TESTO INTEGRALE CON NOTE E BIBLIOGRAFIA
Non solo i lavoristi ma soprattutto filosofi e sociologi hanno colto la metamorfosi mimetica del potere nella società moderna: il potere non è più manifestazione di alterità, di comando, di imposizione, di controllo e correzione. Il potere si è trasformato in seduzione e ottiene quanto esige, presentandosi con abiti più adeguati alla modernità; è oramai «spinta gentile» che seduce e induce l’individuo ad auto-allinearsi agli scopi di chi il potere continua a esercitarlo.
La logica filosofica in parola fa da sfondo all’evoluzione dei modelli di organizzazione del lavoro che dall’organizzazione scientifica del lavoro – che si concreta nell’individuazione di metodi e tempi esatti, puntellati da direttive e da un pressante controllo sulla prestazione di un lavoratore passivamente soggetto come l’operaio Schmidt di Tayloriana memoria – sono approdati al cd. just in time, il quale, come derivazione del Toyotismo, richiede e sollecita partecipazione, creatività, autocontrollo e dinamismo.
Ragionando di lavoro agile e, quindi, di lavoro subordinato tout court è il cd. managemen by objective (MBO) a catturare l’attenzione ponendosi al centro di riflessioni dottrinali che descrivono una prestazione diligente trasfigurata, perché legata al raggiungimento di risultati, che divengono oggetto dell’obbligazione lavorativa, slegata da un tempo misurato cronometricamente. L’MBO nell’organizzazione piatta (cd. flat) che predica fiducia, responsabilizzazione e engagement (inteso come adesione personale ai valori aziendali), induce il lavoratore a portare a termine gli obbiettivi assegnati e, al contempo lo seduce, con premi individuali, bonus e retribuzioni variabili calcolate in piccola percentuale sulla retribuzione annua lorda.
Si può solo supporre, dati gli insuperabili limiti connessi all’essere giurista che, dalla prospettiva del management, costruire obbiettivi temporizzati qualitativi e/o quantitativi, da assegnare al lavoratore dividendo il suo carico di lavoro in segmenti, porzioni o anche risultati economico-finanziari raggiungibili per il tramite di un’attività assidua, renda più semplice un (ineliminabile) controllo sull’attività lavorativa finalizzato a verificare la produttività della performance del singolo lavoratore . Sul concetto di produttività del lavoro sia consentito però uno sviamento, dovuto all’assenza di evidenze circa la relazione di causa effetto che intercorre tra assegnazione degli obbiettivi (MBO) e aumento della produttività del lavoro. Tale collegamento si può solo presumere da alcuni dati ricavati da due Ricerche svolte sul campo proprio sul lavoro agile che, peraltro, è testualmente disciplinato dalla l. 81/2017 al fine di un aumento della produttività. I due indizi sono innanzitutto, il preoccupante aumento del tempo lavorato, oltre l’orario normale, non accompagnato da modifiche in aumento della retribuzione, né compensato come lavoro straordinario; il secondo risiede nella diminuzione dei tassi di assenteismo .
Produttività e tempo di lavoro non possono che richiamare l’ulteriore e diverso concetto di rendimento definito dall’art. 2101, co. 3, c.c. – che impone al datore di lavoro di comunicare nella tariffa di cottimo i dati sulla «quantità di lavoro eseguita» e sul «tempo impiegato» – ed autorevolmente spiegato come «il rapporto tra tempo dedicato alla prestazione e il risultato conseguito» .
Si può dire in via general-generica che nel lavoro (agile) per obbiettivi, il rendimento sarebbe espresso dal rapporto tra tempo impiegato dal lavoratore e segmenti di lavoro realizzati nell’interesse economico-organizzativo del creditore della prestazione (il numero di vendite di una polizza, se l’obbiettivo è quantitativo o il risparmio finanziario conseguito nella progettazione di un cantiere, se l’obbiettivo è costruito attraverso parametri economicistici-finanziari).
