amministratori possano sussistere rapporti obbligatori . Per entrambi questi motivi lo stesso amministratore può anche intrattenere un autonomo rapporto giuridico di lavoro con la società , purché le relative mansioni siano distinguibili dalle incombenze legate alla funzione amministrativa (senza ostacolare il libero esplicarsi di quest’ultima) e purché sussistano determinati elementi sintomatici dell’ulteriore rapporto di lavoro , che può essere di tipo autonomo (anche d’opera intellettuale) , parasubordinato o subordinato . Ciò, inoltre, senza che il nomen iuris con cui il rapporto è formalizzato possa avere un ruolo interpretativo dirimente .
Ne deriva, in sintesi, un’astratta presunzione relativa di compatibilità tra i due rapporti (di amministrazione e di lavoro subordinato), salva la verifica nel caso concreto. Il tema, dunque, si sposta sul piano probatorio: da un lato, si deve trattare di mansioni che non siano ricomprese nei poteri di gestione che discendono dalla carica di amministratore; d’altro lato, deve sussistere l’assoggettamento al potere direttivo, di controllo e disciplinare dell’organo di amministrazione della società .
Conseguentemente, il cumulo sembra ammissibile non solo in capo agli amministratori privi di deleghe, ma anche in capo a membri del consiglio di amministrazione cui sia conferita la sola rappresentanza (in quanto ciò non estende automaticamente anche i relativi poteri deliberativi) o che siano muniti di deleghe comunque circoscritte . Diversamente, il cumulo non pare ammissibile nel caso dell’amministratore unico o del presidente con deleghe gestorie .
4. Fonte del rapporto, onerosità dell’incarico e clausole di gratuità.
Se, da un lato, secondo l’interpretazione preferibile, va esclusa la configurabilità del rapporto di amministrazione alla stregua di un contratto d’opera o di un rapporto di lavoro subordinato o parasubordinato (salvo, come detto, il cumulo con un’ulteriore carica di tal genere); d’altro lato, la fonte del rapporto va individuata nella c.d. assunzione dell’incarico , che avviene tramite accettazione.
Ciò, nella consapevolezza che, una volta instaurato il rapporto di amministrazione, il diritto al compenso spetta in ogni caso ex lege all’amministratore, trattandosi (quantomeno nelle società per azioni) di incarico naturalmente a titolo oneroso . Tant’è che, nell’ipotesi di mancata determinazione, l’amministratore, pur non potendo provvedere all’autoliquidazione , ha diritto a ottenere la stessa con condanna della società in via giudiziale .
Anche la determinazione del compenso – che comunque non può ritenersi implicita nella delibera di approvazione del bilancio – è oggetto non di un autonomo contratto tra la società e l’amministratore, bensì di atti tipici societari e, in particolare, della manifestazione del potere unilaterale dei soci, che nelle società di capitali è espressione di una norma organizzativa inderogabile . Infatti, salvi alcuni casi eccezionali (come per gli amministratori investiti di particolari cariche) in cui la determinazione trova la propria origine nelle deliberazioni consiliari , l’ammontare del compenso degli amministratori trova la propria determinazione nello statuto o nelle deliberazioni assembleari .
Resta, però, in ogni caso salvo il caso in cui una previsione statutaria preveda la gratuità dell’incarico o subordini la percezione del compenso al conseguimento di determinati utili , così come il caso in cui vi sia una rinuncia (eventualmente anche implicita) da parte dell’amministratore . Si tratta di fattispecie da ritenere legittime, non semplicemente perché la materia è derogabile, ma in definitiva perché la classificazione del rapporto di amministrazione quale rapporto societario e non rapporto di lavoro comporta la non applicabilità della disciplina giuslavoristica e, dunque, del disposto dell'art. 36, primo co., Cost., che altrimenti – in quanto norma immediatamente precettiva e non programmatica – imporrebbe in ogni caso il diritto a una retribuzione proporzionata e sufficiente .
5. Ulteriori ricadute applicative e disciplina applicabile.
La natura del rapporto tra amministratore e società quale rapporto societario consente di risolvere alcune ulteriori e connesse questioni applicative.
Quanto ai profili di rito, la competenza a decidere sulle controversie spetta univocamente al tribunale delle imprese secondo il rito ordinario, escludendo dunque che le stesse possano essere assoggettate al rito del lavoro ai sensi dell’art. 409, primo co., n. 3, c.p.c. .
Quanto ai profili sostanziali, ve ne sono quantomeno tre caratterizzati da diffusa rilevanza applicativa e del resto oggetto di numerose pronunce giurisprudenziali. Per un verso, in caso di revoca dell’amministratore senza giusta causa, la liquidazione dei relativi danni deve avvenire secondo i criteri generali previsti dagli artt. 1223 e 2697 c.c. e non equiparando la vicenda alla risoluzione di un contratto di lavoro (subordinato) . Per altro verso, il compenso dell’amministratore non è soggetto ai limiti di pignorabilità previsti dall’art. 545 c.p.c., in quanto non si tratta di stipendio o indennità relativa al rapporto di lavoro . Infine, il credito vantato dall’amministratore nei confronti della società, ai fini dell’ammissione al passivo fallimentare, ha natura chirografaria e non è assistito dal privilegio mobiliare generale di cui all’art. 2571-bis, n. 2, c.c., essenzialmente perché è da escludere che si tratti di un contratto di prestazione d’opera (ai sensi dell’art. 2230 c.c. o comunque ai sensi dell’art. 2222 c.c.), oltre che per ragioni di equità .