Testo integrale con note e bibliografia

L’art. 27 della legge 5 agosto 2022, n.118

Premessa

Il giorno 14 Luglio 2022, mentre in Senato si dibatteva sulla conversione del D.L. Aiuti, in Commissione X alla Camera dei Deputati, si svolgevano i lavori parlamentari sul disegno di legge: “Legge annuale per il mercato e la concorrenza 2021”.
Nel corso della discussione sull’Art. 27, rubricato Delega al Governo in materia di semplificazione dei controlli sulle attività economiche, venivano approvati gli emendamenti identici D'Ettore 28.16, Barzotti 28.17 e Bruno Bossio 28.19 che hanno dettato due criteri di delega funzionali da un lato, ad inserire i creatori di contenuti digitali nel quadro giuridico italiano, dall’altro a rispondere alle istanze emerse all’esito dell’Indagine conoscitiva sui lavoratori che svolgono attività di creazione di contenuti digitali svoltasi in Commissione XI (Lavoro pubblico e privato).
In particolare, la novella (Art. 27 della L. 5 Agosto 2022 n. 118 c.d. D.L. Concorrenza) ha previsto che il Governo debba: i) individuare specifiche categorie per i creatori di contenuti digitali rispetto all’attività economica svolta; ii) prevedere meccanismi dedicati alla risoluzione alternativa delle controversie tra creatori di contenuti digitali e relative piattaforme.
È la prima volta che il legislatore italiano parla con i creatori di contenuti digitali e lo fa dopo un percorso durato quasi due anni. All’inizio dell’anno successivo alla pandemia, ci fu l'interrogazione a risposta immediata n. 5-05239 in Commissione Lavoro del 12.01.2021 , poi l’indagine conoscitiva (d’ora in poi, l’Indagine”) e, infine, questa proposta normativa che non vuole né può essere risolutiva delle problematiche lamentate dagli operatori del settore. Si tratta di una norma di compromesso, frutto del tempo in cui viviamo e che vuole dare un segnale di attenzione a una community quantomai vitale e creativa.
Un primo, ma grande passo per dare impulso a una serie di riflessioni sul tema dei creatori di contenuti digitali e del settore digital tech che vede protagonisti ecosistemi globali peculiari dove gli attori sembrano trovarsi in una posizione di dipendenza prima di tutto sociale e poi, economica.
Come noto, lo stesso rappresenta oramai un settore trainante, se si pensa che solo negli ultimi due anni oltre 165 milioni di persone sono entrati a far parte della c.d. creator economy, con una crescita significativa negli Usa (+34 milioni), in Spagna (+10 milioni), nella Corea del Sud (+11 milioni) e in Brasile (+73 milioni). In Italia, solo la piattaforma Youtube ha generato nel 2020 un impatto economico sul PIL Italiano di 190 milioni di euro.
La creator economy è, peraltro, una costante nelle logiche aziendali e il suo consolidamento e sviluppo appare in forte crescita secondo i dati elaborati lo scorso anno dall’ONIM – Osservatorio Nazionale Influencer Marketing.
Secondo il Report brand & Marketer 2021, circa il 53,9% degli intervistati ha attivato progetti tramite creator, con un 37,3% di questi che hanno realizzato più di 10 campagne negli ultimi 12 mesi. Un dato che conferma la centralità acquisita dall’influencer marketing nelle strategie dei brand. Secondo le analisi del citato osservatorio italiano, il primo elemento ad emergere è come l’impiego delle campagne di influencer marketing abbia continuato la sua crescita, sia come utilizzo che, soprattutto, come indice di soddisfazione. Il 79,99% degli intervistati si dichiara da “soddisfatto” ad “ampiamente soddisfatto”.