Dopodiché, il percorso del giurista è solo in salita in quelle che Mengoni aveva definito le “vette alpine” del diritto del lavoro, perché si tratta di capire se le trasformazioni dei modelli organizzativi aziendali e i loro scopi “produttivi” debbano anche apportare delle torsioni al sistema giuridico che, da un lato, non può essere concepito come un pesante e statico fardello, ma dall’altro lato, deve poggiare su coordinate di fondo che lo rendano pronto a fornire di una disciplina ragionevole ai nuovi assetti e conflitti di interessi che, via via, si appalesano all’interprete.
2. Disclaimer: il lavoro agile è una modalità organizzativa del lavoro subordinato e ciò importa l’affermazione dell’unitarietà della fattispecie e della disciplina applicabile.
Prima di cominciare il discorso circa la relazione tra adempimento diligente e rendimento è opportuno premettere che a parere di chi scrive il lavoro agile e il lavoro subordinato debbano essere trattati, almeno per quanto riguarda la disciplina che si sta esaminando, come un unico tipo contrattuale. Chi scrive ritiene, infatti, che il lavoro agile disciplinato dalla l. 81/2017 non costituisca deviazione causale né un nuovo schema tipico rispetto al contratto di lavoro subordinato di cui all’art. 2094 c.c.
Non soltanto perché di fatto l’organizzazione del lavoro per fasi, cicli e obbiettivi è implementata anche nel lavoro subordinato tout court da diversi anni; ma soprattutto perché è forte la convinzione che il lavoro agile non possa essere giuridicamente concepito come un nuove schema astratto specializzante incentrato, come parte della dottrina ha sostenuto , sulla negoziazione della esistenza e anche della sostanza del potere direttivo e di comando che nel contratto di lavoro subordinato, non sarebbe né disponibile né eliminabile dalle parti. Ci si limita a ricordare che la subordinazione è contratto di durata in cui il potere direttivo e di controllo garantiscono la funzionalità del rapporto nel tempo. Da ciò deriva che è implausibile una negoziazione (con tutto ciò che ne comporta in termini di trattativa pre-contrattuale) volta a estinguere un potere privato unilaterale previsto dalla legge per fini dati, sostituendolo con un patto contrattuale che, viceversa, regola un certo assetto d’interessi pietrificandolo in un dato momento e che necessiterebbe di costanti rinegoziazioni in corrispondenza di diversi equilibri degli interessi raggiunti dalle parti nel tempo.
Non ci si intratterrà oltre sulla infelice formulazione legislativa che ha previsto che datore e lavoratore con patto di lavoro agile contrattano «le forme» del potere direttivo e di controllo, e si procederà oltre chiarendo i termini della questione che si vuole affrontare.
3. La misura della diligenza esigibile e i profili quantitativi dell’adempimento tra vecchi e nuovi dubbi interpretativi sul concetto di «interesse dell’impresa» (cfr. art. 2104, co. 1, c.c.)
È noto che l’art. 2104, comma 1, c.c. preveda che «la diligenza» che il prestatore deve usare per rendere la prestazione è quella «richiesta dalla natura della prestazione dovuta, dall’interesse dell’impresa e da quello superiore della produzione nazionale» .
Lasciando dunque in disparte l’analisi dell’interesse superiore della produzione nazionale, che è pacificamente svalutato con il superamento dell’ordinamento corporativo , la norma contiene due parametri cui rapportare il dovere di diligenza nell’adempimento delle obbligazioni del prestatore di lavoro: il primo è quello della natura della prestazione che secondo la dottrina rimanda ad «una valutazione deontologica del contegno esecutivo del debitore» .
Sul secondo si concentrerà l’attenzione di qui in poi.
L’interesse dell’impresa è inteso dalla dottrina come un criterio valutativo dell’adempimento dell’obbligo lavorativo previsto in funzione della protezione della sfera giuridica del creditore datore di lavoro, inteso quest’ultimo come portatore di un interesse qualificato alla funzionalità e organizzabilità dei fattori produttivi e degli apporti umani all’interno della propria attività economica, se non altro perché «l’interesse dell’impresa è, prima di tutto, interesse di chi la gestisce e, per gestirla, si procura le prestazioni di lavoro; se si preferisce, l’interesse del creditore come gestore dell’organizzazione» . In questa prima accezione, dunque, il prestatore di lavoro dovrebbe garantire al proprio creditore una prestazione diligente, che abbia cioè le qualità di utilizzabilità e integrabilità all’interno della dimensione organizzativa aziendale concreta .