Come dichiarato dal Presidente di UPA – Utenti Pubblicità Associati , Dott. Lorenzo Sassoli de Bianchi, al convegno “Influencer Marketing 2021” tenutosi in data 14 settembre 2021 a Milano, gli investimenti in influencer marketing nel 2021 in Italia, sono stati pari “272 milioni di euro, con una crescita del +12% rispetto al 2020. A ricorrere a questa leva sono ormai quasi tutti i settori: dal fashion alla cosmetica, dalla tecnologia all’automotive, fino al largo consumo, in grande aumento nel biennio pandemico 2020/2021”.
Al passare degli anni, il quadro economico-sociale restituito dalle piattaforme digitali è mutato radicalmente. Con lo sviluppo dei social network, infatti, sono stati realizzati modelli di business volti a valorizzare sul piano economico l'utilizzo dei dati e dei contenuti prodotti dagli utenti, favorendo in questo modo la nascita e la crescita della figura dei creatori di contenuti professionali e il riconoscimento degli operatori più attivi.
Tale figura, del tutto peculiare, come è noto ed evidente a tutti i protagonisti di questa economia digitale, è cambiata ontologicamente nel corso del tempo, a partire dall’originaria definizione del 2007 dell’Ocse, in cui il content creator era chi produceva contenuti solo in modo amatoriale, quindi, al di fuori della sfera della propria attività professionale; allo stato, evidentemente non è più così.
Ci sono persone, nel web. Utenti di servizi digitali che contestualmente producono attivamente contenuti e creano comunità sociali virtuali. In forza di un rapporto di dipendenza sociale ed economica con la piattaforma digitale, il content creator riesce ad avere introiti tali da mantenersi nel tempo e fa di questo valore aggiunto il proprio lavoro .
In effetti, come è stato autorevolmente ricordato, in base all’articolo 35 della Costituzione la Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme e applicazioni , sembra ormai inevitabile parlare di lavoro e non solo di servizi digitali. Se è vero, infatti, che gli operatori della rete sfruttano il potenziale di autonomia, creatività e produzione innovativa assicurato dalle piattaforme digitali, spesso i protagonisti di questa economia sono utenti-lavoratori o comunque, come richiamato in dottrina, “forme molecolari di autoimprenditorialità” che necessitano di un minimo di stabilità e possibilità di programmazione, trasparenza e rispetto dei diritti fondamentali.
L’inevitabile squilibrio contrattuale che caratterizza questo rapporto, va controbilanciato. Lo stesso, infatti, si traduce innanzitutto nella determinazione unilaterale di termini e condizioni del rapporto contrattuale e commerciale da parte della piattaforma e nell’impossibilità per gli utenti che non abbiano un potere contrattuale legato alla propria community di incidere in alcun modo. Le problematiche emerse nel corso dell’Indagine sembrano essere, peraltro, le medesime che l’Unione europea sta approcciando con diversi atti inerenti all’economia digitale. A partire dal regolamento (UE) 2019/1150, entrato in vigore intorno alla metà del 2020, che ha inteso assicurare una protezione uniforme degli utenti commerciali delle piattaforme elettroniche, all’adozione di un insieme di ulteriori proposte regolamentari volte a disciplinare il mondo digitale, nell'ambito del quale si possono annoverare il Digital Service Act e il Digital Market Act.
Tanto premesso, si è ritenuto innanzi tutto necessario prevedere il riconoscimento delle figure professionali esistenti con categorie amministrative aggiornate.

I° criterio di delega: individuare specifiche categorie per i creatori di contenuti digitali rispetto all’attività economica svolta
A fronte di un quadro normativo che, specialmente a livello continentale, è in continua evoluzione, dall’Indagine è emerso che nel nostro Paese manca ancora una soddisfacente ricostruzione del fenomeno della creazione di contenuti digitali basata su dati amministrativi o statistici ufficiali. Inoltre, è risultato palese che le categorie esistenti sono desuete e inadatte a classificare le nuove professioni.
Conseguentemente, il primo criterio di delega introdotto dal D.L. Concorrenza nell’ambito di questo settore è quello di: “individuare specifiche categorie per i creatori di contenuti digitali rispetto all’attività economica svolta”.
Tale disposizione presuppone, da un lato, che le piattaforme digitali possono intermediare sostanzialmente ogni prestazione di servizio, tecnica o professionale. Dall’altro che esistono microimprenditori digitali che necessitano di essere inquadrati correttamente nell’ambito dei loro rapporti amministrativo-contabili con lo Stato.
Si tratta, in sintesi, di elaborare Codici Ateco aggiornati e idonei a descrivere correttamente le diverse attività digitali.
La questione “Codice Ateco” è stata ampiamente trattata nell’ambito dell’Indagine e ha trovato posizioni differenti circa l’utilità di questo strumento.
Secondo diversi operatori sarebbe necessario aggiornare le forme classificatorie, in modo da non avere conseguenze anomale dovute al disallineamento tra la professione svolta e le categorie giuridiche effettivamente adottate dagli enti preposti ai controlli e, in particolare, di adeguare l’apparato statale a queste nuove professioni, sia dal punto di vista della raccolta di informazioni che dal lato della verifica della regolarità contabile-amministrativa.
Inoltre, l’introduzione di un codice ATECO specifico, secondo gli operatori auditi, permetterebbe, ad esempio:
 di quantificare da un punto di vista statistico il volume dell’attività dei content creator, uniformare il regime contributivo e previdenziale, eventualmente prevedendo forme e/o ammortizzatori sociali, oltre a valutare la consistenza dell’attività ai fini dell’imposizione fiscale;
 di esercitare l’attività del creator come ulteriore professione favorendo il riconoscimento, anche da parte delle associazioni di categoria, delle professionalità che attualmente vengono svolte attraverso la forma dello streaming o della produzione di contenuti digitali: ad esempio avvocati – scrittori – attori “digital” e molte altre.
In Italia, in assenza di codici ATECO specifici per le varie tipologie che compongono la categoria (streamer, content creator, podcaster, etc.), sono state utilizzate una molteplicità di codici differenti come il n. 73.11.01 per l’ideazione di campagne pubblicitarie, il n. 73.11.02 per la conduzione di campagne pubblicitarie, il n. 74.90.99 per le altre attività professionali NCA, il n. 90.01.09 per altre rappresentazioni artistiche.
Questo disallineamento, in effetti, può determinare lacune di tutela e anomalie burocratiche che devono essere evitate perché l’economia dei content creator va sostenuta e promossa.
A fronte dell’istanza proposta dai soggetti intervenuti in audizione, ISTAT ha tenuto un atteggiamento più prudente.
L’istituto ha comunicato che nell’ambito del processo di revisione delle classificazioni esistenti in ambito europeo, non è stato ritenuto necessario procedere alla creazione di una nuova classe di attività, prevedendosi che – nei casi in cui si tratti di distribuzione per coloro che ne producono i contenuti – le attività siano incluse nella sezione J “Servizi di informazione e comunicazione”, seppur di recente si è valutato un ingresso anche nella sezione M “Attività professionali, scientifiche e tecniche”. Nel caso di servizi forniti da parti terze, occorrono invece ancora approfondimenti.
Più nello specifico, i rappresentanti dell’ISTAT, nel ricordare che la rappresentazione delle piattaforme digitali attraverso la classificazione statistica delle attività economiche ATECO è attualmente oggetto di discussione a livello internazionale nell’ambito del processo di revisione delle classificazioni ISIC (International standard industrial classification of all economic activities) e NACE (Nomenclature statistique des activités économiques dans la Communauté européenne), elaborate rispettivamente dalla Divisione Statistica delle Nazioni Unite e da Eurostat, hanno tuttavia segnalato che l’attribuzione di un codice ATECO più o meno provvisorio a livello italiano alle attività di creazione digitale non avrebbe senso, se tale inserimento non fosse il frutto di una valutazione di carattere statistico operata a livello internazionale .
E’ indubbio che il fenomeno vada affrontato a livello europeo, ma a fronte dell’importanza assunta progressivamente dalla creator economy, dell’assenza di dati statistici sufficienti a descrivere il fenomeno in Italia (essendo insufficiente il ricorso a metodi di survey non ufficiali) e degli accertamenti fiscali che sono stati effettuati rispetto a diversi operatori si è scelto di inserire il Codice ATECO all’interno dei criteri di delega in modo da sollecitare le varie istituzioni coinvolte ad adottare le opportune iniziative per poter intervenire tempestivamente sul settore in coerenza con lo scenario internazionale e con i regolamenti adottati dall’Unione Europea.
D’altro canto è palese come i rimedi alternativi sinora individuati a livello di Sistema Paese non si stiano dimostrando adeguati a contrastare eventuali fattispecie di lavoro sommerso, ma prima ancora a sollevare l’interprete da tanto macchinose quanto rigide valutazioni rispetto all’inquadramento fiscale e contributivo in cui ricondurre la propria attività a fronte delle specifiche peculiarità che contraddistinguono quest’ultima e che possono giustamente variare da professionista a professionista in base al business model singolarmente adottato.
Con riferimento agli influencer, ad esempio, quest’ultimo potrebbe essere incentrato più sulla monetizzazione ottenuta tramite l’attività di advertising realizzata in proprio da una specifica piattaforma social media che sulla sponsorizzazione diretta di determinati brand tramite i propri canali e relativi contenuti dedicati e ciò, di per sé, potrebbe consentire l’applicazione analogica o meno di un Codice Ateco rispetto ad un altro .
Tale prospettazione rende evidente l’esigenza di ricorrere a misure dedicate per le professioni di nuova generazione e tale assioma non appare circoscrivibile al tema d’indagine della presente pubblicazione.
II° criterio di delega: prevedere meccanismi dedicati alla risoluzione alternativa delle controversie tra creatori di contenuti digitali e relative piattaforme