I problemi interpretativi incominciano, però, quando ci si domanda se una prestazione diligente, ex art. 2104, co. 1, c.c. debba anche assicurare al creditore datore di lavoro che, ne ha «interesse», lo svolgimento di un certo numero di attività – materialmente quantificabili in risultati esterni (tot di contratti/raggiungimento di un certo fatturato attraverso la stipulazione di contratti) – e/o che possono essere scandite da un ritmo e/o da una intensità di lavoro.
Come è stato efficacemente detto «la vera novità» è «il punto di confine tra la diligenza e l’obbligazione di risultato» .
Va intanto premesso che nessuno in dottrina dubita che l’obbligo di facere diligenter che il lavoratore assume quando riceve le disposizioni per l’esecuzione del lavoro escluda in radice che la persona si limiti a garantire la mera presenza fisica in un tempo svuotato di attività e perciò un minimo di intensità del lavoro deve poter essere misurabile dal creditore perché l’esecuzione del lavoro risulti diligente.
Ma possiamo anche dire che la misura entro cui la prestazione può dirsi diligente coincida con quella sottesa all’interesse datoriale ad un determinato rendimento ? E di converso, la prestazione di lavoro utilmente integrata nell’organizzazione, ma che non rende come si era prefigurato il datore di lavoro costituisce inadempimento delle obbligazioni lavorative?
La questione sembra essere destinata a espandersi con il lavoro (agile) scandito dagli obbiettivi, dal momento che le questioni poste dalle clausole contrattuali di rendimento minimo (che individuano un numero di affari contrattualmente garantiti di figure lavorative come i venditori e i procacciatori di affari), potrebbero riproporsi in nuove vesti. È, infatti compatibile con la logica del cd. Management by objectives , la costruzione di obbiettivi quantitativi che, cioè, siano articolati al proprio interno in micro-attività che il lavoratore è tenuto a svolgere in tempi cadenzati (o “temporizzati”, secondo il linguaggio del MBO) o che definiscano indicatori economici target (un certo importo di fatturato) utilizzati dall’impresa per controllare e valutare la bontà dell’adempimento della prestazione e non soltanto – come accade nella maggior parte dei casi – per definire forme di retribuzione variabili incentivanti .
3. Le posizioni della dottrina.
Una primissima soluzione delle questioni accennate sopra si ritrova in Mortillaro , ad avviso del quale il lavoratore assumerebbe un obbligo di rendimento integrativo rispetto al dovere di eseguire la prestazione che lo rende perciò debitore di lavoro «utile» in considerazione del risultato economico atteso dal datore di lavoro che attraverso la prestazione aspira a soddisfare un bisogno economico.
L’impostazione, però, dilata eccessivamente il dovere di collaborazione del prestatore di lavoro e non stabilisce una relazione tra rendimento e diligenza. Pur avendo il merito di scavare a fondo nel concetto economico di rendimento, non vi si trova alcun appiglio giuridico per identificare la misura della diligenza dovuta in relazione all’interesse del creditore all’adempimento affinché si possa parlare di adempimento diligente.
Per una diversa opinione, riconducibile al prof. Marazza, «l’individuazione unilaterale della produttività attesa altro non è che una forma di organizzazione interna della prestazione di lavoro subordinato» . In questa logica, il livello di produttività richiesto e, se ben si intende, il rendimento atteso – pur se da valutare in relazione al complesso organizzativo in cui si inserisce – divengono oggetto di disposizione unilaterale del datore di lavoro cui il prestatore sarebbe tenuto ad obbedire. Quindi, il raggiungimento di risultati quantitativi attesi dal datore di lavoro (sia che si tratti di indicatori economici sia di micro-attività temporizzate) diverrebbe obbligatorio, salvo soltanto il limite della «esigibilità» oggettiva .