Come già anticipato, il secondo criterio di delega al Governo è quello di “prevedere meccanismi dedicati alla risoluzione alternativa delle controversie tra creatori di contenuti digitali e relative piattaforme”.
Un’altra criticità sollevata era relativa alle segnalazioni e alle chiusure di account; nel caso in cui insorgano problemi tra operatore e piattaforma digitale vi è una procedura di reclamo; però, laddove il reclamo rimanga inesitato oppure vi siano tempi lunghi per la risoluzione delle problematiche, è del tutto evidente che l’introduzione di meccanismi di risoluzione alternativa delle controversie può rappresentare sicuramente una risposta pronta ed efficace, che va incontro e sostiene sia il creatore di contenuti digitali che l’economia di cui sono protagonisti.
La norma è coerente con quanto disposto a livello comunitario, in particolare, con le previsioni di cui al Regolamento del Parlamento europeo e del consiglio relativo a un mercato unico dei servizi digitali (legge sui servizi digitali) e che modifica la direttiva 2000/31/CE.
Nello specifico, la sez. 3 del citato testo “Disposizioni aggiuntive applicabili alle piattaforme online digital service act” prevede esplicitamente questa fattispecie all’Art. 18 per i casi di decisioni unilaterali prese dalle piattaforme digitali aventi ad oggetto la sospensione di servizi nonché per i casi di reclami non riscontrati o riscontrati negativamente tramite il sistema interno di gestione degli stessi.
Nel rispetto del Regolamento comunitario approvato, il legislatore italiano sarà tenuto, quindi, a rispettare una serie di principi nell’attuazione della delega conferita:
1) lasciare in ogni caso impregiudicato il diritto di ricorrere alla giustizia ordinaria;
2) prevedere organismi di risoluzione stragiudiziale competenti, imparziali e indipendenti dalle piattaforme online e dai destinatari del servizio prestato dalle piattaforme online;
3) garantire una facile accessibilità agli stessi attraverso le tecnologie di comunicazione elettronica, ma anche in termini di lingua che dovrà essere dell’unione europea (almeno una);
4) garantire efficacia e efficienza di azione in termini di rapidità della procedura, ma anche sotto il profilo dei costi;
5) prevedere regole procedurali chiare ed eque.
A tali principi dovranno essere affiancati gli obblighi di comunicazione previsti dal combinato disposto degli Artt. 13 e 23 secondo cui sulle piattaforme digitali grava l’obbligo di fornire informazioni, tra le altre, sul numero di controversie sottoposte agli organismi di risoluzione extragiudiziale delle controversie, i risultati della risoluzione delle controversie e il tempo medio necessario per completare le procedure di risoluzione delle controversie.
Attualmente, in data 23 giugno 2021, al fine di dare concreta attuazione sul piano nazionale alla regolamentazione comunitaria in materia di servizi digitali, la Commissione IX della Camera dei Deputati ha indicato l'Autorità per le garanzie delle telecomunicazioni quale organismo di diritto interno più idoneo a svolgere le funzioni di coordinatore in materia di servizi digitali, ma tale autorità non sembra avere competenze specifiche nell'ambito dei rapporti di lavoro o comunque in materia di dipendenza sociale ed economica come è quella dei creatori di contenuti digitali rispetto alle piattaforme sulle quali operano.
Fondamentale è, dunque, avviare le iniziative opportune al fine di garantire la corretta attuazione della normativa in oggetto.