Questa tesi che pure ha il pregio di risolvere definitivamente i dubbi dottrinali sulla deviazione del tipo del lavoro agile, spiegando che l’organizzazione interna della prestazione per obiettivi è pur sempre una derivazione del potere del datore di lavoro, sembra però far discendere l’obbligo di assicurare una prestazione che renda il quantum prefigurato dal datore di lavoro dal dovere di obbedienza di cui al comma 2 dell’art. 2104 c.c. e non invece da quello, autonomo, di diligenza in executivis.
Peraltro questa prospettiva meriterebbe di essere completata attraverso lo studio di limiti al potere che garantiscano al prestatore di lavoro di obbligarsi a svolgere una prestazione esigibile anche soggettivamente, ossia considerando gli obblighi ex art. 2087 c.c. che il datore di lavoro ha quale creditore della sicurezza della prestazione e della integrità psicofisica del prestatore (cfr. art. 41, co. 2, c.c.). Il che implica un complicato studio organizzativo delle metriche di lavoro che riguardano il lavoro per obbiettivi.
Il punto cruciale sta allora nella delimitazione della clausola implicita di intensità minima della prestazione contenuta nel contratto di lavoro . A tal fine, trova condivisione quella tesi dottrinale che aggancia «l’intensità minima della prestazione ai parametri di normalità della prestazione diligente, nel senso che tale prestazione non è concretamente utilizzabile in un dato contesto produttivo e organizzativo se non raggiunge quella soglia di tipo quantitativo che ne definisca la stessa qualità» . Tale normalità però andrebbe considerata in senso oggettivo e non invece tenendo esclusivamente in considerazione l’interesse esclusivo del datore di lavoro nel caso concreto. Come è stato infatti efficacemente scritto «l’interesse dell’impresa» nell’ambito dell’art. 2104 c.c. costituisce un «indicatore normativo» al quale è affidato «l’ufficio di esprimere il momento finalistico del vincolo» e perciò non vale a trasformare una obbligazione di contegno in una di risultato, spostando il rischio del mancato raggiungimento del risultato sul prestatore . Il datore di lavoro non può vantare, in altri termini, una pretesa ad ottenere qualsiasi performance discrezionalmente da lui predeterminata e quantificata , poiché una valutazione di esigibilità dell’adempimento del prestatore si rende pur sempre necessaria, non solo perché il mancato raggiungimento del risultato potrebbe dipendere dall’organizzazione datoriale, ma anche perché nell’analisi del concetto multiforme d’interesse dell’impresa s’impone «una valutazione comparativa degli interessi del prestatore e del datore di lavoro» , una valutazione cioè che non può non tenere conto del permanente conflitto d’interessi che permea il contratto di lavoro.
4. Le risposte della giurisprudenza sullo scarso rendimento soggettivo della prestazione scandita per obbiettivi o soggetta a minimi quantitativi
La giurisprudenza posta di fronte a licenziamenti disciplinari per scarso rendimento ha escluso che il mancato raggiungimento degli obbiettivi o dell’auspicato risultato produttivo possa da solo determinare il notevole inadempimento degli obblighi contrattuali ex art. 3 l. 604/1996 (o dell’inadempimento che non consente la prosecuzione provvisoria del rapporto ex art. 2119 c.c.). E ciò resta confermato anche nelle ipotesi in cui siano stati pattuiti da datore di lavoro e lavoratore minimi quantitativi.
Ad avviso della giurisprudenza, infatti, il lavoratore è obbligato ad un contegno diligente e non invece a produrre risultati. Se ne può desume che il rendimento atteso dal datore di lavoro non può essere veicolato all’interno dell’obbligazione lavorativa, poiché esso conferirebbe rilevanza al cd. risultato esterno dell’obbligazione che coincide integralmente con il primario interesse del creditore , il quale è incompatibile con la classica valutazione dell’adempimento nel rapporto di lavoro che comporta una considerazione complessiva del contegno esecutivo del prestatore, in termini di diligenza normale-astratta. Tale valutazione si traduce in concreto in una valutazione circa l’idoneità del comportamento complessivo del prestatore ad essere integrabile e utilmente inserito nell’organizzazione; valutazione che come si è detto non si sovrappone completamente con quella riferita al raggiungimento del risultato produttivo assegnato o pattuito.