Conclusioni

Le modifiche introdotte sono il frutto di un approfondito lavoro svolto in XI Commissione alla Camera dei Deputati, nell’ambito di un’indagine conoscitiva deliberata all’inizio del 2021 e votata all’unanimità sia nel suo avvio che nella sua conclusione il 9 marzo 2022. Il lavoro è stato molto intenso, sono stati convocati operatori del settore, professori universitari, giuristi, esperti e chiaramente c’è stata una dialettica, con la partecipazione anche di alcune piattaforme digitali. All’esito di quell’Indagine è stato stilato un documento che ha elencato le caratteristiche principali dell’economia dei cosiddetti digital creators, dell’attività lavorativa che viene svolta all’interno delle piattaforme ed alcune criticità che sono emerse. Ebbene, nell’ambito di questo lavoro, sicuramente ambizioso, è stato importante ricostruire, in termini storico-economici e sociali la figura del content creator e creare così finalmente un canale di comunicazione diretto all’interno della Camera dei Deputati e, segnatamente, in seno alla Commissione lavoro. Il documento, poi, ha costituito la base per muovere i primi passi a sostegno di questa economia, con la novella inserita all’interno del D.L. Concorrenza oggetto del presente elaborato.
Ovviamente, le norme devono essere - e, in questo caso, lo sono - coerenti con il quadro normativo europeo, che è in continuo aggiornamento, ma che comunque già comprende e dispone l’adozione di questo tipo di soluzioni, soprattutto per quanto riguarda i meccanismi di risoluzione alternativa delle controversie.
D’altro canto, anche a livello comunitario, permane solarmente l’esigenza di intervenire e regolamentare un fenomeno che, come abbiamo avuto modo di ricostruire in precedenza, si è insinuato nelle dinamiche del mercato globale al pari di quanto avvenuto in epoche passate con gli operatori di altrettanti mezzi di broadcasting, considerati ormai “tradizionali”.
Tanto il dato comunitario quanto quello italiano, rilevano una notevole crescita nell’utilizzo dei social network rispetto all’anno precedente, quando lo stesso era stato del 54% a livello europeo e del 42% a livello nazionale, dimostrando l’importanza e la crescente diffusione dei nuovi media digitali tra la popolazione.
A ciò si aggiunga che, l’Italia, secondo i dati divulgati dalla Global Consumer Survey, nella classifica di Statista, è considerato il quarto paese al mondo che gode del forte “potere” degli influencer di orientare gli acquisti dei consumatori, rispettivamente dopo il Brasile, l’India e la Cina. Emerge, inoltre, che tra gli Europei, gli italiani sono i più “influenzabili”, in quanto il 22% del campione intervistato ha dichiarato di aver effettuato un acquisto per una celebrità o un influencer che sponsorizzava il prodotto (il sondaggio di Statista è stato effettuato su un campione variabile fra 1.000 e 7.600 utenti per Paese).
Ed ancora, il 68% dei brand sta pianificando un aumento di budget per l'influencer marketing nel 2022, mentre un 14% confermerà anche per quest’anno il valore di budget assegnato nel 2021.
In definitiva, c’è tantissimo da esplorare, teorizzare e disquisire sul fronte dei nuovi lavori, delle nuove professioni e delle nuove frontiere di tutela , però quelli in oggetto sono due interventi puntuali, che si pongono come un primo grande segnale per il mercato del digital tech nonché per l’aggiornamento del nostro quadro normativo che deve essere all’altezza delle sfide poste dall’innovazione.

 

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