Se così stanno le cose per la giurisprudenza, se cioè il mancato raggiungimento dell’intensità quantitativamente attesa dal creditore non costituisce inadempimento – che, come noto, secondo le ordinarie regole di cui all’art. 1218 c.c. si presumerebbe, fino a prova contraria, imputabile a colpa del debitore – occorre che sia il datore di lavoro a provare il fatto di complesso del notevole inadempimento e soprattutto della sua riconducibilità a causa imputabile al prestatore . In altri termini, spetta al datore di lavoro la prova della colpa del lavoratore intesa in senso oggettivo, come attitudine del comportamento del prestatore a divenire inutilizzabile positivamente all’interno dell’organizzazione.
E ciò – si badi bene – quando è in discussione un discostamento quantitativo dai parametri indicati o pattuiti, significa anche provare che il deficit quantitativo imputato al prestatore non è dipeso da fattori a lui estranei come «l’incidenza dell’organizzazione d’impresa e di fattori socio ambientali» . In altri termini, la variabilità del rischio d’impresa non è addossabile sul prestatore, visto può dipendere da condizioni esterne e inconferenti rispetto agli obblighi del lavoratore (il mercato di riferimento, per esempio). Specialmente, poi, quando gli obbiettivi abbiano come riferimento un parametro economico-finanziario o attività commerciali in un mercato di riferimento, è ragionevole ritenere che molti dei fattori cui dipende il risultato esterno non siano influenzabili e disponibili per il singolo prestatore che potrebbe essersi anche applicato massimamente, ma senza alcun ritorno. Del pari il discorso è condivisibile quando, come spesso accade nel lavoro agile della flat organisation, il lavoro del singolo sia inserito in un team: le attività svolte da ciascuno sono inevitabilmente collegate all’attività dei colleghi, alla capacità dei superiori di organizzare in modo efficiente l’attività e talvolta anche al funzionamento costante degli strumenti informatici.
Va’ però precisato che, in casi estremi, la nota pragmaticità della giurisprudenza di merito, confermata dalla Corte di Cassazione , nell’accertare il nesso tra colpa oggettiva e imputabilità dello scarso rendimento, finisce per ripescare lo scarso rendimento del prestatore – quando esso coincida con un plateale allontanamento dai risultati-target dell’obiettivo atteso dal datore di lavoro – come un l’indice da cui desumere l’assenza della diligenza dovuta.
Infatti, con una valutazione di “buon senso”, la giurisprudenza abbastanza compatta facilita la prova del datore di lavoro circa l’imputabilità dell’inadempimento, sostenendo che essa sia dimostrata nelle ipotesi in cui sia possibile valutare comparativamente l’assenza di risultati raggiunti lavoratore licenziato con le performance dei colleghi. Cosicché, nell’ipotesi in cui il lavoratore si discosti notevolmente e platealmente dagli indicatori quantitativi oggetto dell’obbiettivo e sia anche possibile comparare tale deficit con le attività svolte da colleghi, cui era assegnato il medesimo obbiettivo, strutturato sulle stesse attività target, portato a termine nel medesimo tempo e nel medesimo contesto di riferimento, tale discostamento costituisce un indice presuntivo della ridotta o assente diligenza nello svolgimento dell’attività.
Inoltre, affinché la valutazione circa il contegno negligente del prestatore sia attendibile e ragionevole, la giurisprudenza ha spesso richiesto che il deficit quantitativo sia perdurante in un periodo di tempo abbastanza lungo, non potendo essere la valutazione basata su un lasso temporale breve. Tale ulteriore limite trova ragione nel fatto che, come è stato sopra detto, il mancato raggiungimento degli indicatori quantitativi non coincide con l’oggetto di accertamento del giudice che riguarda l’inadempimento e la sua imputabilità.
Per tali ragioni, entro questi limiti, il mancato raggiungimento dei risultati diviene un parametro indiretto d’accertamento del contegno esecutivo inesatto che rende giustificato il licenziamento per scarso rendimento.